Gehenna (Cap. 4)

CAPITOLO 4

La presenza della ragazza nella distilleria Kuntz stava logorando il rapporto tra Antonin e Leo, l’equilibrio di alchimie deliranti e dinamiche compassionevoli rischiava di cedere drammaticamente.

La permanenza di Vanessa in quel luogo, che del resto non poteva più dirsi occasionale, aveva avuto ripercussioni sull’intera comunità, ne aveva risentito perfino l’organizzazione pratica della vita di Viktor.

L’arrivo della nuova venuta era stato accolto all’inizio con suprema indifferenza, seguita poi da sentimenti di ostilità per nulla dissimulati; le occhiate oblique e le espressioni irripetibili avrebbero dovuto convincere l’intrusa a rifare al più presto la strada a ritroso, se tuttavia restava doveva rendersi conto che si era scelta per soggiornare l’anticamera dell’inferno, sicché non si facesse illusioni sul trattamento e la considerazione che le avrebbero riservato.

I vari Frantisek Pavel Evgenij Hermann Alexander, nonché lo stesso Antonin, ciascuno a suo modo, sentirono l’arrivo della ragazza come un’intrusione e una minaccia per sé e per la comunità. Il buonsenso e un istinto mimetico avevano indotto Vanessa a raccogliere i lunghi capelli in due trecce legate dietro la nuca e nascoste da un fazzoletto grigio che Leo le aveva procurato, e nonostante il corpo esile e ossuto avesse in principio tratto in inganno molti, facendola credere un ragazzo, quando l’inganno fu svelato si diffuse presto la notizia che “il signorino s’era portato dietro una femmina e adesso stava con lui”.

Una “femmina” nella distilleria Kuntz era cosa fuori dall’ordinario, se per giunta giovane, poteva divenire un tormento, un’ossessione; una, in passato, sì, ma per poco e comunque non così giovane da ridestare sotto le pellacce dei residenti  frenesie e languori sopiti da tempo, ma la poverina era stata indotta a lasciare la distilleria e a cercarsi una diversa sistemazione: alla distilleria Kuntz non si volevano “femmine” tra i piedi.

Le ragioni di Antonin erano differenti, più complesse, non si limitavano a considerazioni di ordine pratico o sessuale, aspetto peraltro da lui del tutto ignorato e guardato con nobile disprezzo, ma investivano semmai “sfere” e “ordinamenti” di livello superiore, equilibri tra “sistemi occulti”, dinamiche sotterranee ignote ai più che non sfuggivano, tuttavia, al suo occhio in gradi di vedere “oltre”, al suo intuito mobile, ad un acume perforante e, non ultimo, al fatto di sentirsi portatore di una visione “illuminata” dei fatti del mondo. L’immaginazione, fervida, s’era lanciata in congetture inarrestabili: chi era costei? cosa cercava? perché era arrivata? chi la mandava? e, perché proprio una femmina? Gli interrogativi di Antonin non avevano risposte, naturalmente, ma lui ne aveva bisogno per placare l’ansia e ricondurre il tutto in un quadro accettabile e consueto di esistenza.

Vanessa, da parte sua, non vedeva, o preferiva far credere di ignorare il trambusto che aveva risvegliato nelle mente e nei corpi di quegli uomini che temeva.

Non a caso, la prima lezione che Antonin aveva impartito a Leo, quando questi approdò alla distilleria, fu: “Non fidarti mai di nessuno e non aspettarti nulla di buono da un tuo simile”. Leo aveva sorriso e Antonin si era risentito poiché aveva creduto Leo onesto, sincero e non superficiale, insomma un’anima pronta ad accogliere e assorbire le “profonde verità” che Antonin teneva per sé e non vedeva l’ora di passare ad altri. Antonin era convinto che le sue profonde verità prima o dopo sarebbero passate di bocca in bocca, di mente in mente e avrebbero contribuito a migliorare, così diceva, l’umanità e a “metterla in condizione di governarsi da sola senza bisogno di capi, di filosofi e di preti che dicessero come muoversi, cosa pensare e come agire, poiché solo allora, quando l’umanità fosse riuscita a svincolarsi dai legacci che la teneva in soggezione, non ci sarebbe più stato bisogno di Servizi che controllavano i cittadini, di spie infiltrate fin dentro le famiglie,  di informatori travestiti da preti, da innocue vecchiette e  turisti di passaggio”. Leo aveva sorriso ed Antonin si era adombrato.

Alla distilleria Kuntz Leo ci era arrivato dai portici della vecchia stazione dei tram, trasformata in deposito di ferraglia. Era lì che aveva trovato rifugio appena arrivato in città. Dormiva sotto una pensilina addossata alla parete del deposito ingombro di carcasse smembrate e lasciate ad arrugginire, cumuli di materiale che sfiorava il soffitto. Non era rimasto lì a lungo. Da subito aveva dovuto fare i conti con il capoccia di una combriccola di balordi che si considerava proprietario dell’area dismessa. Il capoccia non tardò a rendersi conto che il temperamento di Leo lo rendeva un soggetto ideale sul quale esercitare ogni sorta di sopruso, primo fra tutti il ricatto sessuale. “Devi metterti sotto la mia protezione”, disse, “ed essere disponibile a far  compagnia ai miei amici. Oh, sia chiaro che per te io sarò sempre il primo”.  E allungando una mano aveva palpato l’inguine di Leo, ridacchiando alla sua reazione scomposta e terrorizzata.

Naturalmente incline a ogni forma di oblazione di sé, Leo si sarebbe anche assoggettato, se non fosse stato per l’incessante avvicendarsi di postulanti a qualsiasi ora del giorno e della notte. Gli aveva persino predisposto un rozzo pagliericcio.

Qualche giorno dopo si sparse la voce che la “signorina” era scomparsa.

Alla distilleria Leo ci arrivò di pomeriggio, dopo aver vagato a lungo ai piedi della collina del Castello. Si era anche riproposto di percorrere uno dei sentieri che conducevano sotto le mura del Castello ma senza riuscirci. Una strana ripulsa lo trattenne a metà strada, lo costrinse a fermarsi, a contemplare dal basso l’imponenza della fastosa architettura che nei secoli si era sedimentata a formare l’attuale profilo del Castello. Lo frenava una sorta di indegnità, mentre ammirava la complessità sovrabbondante e austera della Cattedrale che affiancava il Castello.

Non aveva mai visto niente di più grandioso in uno stesso posto, Leo, a parte le pianure sterminate che circondavano il villaggio nel quale era vissuto da bambino, prima che fosse abbandonato nel primo dei tanti orfanotrofi e collegi per i quali sarebbe passato. Girovagava per le praterie senza confini e lo attanagliava un sentimento di panico, e di eccitazione anche, si sentiva minuscolo, insignificante; un sentimento che lo ammutoliva, a volte lo faceva piangere, e lo paralizzava impedendogli di andare avanti, di avventurarsi oltre un limite immaginario imposto dalla paura di smarrirsi, di annullarsi in quel vuoto che gli stava davanti, arginato soltanto dalla foresta che era una cupa sfumatura agli estremi margini di quel vuoto. La stravaganza di Leo faceva ridacchiare i coetanei del villaggio.

Quando Leo varcò l’ingresso della distilleria, dopo averne percorso il perimetro, si imbatté in Antonin, figura allampanata vestita di scuro, che andava avanti e indietro in modo frenetico. Antonin stava attraversando uno dei suoi periodi di inquietudine estrema: perché, si domandava, coloro che lo circondavano trovavano accettabile l’idea di assoggettarsi ad entità ignote e pericolose, trasformandosi in individui detestabili che facevano della delazione il loro scopo di vita? Perché non vedevano il baratro di ignominia nel quale sprofondavano le loro esistenze? Perché erano arrivati fin qui, nella distilleria? E chi aveva detto loro che lui si trovava qui? E, soprattutto, quel tipo che aveva appena messo piede nella distilleria era uno di loro?

Leo e Antonin avevano finto di non vedersi, Leo si era messo al riparo di una guardiola e da lì osservava quello spilungone che andare su e giù gesticolando con veemenza e sibilando frasi che non poteva afferrare. Antonin si era arrestato di colpo, folgorato da una delle sue brillanti intuizioni: non si sbagliava sul loro conto, e sul fatto che la malapianta della delazione, del sospetto eletto a Sistema, stesse ormai allignando anche lì, nella distilleria Kuntz; ma lui li avrebbe smascherati uno per uno i Loro emissari, li teneva d’occhio, ne spiava i movimenti, ogni gesto, quando gli riusciva anche le parole: non c’era da fidarsi di nessuno, tutti e ciascuno erano sospetti. Insomma, o tutti erano vittime del Sistema, o ne facevano parte in quanto membri, che non era poi molto differente. Adesso si trattava di inquadrare il nuovo arrivato, quello che si nascondeva dietro la guardiola, capire a quale categoria appartenesse.

Secondo Antonin, doveva senz’altro appartenere alla categoria dei succubi, degli acquiescenti, e quelli erano i peggiori, erano due volte vittime  e due volte velenosi: vittime della loro ignoranza e la loro passività a farsi strumenti del Sistema. Era altamente improbabile, secondo Antonin, che il Sistema utilizzasse individui dotati di una intelligenza capace di impensierire il Sistema stesso, il più delle volte utilizzava individui innocui, spesso ignoranti, di questo Antonin era sicurissimo, dal momento che gli ospiti della distilleria Kuntz li conosceva tutti, tranne quello che chiamavano “il signorino”, che per altro non era ancora riuscito a inquadrare in alcuna categoria, data la sua estrema riluttanza a farsi coinvolgere in chiacchierate informali e l’isolamento nel quale si era relegato. Tutte le altre erano anime ignare, ingenui che si pensavano al riparo dal Sistema ma che del Sistema erano le estreme propaggini. Non avrebbero mai compreso, quelle anime candide, che ogni loro azione, ogni pensiero, ogni respiro non sfuggiva al Supremo Controllore, pensava Antonin; ciò che quegli inconsapevoli ingranaggi del Sistema ignoravano era che essi stessi erano ormai diventati il Sistema.

Di questa sorta erano le congetture intorno alle quali Antonin andava avvitandosi, quando Leo approdò alla distilleria Kuntz.

Leo si avvicinò con un occhio all’uomo e uno all’ingresso.

“E’ questa la distilleria Kuntz?”

Antonin si arrestò, fissò con furore gli occhi dello sconosciuto e lo inchiodò con le sue parole.

“Naturalmente ti aspetti che io dica sì, è la distilleria Kuntz, non è vero, tu, avanzo degli avanzi di un banchetto di stolti. E poi? Cosa farai, poi? Te ne torni indietro da dove sei venuto, contento e soddisfatto? Dovrei credere che ti ha portato fin qui la curiosità? Il Sistema deve passarsela proprio male se si è ridotto a mandare in giro i suoi mastini travestiti da pagliacci. Davvero credi che non sia in grado di riconoscervi, voialtri? Sentiamo, cosa sei  venuto a fare qui?”

Leo doveva fare una gran fatica per trattenersi dal ridere in faccia ad Antonin e tuttavia provò una grande tenerezza, e poi trovava divertente il delirio di quell’uomo.

“Mi chiamo Leo, cerco solo un posto per dormire.”

Leo allungò una mano e sorrise. Continuò a sorridere anche quando Antonin lo squadrò attraverso le palpebre socchiuse, mentre sollevava il sopracciglio sinistro e lasciava intravedere i denti attraverso un tremolio delle labbra che Antonin non riusciva a controllare.

Mandalo via, pensò allora Antonin, sbarazzati di lui, non ti fidare, non lasciarti ingannare da un sorriso, tutti sono capaci di fingere cortesia, caccialo via, è solo uno di Loro.

“Perché proprio qui?”

“Non so muovermi in questa città, e questo posto mi è stato indicato da un tale… l’ho conosciuto alla vecchia rimessa dei tram.”

“Il nome!”

“Non saprei, non credo che avesse un nome.”

“Sapevo di cani senza nome, ma un tale che non ha nome, è davvero la prima volta.”

“Oh, perdonami, pensavo dicessi il nome della vecchia rimessa. Era un tipo che frequentava la rimessa come me, non c’è stato tempo per le presentazioni, l’avrò incontrato un paio di volte in tutto, non so.”

“Perché sei venuto via  dalla rimessa? Altre vite da spiare? Altri nomi da riferire? A me puoi dirlo, io li conosco i Loro metodi.”

Leo emise un sospiro di sconforto.

“Te l’ho detto, sono qui solo per un posto, niente di più, e per quanto riguarda il motivo che… insomma il perché sono scappato dal deposito, bah, non so come dirlo, è stato per…”

Ecco, pensò Antonin, ci siamo, adesso lo dirà. Dirà che in quel posto non ci poteva più stare perché si era bruciato, era stato smascherato e rischiava di essere intercettato, eh, lo sapevo, pensò Antonin.

“Sono dovuto scappare dal deposito perché… Non posso, perdonami, proprio non posso.”

Certo che non può, pensò Antonin, non può parlare, non può svelare la sua vera identità, ecco perché ci sta girando intorno.

“Dunque non sei in grado di dirmi perché hai deciso di lasciare la vecchia rimessa dei tram e venire a stare qui, proprio qui nella distilleria Kuntz, in questo Eden per disgraziati? Uhm, mi sembra piuttosto strano, non ti pare?”

“Te lo ripeto: sono qui per trovare un posto dove stare, sono qui perché non conosco la città, sono qui perché questo posto mi è stato indicato da un tale che ho conosciuto, non ti basta? Allora, cosa bisogna fare per restare?”

Leo piagnucolò, ma poi fissò Antonin negli occhi, sforzandosi di smettere l’espressione supplicante, e aggiunse: “Ma poi tu chi diavolo sei, sei forse il padrone di questo giardino di delizie?”

“Ah! Ecco il punto. Chi sono io. Qualche lustro fa, ti avrei risposto: sono un cittadino di questa nazione, faccio il mio lavoro con coscienza, un uomo semplice e onesto che vive tranquillo con la sua donna, che l’aspetta a casa; ti avrei detto: sono un cittadino ligio che paga le tasse, che crede di vivere in uno stato libero che ha a cuore la sorte dei suoi cittadini, che è convinto che quanto di meglio si possa immaginare per la propria esistenza e quella degli altri sia qui, su questa terra, in questo stato, con queste leggi e così via, mi segui?”

Leo annuì. Antonin prese un respiro.

“Ma questo accadeva secoli fa. L’uomo che adesso hai davanti è cambiato, è un uomo diverso, lucido, consapevole, disincantato; davanti a te hai uno che ha aperto gli occhi e la mente; e ha una missione: aprire gli occhi e la mente dei suoi simili. Su cosa? Ebbene, ti risponderò: non siamo liberi, non siamo felici, la nostra vita non è nelle nostre mani. Siamo solo marionette. C’è chi controlla i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre intenzioni. Chi è che ci manovra? Ebbene, io ti dico: quello che nessuno conosce, io lo conosco, quello che nessuno sospetta, io lo sospetto, quello che tutti credono di sapere, io lo so per certo… Ma per certe verità bisogna essere pronti, non le si può guardare in faccia come fossero tabelloni pubblicitari, ci va del tempo, molto tempo, bisogna esserne degni. E tu, ad occhio, dubito che sia pronto.”

Leo rimase ammaliato dal ragionamento di Antonin, si sentiva stordito, scombussolato, non seppe cosa rispondere, anche se più volte era stato sul punto di interrompere Antonin per chiedergli spiegazioni intorno a punti oscuri della sua teoria, tuttavia non riusciva ad individuare un punto di crisi nei suoi ragionamenti, perciò se ne rimase in silenzio. Vide Antonin allontanarsi verso il fondo del cortile, in direzione di un capannone mezzo diroccato e dopo una ventina di passi lo udì urlare: “Allora, ti muovi o hai intenzione di piantarti lì come un palo.”

Antonin prese Leo con sé, lo ospitò nel gabbiotto del vecchio deposito di vinacce. Il gabbiotto era situato in fondo al deposito, per arrivarci bisognava zigzagare tra grandi vasche e scavalcare quel che restava di una rete di scolatoi tracciati sul pavimento. L’ambiente conservava, nonostante decenni, un inconfondibile afrore di uva marcia e muffa, e tutt’intorno, dal tetto e dai finestroni scoppiati, erano evidenti le tracce di umidità che colavano verso il pavimento in macchie brunastre che parevano stalattiti.

Antonin non amava dividere il suo spazio e faceva fatica ad accettare l’idea che individui della sua stessa specie affollassero il suo mondo, nei confronti di questi ultimi aveva sviluppato un’idiosincrasia senza ritorno, motivata da quella che Antonin definiva “il quotidiano spettacolo dell’umana indegnità”. Tuttavia, col tempo Antonin e Leo, riuscirono a trovare degli accomodamenti che resero la loro convivenza non più disagevole di una grigia giornata di pioggia. Del resto Antonin era spesso in giro e a Leo non rimaneva che aspettare il suo ritorno.

Antonin conosceva a memoria la Città Vecchia, alla Città Nuova non dedicava soverchia attenzione. Di solito si mescolava a gruppi di turisti, ai quali non sfuggiva il suo abbigliamento trasandato e sporco, infatti veniva spesso additato e scostato, alimentando in lui l’idea che i turisti avessero qualcosa da nascondere. Spesso sostava davanti a un locale o ad una rivendita di giornali, sempre gli stessi, o all’angolo di un negozio di souvenir, o ai piedi di una statua equestre che osservava il viavai dei turisti con aria severa. La frequentazione della Città Vecchia lo aveva reso un personaggio noto nell’ambiente dei venditori e dei vetturini, e i vetturini erano i suoi migliori informatori, sosteneva Antonin.

Quando lo vedevano arrivare, i vetturini si davano di gomito, spesso gli facevano credere che ci fossero delle grandi e inattese novità, e fingevano  di meravigliarsi che solo lui fosse all’oscuro di fatti che perfino i loro clienti conoscevano. Di solito i vetturini si sfidavano a chi la sparava più grossa. Una volta, per esempio, gli raccontarono di avere saputo da fonti attendibili che il Governo si stava preparando a stringere un’alleanza con una potenza straniera per reclutare e addestrare agenti da infiltrare tra gli allevatori di piccioni viaggiatori, che una terza potenza utilizzava per tenere sotto controllo le statue e i monumenti della città, che in realtà erano delle stazioni trasmittenti camuffate. Oppure che si era visto in giro un tipo sospetto mandato da Roma, per verificare se fosse vera la voce che la distilleria Kuntz era un centro di contropotere che preparava l’avvento dell’Anticristo, e che tutta la zona era tenuta sotto severissimo controllo e prima o poi la polizia avrebbe fatto irruzione, arrestato i partecipanti al complotto e raso al suolo la distilleria, e perciò lui tenesse gli occhi ben aperti e si guardasse da tutti.

Antonin beveva ogni fandonia e la covava con infantile senso di mistero. Purtroppo, però, non c’erano solo buontemponi nella Città Vecchia. Antonin aveva conosciuto figuri senza scrupoli, al servizio di individui che dallo scrupolo si tenevano ancora più diligentemente alla larga. Costoro vantavano legami internazionale e capitali da multinazionale. Quelli che Antonin aveva conosciuto erano infimi addentellati di una poderosa organizzazione, erano minutaglia di sradicati, clandestini, avanzi di galera, aspiranti papponi, che spesso lo avevano agganciato coi pretesti più banali.

C’era, per esempio, Karel ‘polliceverde’, che teneva sotto controllo lo spaccio minuto di erba e avvicinava i turisti con garbo, sussurrando loro parole incoraggianti. C’era Vaklav, che ti sapeva consigliare e indirizzare verso i più rinomati bordelli della città, dei quali conosceva i nomi e le specialità. C’era l’Albanese, che sostava nello stesso posto, appoggiato allo spigolo della Torre d’Oro a veder scorrere la calca di turisti apparentemente senza nient’altro da fare che lasciarsi scivolare il tempo addosso. E ancora Bedrich, galoppino e collettore di scommesse che alimentavano le numerose bische clandestine, raccoglieva scommesse su tutto. E poi Anatoly, procacciatore di minorenni, organizzatore di costose serate a base di alcool, neve e giovanissimi corpi, all’occorrenza allestitore di rustici set di posa, i cui prodotti facevano la gioia di estimatori internazionali di vergini implumi.

Dai turisti Antonin elemosinava spiccioli preziosi, le spese erano aumentate con l’arrivo di Leo, il quale detestava atteggiarsi a pezzente, e solo dopo faticosi ammaestramenti sulla natura impersonale dei gesti, si era convinto ad allungare una mano nei vicoli della Città Vecchia.

Quando Vanessa arrivò alla distilleria Kuntz, la convivenza tra Antonin e Leo procedeva pigra, i temperamenti si erano smussati, i ruoli definiti e adattati alle condizioni e alle necessità. Antonin imparava ad apprezzare gli aspetti più sconcertanti della personalità di Leo e riscopriva l’arrendevolezza, la passività. Non si irritava più quando Leo si lasciava andare ad atteggiamenti seduttivi, quando reclamava attenzione e tenerezza, quando vi si strofinava addosso per sentire l’odore del suo corpo. Antonin accoglieva queste manifestazioni da quel maschio che sentiva di essere: provava a schermirsi, ad allontanare Leo con pretesti imbarazzanti, tuttavia imparò ad accettare l’idea che qualcuno si curasse di lui, mostrasse tenerezza nei suoi confronti. In quei momenti Antonin non solo smetteva la posa di vittima illuminata, o quella di ammaestratore, ma ritrovava la sua dolcezza, la remissività sepolta sotto una scorza ruvida, le sue emozioni si scioglievano e sentiva che era bene per lui, per il corpo e la mente tormentata; riusciva perfino ad immaginare un lungo e indefinito futuro nel quale sarebbero rimasti per sempre insieme, lui e Leo. Antonin coinvolgeva Leo in progetti di trasformazione della loro condizione e addirittura della catapecchia che abitavano. Aveva preso a trascorrere sempre più tempo in casa, Antonin, nel deposito di vinacce che adesso gli pareva un posto per niente detestabile, si mostrava apprensivo ogni volta che Leo si allontanava. Insomma, se avesse avuto un po’ più di coraggio, qualche pregiudizio in meno, la forza di scoprirsi e ammettere davanti a Leo quello che la convivenza stava diventando, Antonin avrebbe dovuto dichiararsi innamorato.

Ma non lo fece, non immediatamente e a parole.

Vanessa ignorava, naturalmente, la natura del legame che univa Leo e Antonin, all’inizio aveva cercato solo qualcuno che le facesse compagnia, poiché la vicinanza di Viktor non le bastava; aveva esplorato il parco, i resti della casa padronale, ma aveva bisogno di qualcuno che la ascoltasse, che le parlasse, una voce che le rivolgesse delle domande e le spiegasse, se ne era capace, su quale pianeta era finita. Tutto ciò non le sarebbe venuto da Viktor, perché Viktor questo mondo nemmeno lo vedeva, ci passava in mezzo come un fantasma.

A Leo ci era arrivata per caso, e Leo le consigliò di tagliarsi i capelli, “darai meno nell’occhio”, le disse, e aggiunse, “sta’ tranquilla, rimarrai carina anche con i capelli corti… io li conosco i maschi, sarebbero capaci di tutto. Dammi retta, tanto poi ti  ricrescono.”

Anche Vanessa conosceva i maschi e supponeva che fossero dovunque tutti uguali, ma che ne parlasse un maschio le sembrò insolito.

“Com’è che li conosci gli uomini?”

Leo guardò Vanessa con un sorriso amaro e le accarezzò i capelli.

“Certo è un peccato tagliarli, ma vedrai che ricrescono.”

“Non hai risposto alla mia domanda, com’è che li conosci?”

“Ti sembra strano? In fondo sono un uomo.”

“Lo so che sei un uomo, ma anche una donna, anch’io potrei dire la stessa cosa, anch’io potrei dire di conoscere gli uomini, ma non so se è la stessa cosa. Non so come spiegarti.”

Leo prese una mano di Vanessa e si avviarono verso i ruderi della casa padronale, attraversando il parco di cedri che resistevano saldi e imponenti a dispetto del tempo che aveva visto l’oblio dei Kuntz e la decadenza del loro minuscolo impero.

“Sono un maschio e posso guardare gli altri maschi senza paura, senza vergognarmi di quello che sono, quando i maschi mi guardano, invece, hanno paura di me, per questo mi trattano male.”

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché dici che hanno paura di te?”

“Perché è come se si guardassero in uno specchio… mi disprezzano… ma poi mi cercano. Comprendi quello  che voglio dire?”

“Non sono sicura.”

Leo rise e si protese per abbracciare Vanessa, la ragazza si irrigidì, fece per districarsi ma Leo la rassicurò.

“Non aver paura, non ci sto provando, non ci penso nemmeno. Però devo dirtelo: hai un corpicino davvero delizioso.”

“Non prendermi in giro, e non parlarmi così.”

“Che ho detto di male? Ti ho solo fatto un complimento…una cosa così…non temere.”

“Scusa! E’ che non posso… non voglio. Ce li ho ancora tutti davanti agli occhi.”

“Chi? Ehi, con me puoi parlare. Siamo amici, no?”

Quel che restava della casa padronale, che un tempo aveva custodito voci, schiamazzi giovanili, bisbigli e gridolini di complicità e passione, i sospiri luttuosi che la morte aveva elargito, si apprestarono ad accogliere, questa volta, il racconto di due vite storte.

Via via che Leo e Vanessa si raccontavano, cresceva in entrambi un sentimento di vicinanza, una compassione e una comunione alimentata dal dolore che ciascuno custodiva dentro di sé e al quale si teneva aggrappato come unico, insensato, necessario strumento di navigazione.

A Vanessa non pareva vero che un uomo potesse stare ad ascoltarla, potesse comprenderla e soprattutto non la guardasse con gli occhi dell’istinto e della voglia cieca di saltarle addosso, prendere il suo corpo a pezzi e poi metterla via come un oggetto non più utile. I racconti di lei suscitavano in Leo un sentimento di identificazione, molto di quello che la ragazza aveva vissuto gli apparteneva, soprattutto l’idea che il suo corpo fosse stato oggetto di disprezzo, di scherno, un corpo senza identità, senza una mente, senza sentimenti, incapace di avvertire dolore, insomma senza volontà.

“Com’è che parli la mia lingua?”, chiese infine Vanessa.

“Ci obbligavano a studiarla. Era la lingua dell’impero, non lo sapevi?”

“Anche Viktor la conosce. La parla abbastanza bene. Che te ne sembra?”

“Della tua lingua?”
“No, non della mia lingua, scemo, di Viktor, che te ne pare?”

“Non so niente di lui. Del resto, qui dentro nessuno sa niente di nessuno, a chi importa! Quando sono arrivato alla distilleria lui c’era già, Antonin ne parla con molta diffidenza. Ma non è una novità per lui. La diffidenza e il sospetto sono gli occhiali con i quali Antonin guarda il mondo, perciò non mi stupisco più quando vede nemici dappertutto, compreso il tuo Viktor. A proposito, lo sapevi che tutti qui dentro lo chiamano ‘il signorino’?”

“Come mai?”

“Non lo so, da quando sono qui non  mi ha mai rivolto la parola, e da quello che so ha delle strane abitudini.”

“Già”, disse Vanessa, “esce solo di notte e sempre da solo, quasi sempre. Lo chiamano ‘il signorino’. Non so se Viktor ne sia al corrente, anche se poi credo che per lui non faccia molta differenza. Quello che non riesco a capire è come se nascondesse un segreto… non so, un dolore. A volte mi è capitato di fantasticarci sopra e tutte le storie che sono riuscita a immaginare finiscono sempre allo stesso modo: nella vita di Viktor c’è stata una donna, non una qualsiasi, voglio dire una donna che gli ha segnato la vita, che lo ha scombussolato, messo sottosopra. Capisci cosa voglio dire?”

“E’ quello di cui tutti sognano e di cui tutti hanno paura: un amore travolgente, senza limiti e regole, una passione unica e definitiva che alla fine ti uccide, la grande fatale passione”, declamò Leo teatralmente, e rise.

“Non fare lo stupido, parlo sul serio. Davvero, nella vita di Viktor deve esserci un segreto terribile.”

“Hai provato a chiederglielo?”

“Stai scherzando! E chi ne avrebbe il coraggio, e poi è già difficile sentirgli dire mezza frase, figurati! Non so, non siamo ancora al punto di scambiarci confidenze, e gli uomini  non sono tutti come te, caro”, disse Vanessa in tono canzonatorio.

Seguirono altri incontri dopo questo primo, sempre più frequenti e ricercati da entrambi. In uno di questi Vanessa esordì chiedendo: “Ti piace il mio nome?”

Leo rispose che lo trovava un nome piuttosto comune, quasi banale, suscitando il risentimento di lei.

“Rispondi: ti piace il nome Vanessa?”

“Non saprei cosa dire, non mi sono mai fermato a riflettere su un nome, sul mio o quello degli altri, semplicemente ce l’ho, è il mio nome e questo mi basta, non ho mai chiesto a nessuno perché mi avessero affibbiato questo nome. Vanessa è un nome, se qualcuno ti chiama ti volti, se i tuoi hanno deciso di darti questo nome avranno avuto le loro ragioni.”

“No, cioè, non è il mio. Vanessa non è il vero nome, non me lo hanno dato i miei genitori.”

“Non ti chiami Vanessa? E’ uno scherzo! Guarda che non abbocco, ti avverto.”

“Non è uno scherzo, Vanessa non è il mio vero nome. Me lo hanno dato quando sono arrivata in questa città, me lo ha dato il tipo che ci aveva in consegna, ‘da adesso ti chiamerai Vanessa, se qualcuno te lo chiede, se ti ferma la polizia e ti fa domande, tu dirai che il tuo nome è Vanessa e basta…dimentica il tuo vero nome e non ti azzardare a dirlo in giro altrimenti’, Vanessa non è il mio vero nome.”

“Allora qual è?”

“Mi chiamo Olga. Olga è il mio vero nome e tu sei il primo a saperlo, nemmeno Viktor lo sa, lui sa che mi chiamo Vanessa.”

“Perché non glielo hai detto, in fondo di lui dovresti fidarti?”

“Non so, non so il perché, non è che non mi fidi, è che siamo come due estranei, parliamo poco, anzi. Gli ho detto che avevo sedici anni e mi chiamavo Vanessa, la sera che ci siamo incontrati. Ero spaventata, ero sola, non conoscevo nessuno. Quando Viktor si è avvicinato  non sapevo cosa pensare, non sapevo chi fosse, non sapevo cosa aspettarmi. Mi è venuto di dirgli che mi chiamavo Vanessa, pareva che avessi dimenticato il mio vero nome, come se Olga non esistesse più. Capisci? Olga sembrava morta per sempre. Morivo ogni giorno un po’ alla volta. A che serviva ricordare il mio vero nome? Pensavo che sarei morta come Vanessa. Così ho fatto l’abitudine a sentirmi chiamare Vanessa anche da Viktor, ma detto da lui ha un suono diverso, e così non sono più riuscita a trovare il modo per dirgli la verità, mi sembrava di tradirlo. E poi non so come fare a dirgli tutto il resto.”

“Lo troverai un modo per raccontargli tutto, vedrai, in fondo si tratterebbe della verità e nella verità non c’è niente di male, non è colpa tua.”

“E di chi, allora? Se fossi stata più attenta, se non mi fossi fidata del primo venuto che mi chiedeva di fare una passeggiata. Sono stata una stupida. Me lo sono meritato.”

“Non pensarlo nemmeno, hai capito? No, nemmeno per scherzo, non devi pensare che quello che ti è successo sia colpa tua, no, non devi se vuoi ricominciare a chiamarti col tuo vero nome.”

“Cosa allora, cosa devo pensare?”

Leo stette a lungo in silenzio.

“Ci sono domande alle quali è difficile dare risposte, sembrano domande più grandi di noi. Forse era destino. Ma quello che non devi fare è pensare che sia colpa tua, devi solo pensare che la tua vita è appena cominciata e…”

Leo si interruppe, stava per dire è nelle tue mani, puoi farne ciò che vuoi, puoi prendere la strada che preferisci, ma non lo disse, non poteva. Non poteva pronunciare quelle parole senza ingannare se stesso e la ragazza, non lì, nella distilleria Kuntz. Da dove sarebbe dovuta ripartire per rimettere insieme i cocci della sua giovane e già dissestata esistenza? No, quelle parole Leo non poteva proprio pronunciarle, allora tacque.

“A cosa pensi?”, chiese Olga.

“Penso che dovremmo uscire, andare in giro come due turisti, che te ne pare?”

“Sei impazzito! Con quelli che sicuramente mi stanno cercando. No, non se ne parla nemmeno.”

“Credi che sia così  facile scovare una persona in una città come questa? Credi davvero che ti stiano ancora cercando? È passato tanto tempo, si saranno rassegnati, faresti bene a non pensarci più. Comincia a pensare a quello che ti sta davanti e dimentica, se puoi, quello che ti sta alle spalle, sono sicuro che uscire da questa fogna ti farà bene.”

“Non lo so, ci devo pensare”, disse Olga, e poi aggiunse a voce bassa: “Sono tante le cose a cui devo pensare.”

Antonin, intanto, era stato ripreso dal delirio e si era naturalmente arreso. Come un animale con la primavera, aveva fiutato quel che di nuovo era intervenuto nella vita del compagno e a modo suo ne aveva risentito. Aveva ripreso a presentire complotti, a immaginare nemici, era ridiventato inquieto e pensoso. Si era fatto diffidente perfino nei riguardi di Leo, lo spiava, lo seguiva fuori e dentro la distilleria. La sua febbrile immaginazione non si era rivolta contro la ragazza, né Antonin rimproverava Leo di trascurarlo in favore di Olga, no. L’immaginazione di Antonin era semplicemente tornata ad avvitarsi su se stessa, a ripercorrere sentieri noti, a rivoltarglisi contro in un delirio persecutorio nel quale le aspettative, le fantasie di una futura vita in comune, il ricordo dei momenti di tenerezza si imbevevano di una linfa velenosa che gli appestava la mente. Antonin, naturalmente, era convinto che tutto ciò avvenisse  non  già nel  martoriato teatrino della sua mente, ma lì fuori, e gli interrogativi legittimi circa la tenuta della relazione tra lui e Leo si mutarono in cupi presagi circa le sorti dell’umanità.

Antonin non parlava più come un tempo con Leo, semplicemente ne diffidava, non gli permetteva di avvicinarlo con frivoli pretesti, lo teneva a distanza con occhiate indagatrici e feroci. Aveva obbligato Leo a ridistribuire lo spazio del gabbiotto, imponendogli restrizioni di movimento e il divieto assoluto di invadere la sua parte di spazio, e alle rimostranze di Leo Antonin ribatteva che bisognava essere pronti a tutto, che si stava avvicinando un tempo di dolore nel quale non avrebbero avuto più valore i legami, di sangue di sentimento di sesso o vicinanza, cose che a suo dire fiaccavano l’intelligenza e favorivano il nemico.

Leo aveva intuito e non sottovalutava le stravaganze del compagno, provava compassione, e un profondo senso di frustrazione ogni volta che aveva cercato di portare Antonin ad affrontare apertamente il problema, cioè la sua vicinanza con Olga, nome che Antonin non avrebbe per nessuna ragione pronunciato. Perciò Leo aveva dovuto rinunciare, per ora, all’idea di un avvicinamento tra Olga e Antonin.

Non rinunciò, invece, a frequentare Olga, anzi la complicità tra i due si fece sempre più stretta. Leo era riuscito a convincere Olga ad abbandonare, per una volta, il nascondiglio e affrontare la città, e lei aveva ceduto non perché ne sentisse la mancanza, ma perché le sembrò ingeneroso non cedere alle accorate insistenze di lui. I capelli tagliati corti, Olga affrontò nuovamente la strada al fianco di Leo, che la teneva sotto braccio.

Ma non andarono lontano. Ai piedi della collina del Castello Olga si imputò come un mulo, decisa a non andare oltre, non avrebbe attraversato il ponte, né l’invisibile linea nera marcata del corso del fiume, oltre la quale c’era la Città Vecchia, i fantasmi della sua vita recente, occhi che immaginava in agguato. A stento Leo riuscì a convincere Olga ad avvicinarsi al parapetto del lungofiume, a fare quattro passi su e giù lungo il viale che lo costeggiava, e per tutto il tempo Olga si era tenuta a Leo per paura che le sfuggisse, che scivolasse via e la lasciasse sguarnita, scoperta, esposta agli sguardi dei passanti, tra i quali avrebbe potuto esserci il suo carceriere di un tempo.

Di certo non avrebbero incrociato Antonin, che invece piantonava col suo andirivieni l’ingresso della distilleria attendendoli al varco. Quando li vide tornare, Antonin si immobilizzò come un segugio, quando Leo e Olga gli si avvicinarono si irrigidì, e quando Leo lo salutò, gli rivolse un’occhiata sprezzante. Leo temette per Olga, e invece lo disorientò la cerimoniosità con la quale Antonin si rivolse a Olga, un garbo che non immaginava facesse parte delle corde di Antonin, un sussiego e una mitezza dello sguardo che suonavano sospetti.

“E’ un onore fare la sua conoscenza… permette”, disse Antonin e allungò una mano per prendere quella di Olga e simulare un baciamano. Leo ridacchiò ma non intervenne.

“Come avrà avuto modo di constatare, qui nella distilleria Kuntz le cose procedono per il verso giusto, per fortuna questa è una zona tranquilla, non si rileva la presenza di … ehm … elementi che potrebbero minacciare la stabilità del Sistema, non so se comprende. Oh, mi perdoni, lei certamente comprende, intendevo dire spero che le mie parole siano state sufficientemente chiare in proposito. Del resto, suppongo che nei suoi lunghi colloqui col mio… col signor Leo avrà avuto modo di approfondire tutti gli aspetti che una prolungata e forzata permanenza di persone nella stessa area possono determinare, ed è proprio per questo che la nostra attività, la nostra, diciamo… attenzione si è ultimamente intensificata al fine di tenere sotto discreta ma attenta sorveglianza movimenti o persone che potrebbero, come dire!, forzare quell’equilibrio indispensabile e, insomma, non devo star qui a dirle cose che lei già conosce. Piuttosto, volevo informarla che mi sentirei onorato se volesse venire a farmi visita nella mia modesta dimora, s’intende se non ha altri impegni più gravosi”, e così dicendo aveva rivolto uno sguardo ammiccante a Leo, ma Leo non aveva aperto bocca.

Antonin aveva concluso congedandosi con un inchino che a Leo era sembrato piuttosto servile, e si era allontanato lasciando Olga e Leo a guardarsi stupiti, incerti se scoppiare in una fragorosa risata o preoccuparsi seriamente, tanto più che, fatti pochi passi, Antonin era tornato indietro e aveva bisbigliato a Olga: “Stia molto attenta, non si fidi delle apparenze, non si fidi degli amici e si guardi dai nemici, quelli potrebbero diventare questi”. E aveva fissato a lungo Olga con un’espressione non più servile; e pronunciando le ultime parole aveva serrato le palpebre e stretto le labbra in una smorfia che a Leo era sembrata minacciosa.

Dopo quell’incontro Antonin aveva  cominciato a rivolgersi a Leo con frasi oscure, che in un modo o nell’altro alludevano a Olga e avevano lo scopo di metterlo in guardia nei suoi confronti, cercando di fomentare il sospetto che la ragazza fosse un’infiltrata, e aveva insistito sul fatto che “nei confronti di certa gente bisogna mostrarsi accondiscendenti, perfino servili se necessario, bisogna dissimulare il proprio pensiero per avere la libertà di pianificare una strategia di reazione e, soprattutto, tenersi pronti”.

L’aspetto più comico di quella strategia preventiva fu l’abitudine che Antonin prese di sbarrare con pali e masserizie l’ingresso del deposito di vinacce. Era capitato di frequente che Leo rimanesse fuori casa e fosse costretto, oltre che implorare Antonin di farlo entrare, a trovarsi rifugi di fortuna, diverse notti le aveva passate all’aperto dove capitava. Una di queste notti s’era sistemato nei pressi della tana di Grigorij detto ‘tredita’:  in tre  chiacchieravano intorno a un braciere nel quale ardevano due ciocchi di betulla strappati agli esemplari superstiti all’interno della distilleria, e quello che Leo sentì quella notte non gli piacque per nulla.

 

Francesco De Nigris

 

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