Bloodshed (Cap. 1)

CAPITOLO 1

 

Sono il migliore in quello che faccio.

Ma non sempre quello che faccio è piacevole.

James Howlett Logan – Wolverine

 

Il vento soffia freddo tra gli alberi del lungo viale mentre i due uomini camminano silenziosi sul marciapiede deserto. Le serrande dei negozi sono ancora abbassate per la pausa pranzo. La temperatura invernale invita pochi avventurosi a lasciare il calore dei loro ripari, obbligati dalla frenesia in cui vivono a un fugace spuntino in una tavola calda o al bancone di un bar.

In un’altra stagione, alla stessa ora, quei marciapiedi sarebbero stati pieni di persone che si affrettavano e nell’aria, voci e rumori di un quartiere che prendeva vita in pochi secondi, avrebbero dato calore e vitalità a quell’angolo di mondo.

A marzo il sole splende ancora troppo alto.

Anche per le strade c’è poco movimento, qualche auto o un furgoncino che si attarda in un’ultima consegna. L’aria è gelida e se qualcuno avesse scommesso su una nevicata non avrebbe perso. Lungo il loro tragitto, una panchina ricoperta di foglie morte invita i due a sedersi.

Hanno lunghi cappotti e strette sciarpe al collo, i loro visi rossi per il freddo e le mani affondate nelle tasche.

“Dobbiamo per forza stare fuori? Ho il culo che mi si gela!” dice il primo mentre l’altro sorride guardando le nuvolette che escono dalla sua bocca quando parla.

“Pensa se potessimo leggere le parole”.

“Eh?”.

“Quando è freddo, si vede il nostro fiato uscire dalle bocche e sembra proprio come nei fumetti. Pensa se si potesse far uscire quel fiato a forma di lettere”.

L’amico scuote la testa.

“È per questo che mi volevi parlare? Carlo Rebo ha una nuova idea per un’altra diavoleria?”.

“Non ho nessuna diavoleria per un’altra idea” ribatte lui sorridendo.

“Sei matto” dice l’amico.

“Sai, Diego, mi piace stare qui”.

“Al freddo e al gelo?”.

“Già”.

“Non ti facevo così ascetico”.

“Infatti” replica Carlo ridendo.

Restano un po’ in silenzio finché un’auto di grossa cilindrata passa davanti a loro con un rombo assordante.

“Coglione” sbuffa Diego e poi guarda l’amico per incitarlo a cominciare.

“Mi piace scrivere” fa Carlo, “Quando ho un foglio bianco tra le mani non sopporto il suo candore e devo imbrattarlo. Il più delle volte disegno, ma ultimamente ho questo nuovo stimolo”.

“Ah si?”.

“A scuola avevamo un diario per i compiti da fare. Adesso con un pc in ogni casa sarebbe superfluo. Si condivide tutto e credo che sia questo il motivo che mi spinge a disegnare: ho bisogno del parere degli altri. Ho nostalgia comunque dei diari. Non erano solo promemoria. Ci mettevi pensieri, parole. I più audaci inventavano poesie o canzoni. Lo hai mai fatto?”.

“Qualche volta”.

Carlo scuote la testa sorridendo.

“Ho comprato una risma di fogli bianchi e conto di riempirla con il mio prossimo fumetto. È faticoso dover usare le matite, anche perché so quanto facile sia usare un computer per disegnare, però sai che il risultato è diverso”.

Diego annuisce convinto. Nell’era digitale i fumetti di Carlo erano un affronto per quelli che annaspavano per raggiungere vendite accettabili e successo.

“Forse comincio a stancarmi del disegno, chi può dirlo, ma ho cominciato a guardare la mia scrittura come fosse un disegno”.

“Comincio a perderti” dice Diego.

“Mi è sempre piaciuto disegnare e ho sempre trovato tempo per farlo. Alle medie ero il più bravo della classe, al liceo neanche a dirlo. Non sono state poche le gratificazioni che ho ricevuto sin da piccolo per le mie infantili creazioni.

Ho frequentato l’Accademia come sai, ma ho anche analizzato questa mia inclinazione al disegno come uno scienziato che studia un fenomeno naturale che non conosce”.

“Tu hai un dono, che c’è da capire?”.

“Ti ringrazio. Non bisogna essere degli scienziati per ammettere che se non si ha una buona mano, un dono, come dici, non c’è tecnica che si può imparare per fare degli ottimi disegni.

Si dice che s’insegna a chi vuole imparare, io dico che impara chi già sa. Almeno per le arti grafiche”.

“Guarda” lo interrompe Diego, “Per quello che so, i sedicenti artisti passano più tempo a curare la propria immagine piuttosto che a creare arte. Lo ricordi quel coglione sull’ultimo numero di Comics News?”.

Carlo ride e fa cenno di sì con la testa.

“Com’è che si chiama?”.

“Non me lo ricordo”.

“Vedi? È come dicevo!”.

“A suo modo è un artista” dice Carlo sorridendo, “Sai, volendo fare un’analisi freudiana, probabilmente l’abilità nel disegnare di quel tizio ha nella sua infanzia, passando per le proprie esperienze sessuali, di morte e tutto ciò che ha vissuto, le sue motivazioni più profonde. Fu proprio Freud a usare il termine sublimazione”.

“Non giustificarlo con Freud!” sbotta Diego e Carlo riprende a ridere.

 

 

“Sin dalle medie ho avuto un senso del macabro che solo uno psicanalista può analizzare con efficacia. Ricordo ancora bene alcuni bozzetti che lasciavo su qualche pagina dei miei diari dove c’era sempre del sangue o qualche morto ammazzato.

Se la memoria non m’inganna, tutto nacque da un mio cugino che mi fece vedere un suo disegno di un tizio a cui mancavano braccia e testa. Ero abbastanza impressionabile immagino e il titolo della sua opera era Holocaust 2000. Solo un foglio con un disegno che è poi diventato una delle mie graphic novel di maggior successo”.

Diego sgrana gli occhi per la rivelazione.

“Questa è bella. Sei fortunato che sia il tuo avvocato, sai? Potrei farci non pochi soldi con una notizia del genere” e gli batte una mano sulla coscia facendolo ridere ancora.

“Probabilmente” continua Carlo, “Quel disegno era per mio cugino, tra l’altro molto più grande di me, il modo per sublimare le sue paure di un nuovo secolo alle porte. Chi può dirlo? E chi può dire se quel disegno mi colpì davvero tanto da diventare una specie di archetipo per quella che poi è diventata la mia professione da adulto?

In verità capii solo al liceo cosa volessi fare da grande, ma quello che ci segna da bambini forse resta per sempre”.

Diego soppesa per un po’ le ultime parole.

“Certo”.

“Fu al liceo che espressi in modo più personale questa mia passione” riprende Carlo con tono serio, “Come sai ero stato allontanato dai miei genitori. Non era un periodo sereno e immagino che anche questo abbia contribuito allo stile. Oltre alla persona che conosci molto bene”.

Diego annuisce.

“Al liceo” continua Carlo, “Quando un amico sfogliava il mio diario e trovava un disegno la sua prima reazione era di ribrezzo. Le espressioni usate erano sempre le stesse, però i disegni piacevano, stimolavano la loro morbosa curiosità. Nella mia interpretazione quelle frasi di ribrezzo diventavano complimenti che celebravano il mio sapere disegnare così bene e in modo realistico la morte”.

“Non stai esagerando?”.

“Direi che è così che funziona” ribatte Carlo alzando le spalle, “Pensa che arrivai anche a farli su commissione e gli stessi amici che mi prendevano in giro facevano a gara per farseli disegnare sui loro diari. Non lo facevo per soldi, il compenso era la loro soddisfazione”.

“Immagino”.

“Non ho mai capito perché un’adolescente è così attratto dalla morte, questo lo lascio analizzare a chi può farlo, so solo che non c’era nessuno macabro piacere. Tutte le menzogne che sono state scritte sul mio conto anche di recente hanno in questa interpretazione spicciola delle salde fondamenta”.

Diego scuote la testa.

“C’è tutto quel casino sotto. Ne sei uscito pulito, ma il pettegolezzo è duro a morire. Non rendi le cose facili con il tipo di disegni che fai, ma sai come la penso. Le smontiamo quelle cavolate in tribunale”.

“Lo so e ti sono debitore. È così difficile credere che non ho mai provato piacere nella sofferenza? Lo sai che il sangue, quello vero, mi fa star male?”.

“Davvero?” chiede Diego, “Perché non lo sapevo?”.

“Ci sto pensando solo adesso. Scusami” dice Carlo con tono colpevole, “Un po’ ridicolo, vero?”.

“Ti sei mai fatto visitare per questo?”.

“Dicono che è un problema di pressione sanguigna, ma i miei valori rientrano nella norma tutte le volte che mi è capitato di fare un check up. Credo piuttosto che sia una paura repressa, o qualcosa del genere”.

 

 

Il sole cala e la temperatura diventa più fredda. Diego e Carlo si alzano dalla panchina e si avviano verso un edificio a pochi passi. Non hanno pranzato, ma per loro non è una novità.

Diego si tiene in forma con sei pasti al giorno, frequenta una palestra regolarmente e come avvocato gode di un’ottima reputazione. È giovane e gradevole di aspetto nonostante sia vicino al cambio di boa di mezzo secolo vissuto. Ben curato nell’aspetto, sembra perennemente ingessato anche se chi lo conosce sa che quello, al di la del lavoro, è uno stile di vita che gli piace. Vederlo al fianco di Carlo, suo amico oltre che cliente, è un pugno all’occhio.

Il fumettista copre con pallidi abiti scuri una cura del corpo non ricercata. A trenta anni dedica il suo tempo libero solo alla stesura di nuove storie. D’aspetto piacente, poco curato anche nelle occasioni d’uscite pubbliche, Carlo Rebo, conosciuto come Cerbero, era riuscito in pochi anni a costruirsi la fama di bello e dannato. Misantropo di natura era raro vederlo al di fuori del suo ufficio al centro di Roma o dal suo appartamento poco distante. Per i detrattori la sua vita era parte di un personaggio costruito a un tavolino. Chi lo apprezzava, invece, lo riteneva uno dei pochi artisti veri ancora in vita.

L’Astral, leader mondiale nella distribuzione dei fumetti, lo aveva messo sotto contratto per cifre che avevano fatto parlare gli addetti ai lavori per anni.

“Sono un disegnatore affermato e se ho lavorato per anni in una delle più importanti case editrici di fumetti non sarà certo perché passavo le notti a succhiare il sangue di giovani vergini” dice Carlo mentre si avvicinano all’androne del palazzo, “Non peccherò mai di falsa modestia perché so quanto valgo e l’ho dimostrato con il mio lavoro e posso ancora farlo, ma un conto è essere considerato un ottimo disegnatore, un conto è essere tacciati come uno psicolabile”.

“Senti, capisco ma…” fa Diego.

“È frustrante” insiste Carlo senza ascoltarlo, “Per questo voglio cominciare a scrivere. Devo mettere nero su bianco quello che sono. Devo disegnare parole, lo capisci vero?”.

Sono nell’androne del grosso palazzo in cui Carlo dimora e si riparano dal freddo passando davanti al gabbiotto del custode che li saluta con un cenno della testa.

“Certo” risponde Diego.

“Ti voglio raccontare una cosa” riprende Carlo, “Uno degli ultimi incontri che ebbi con il mio ex redattore”.

“Dimmi”.

“Prima dell’uscita dell’ultimo numero di Astral Root Achille venne, come tante volte aveva fatto in passato, a dare un’occhiata alle tavole già finite. Non ha mai espresso giudizi sul mio lavoro. Lo dico per evidenziare la libertà che dava alla mia creatività”.

“Si”.

“Quel giorno mi disse che i disegni erano troppo realistici. La cosa che mi lasciò di stucco fu lo sgomento che espresse in presenza di una tavola su cui era disegnato un cadavere che il protagonista del fumetto trova a un certo punto della storia”.

“Addirittura?” commenta Diego.

“È quello che dissi, ma non volle sentire ragioni e mi chiese di modificarle”.

“Ho visto tanti tuoi lavori” dice Diego, “Ma onestamente credo che ogni adulto sano di mente leggerebbe un tuo fumetto per quello che è: un fumetto”.

“Lo penso anche io. Ma non fu l’unico quel giorno. Gli stessi commenti arrivarono da alcuni collaboratori e perfino dal ragazzo che ci portava le pizze a cui mostrai le anteprime”.

Diego scuote la testa perplesso.

“All’inizio pensai a uno scherzo congeniato dalla redazione nei miei confronti, ma non era così. Erano anni che lavoravamo insieme e tutto a un tratto ero diventato così dannatamente realistico nei miei disegni da farli inorridire tanto?”.

“E così hai lasciato l’Astral”.

“Sì. Questa parte la conosci. È in quel periodo che ci siamo conosciuti. Pensa che il ragazzo che portava le pizze era sempre lo stesso, una specie di membro onorario del nostro gruppo di lavoro. Non ricordo nemmeno più quanti fumetti gli ho dovuto firmare. Lavora proprio laggiù” e gli indica un angolo di marciapiede sull’altro lato della strada oltre un incrocio con semaforo.

Diego porta il suo sguardo nella direzione indicatagli e nota le vetrate appannate di un locale che fa angolo con la strada. Inevitabilmente, subito dopo, sposta lo sguardo verso destra per cercare il vecchio ufficio di Carlo notando, appena nascosto da un altro edificio, a circa cinquecento metri di distanza dalla pizzeria, l’insegna dell’Astral.

“Da quel giorno cambiò tutto” continua Carlo riportando l’attenzione su di se, “Progressivamente la mia vita è stata stravolta. Feci uscire l’albo senza le modifiche e fu un successo, come sai, ma fu anche l’ultimo con l’Astral prima di mettermi in proprio”.

“Non ti è andata male, no?”.

“A che prezzo? Certe volte mi sento come un lebbroso con il sonaglio al collo. Un fenomeno da baraccone. Con il processo l’esposizione mediatica si è amplificata tantissimo”.

“E pensi che scrivere un libro possa farti conoscer meglio, aggiustare, diciamo così, questo aspetto della tua vita?”.

“Non lo so ancora. Un tizio disse una volta che scrivere è capirsi meglio, io spero che lo stesso valga per me”.

 

Raffaele Scotti

 

 

 

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