Gehenna (Cap. 3)

CAPITOLO 3

A quest’ora di sera nella distilleria Kuntz s’era adunata l’orda di quanti non chiedevano che d’essere dimenticati, alla distilleria trovavano un buco dove nascondersi e fingere d’avere un tetto. Ci si contendeva un posto con la stessa disperata ferocia di un naufrago che sottragga a un compagno di sventura centimetri quadrati su una zattera. Si rendeva confortevole la tana raccattando in giro quel che poteva tornare utile: cartoni per tappezzare pareti, stracci per buchi e fessure, vecchi giornali coi quali fabbricarsi una seconda pelle e ripararsi dal freddo delle notti d’inverno.

C’erano depositi cadenti, alla distilleria Kuntz, grandi capannoni ai quali il tempo aveva sottratto inesorabilmente i tetti tegola per tegola, l’edificio centrale e la tozza ciminiera resistevano intatti, e poi una miriade di ambienti invasi da ortiche, cardi selvatici, gramigna. Le dispute all’interno di quel che restava della distilleria erano frequenti.

A ridosso della tozza ciminiera, nella parte più arretrata della distilleria, oltre i magazzini, Viktor aveva la sua tana, che abitava per lo più di giorno. A quest’ora di sera Viktor vagava già per la Città Vecchia in compagnia di fantasmi che prediligevano il silenzio, la densa penombra, il tonfo di passi che echeggiavano tra vicoli quasi deserti, estraneo al brulicare del giorno e ignaro delle trame che si tessevano all’interno del recinto della distilleria Kuntz, nel quale per i più era “il signorino”, appellativo affibbiatogli da un coinquilino suo confinante.

Era stato spiato, Viktor, ogni suo gesto studiato, soprattutto quando pareva che si intrattenesse in segrete conversazioni con voci e volti invisibili.

A quest’ora di sera nella distilleria Kuntz capitava di scorgere nere ombre che si aggiravano silenziose, era arduo discernere se fossero cani o uomini, giacché i secondi si mescolavano ai primi nell’inesausta ricerca di qualcosa da mangiare. Bestie e uomini si muovevano con la medesima libertà, con la stessa apparente anarchia, che a un occhio estraneo doveva apparire l’unica legge che li governava. A poco serviva la consapevolezza che tra i cespugli di ailanto, le chiazze di camomilla bastarda e le distese di avena selvatica avrebbero potuto cercare per ore invano, ricavare un misero bottino di fondi di bottiglia, cartacce unte da ispezionare, sacchetti nei quali i cani avevano già infilato musi rinsecchiti e avidi, o qualche avanzo che perfino i topi avevano lasciato indietro.

Non di rado, nella distilleria Kuntz, la necessità svegliava il primitivo istinto di aggregarsi e combinare incursioni nel dominio confinante dei cani, e la vittima prescelta era sovente la più docile, la più sottomessa e meno sospettosa, e se oltre a tutto aveva la sventura di essere la meno macilenta, la tristezza per la perdita era bilanciata dal senso di sazietà che teneva lontano la malinconia.

A quest’ora della sera, preludio della notte, nella distilleria Kuntz c’era chi non dormiva, non riusciva a prendere sonno e si girava e rigirava, e allora capitava che si alzasse dal giaciglio e si aggirasse solitario per cercare di allontanare pensieri molesti, fantasie ossessionanti, desideri irrealizzabili. A meno di non rivolgere la propria attenzione verso qualcuno tra quelli che avevano scelto quel limbo per recludersi, perché non c’era paradiso che volesse accoglierli, né un inferno all’altezza delle loro disperazioni. Aveva, allora, inizio un penoso peregrinare di tana in tana, di nascondiglio in nascondiglio, in cerca di un corpo disposto a condividere il proprio calore con quello di un estraneo, a fondere le proprie illusioni con quelle di un altro. Non si stava a badare se quel corpo avesse o meno conservato una residua capacità di seduzione, se fosse giovane e sodo oppure avesse ceduto la giovinezza, la salute, la prestanza e la volontà in un baratto infame che gli assicurava di sopravvivere a se stesso. A molti, prima o dopo, era capitato di assaggiare carezze ruvide, di respirare fiati stomachevoli, di aprirsi, sia pure con riluttanza, ad accogliere in sé un seme sterile, già morto; in quei brevi momenti di trasporto ci si illudeva di non essere soli, di non essere dei relitti, di poter disporre di un orizzonte che varcava i limiti del muro di cinta; capitava di desiderare che quegli attimi di estasi irregolare, rubati all’indifferenza e all’insignificanza, durassero per sempre, si dilatassero fino a colmare per intero il Tempo, il quale sembrava essersi originato proprio allora, nel momento in cui i corpi si tendevano fingendo di amarsi. Ma non durava, e la bolla si dissolveva con i deboli fiotti. Il mondo, allora, riacquistava i confini consueti, gli stessi angusti orizzonti nei quali girava a vuoto l’esistenza di ciascuno. Ci si riconosceva, dopo essere affondati e riemersi dal tepore di una passione fuggevole, e ci si detestava come prima che il mondo si fermasse, sospeso al di sopra di sospiri e rantoli, stupito che da un groviglio di membra laide potesse ancora esalare il profumo dell’amore.

Ma a volte quegli incontri clandestini non restavano senza conseguenze. In quel territorio senza legge né bandiera, capitava che dall’umanità oltraggiata, dalle macerie che il rancore e l’indifferenza si erano premurati di accatastare sulle esistenze individuali, nascessero relazioni che assomigliavano ad amicizie, sia pure difettose, allignassero sentimenti e legami che difficilmente il mondo, fuori, avrebbe potuto tollerare. Come il legame di sudditanza che teneva insieme Antonin e Leo, cinquant’anni il primo, trenta il secondo. Antonin aveva visto la trasformazione della distilleria Kuntz in ciò che col tempo era diventata, era stato uno dei primi a sceglierla, quando di colpo s’era trovato senza casa, senza lavoro e senza un centesimo per portare la sua donna a divertirsi. La vita con lui, andava ripetendo la donna, era diventata impossibile, così un mattino, al risveglio, Antonin aveva trovato l’altra metà del letto vuota. Come molti, era passato di marciapiede in marciapiede, di stazione in stazione, assaporando la fame, il freddo e qualche colpo di coltello; aveva sperato, prima o dopo, di rientrare nel mondo almeno da una porta secondaria, ma le aveva trovate tutte sbarrate, e quando il mondo aveva cominciato a sembrargli ostile, quando aveva finalmente compreso e smascherato il gioco di inganni intorno al quale il mondo girava, lo aveva visto sgonfiarsi, accartocciarsi e appiattirsi come un inutile fondale, perciò aveva deciso di volerne restare fuori e di uscire per sempre dal gioco.

Da quel momento non aveva fatto altro che inventarsi complotti, immaginare trame che lo vedevano al centro di intrighi, aspettarsi che da un momento all’altro emissari di potenze oscure si presentassero per carpirgli il segreto, la verità che avrebbe sconvolto il mondo e smascherato i veri nemici dell’umanità che si celavano, a suo dire, dappertutto, travestiti da innocui impiegati, benevoli padri di famiglia, compassati prelati, persino amabili vecchiette – ma i più infidi, secondo lui, erano i preti.

Quando Leo arrivò alla distilleria a reclamare un posto in quel paradiso di terza mano, Antonin riconobbe in lui un’anima buona, pura, forse l’unica nello sconfinato mare di iniquità dal quale si sentiva assediato, e lo elesse da subito suo amico e baluardo, colui che avrebbe dovuto tenere lontane le insidie e prevenire le imboscate, vegliare sul suo sonno e tenerlo aggiornato sui piani del nemico.

Leo aveva assecondato le stramberie di Antonin un po’ per convenienza, un po’ perché la sua indole compassionevole e remissiva trovava naturale sostenere la follia che riconosceva in Antonin, in fondo gli sembrava affine alla sua.

Leo era approdato alla distilleria Kuntz dopo una tournée interminabile che lo aveva visto ospite di piccoli e grandi orfanotrofi del suo Paese, nei quali aveva imparato la sottomissione, la passività, ed era riuscito a preservare un traballante equilibrio attaccandosi all’idea che al mondo c’era chi era nato schiavo e chi dominatore. Questa consapevolezza lo aveva sorretto anche dopo, quando ormai maggiorenne era stato bruscamente messo alla porta e obbligato a sperimentare l’attendibilità della sua visione del mondo.

Allungare una mano per elemosinare gli era sembrato naturale, e altrettanto naturale gli era parso prendersi calci e improperi, assoggettare il proprio corpo ad ogni sorta di abusi – pratica perfezionata nei patri orfanotrofi – purché tutto ciò gli garantisse la sopravvivenza. Quando s’erano trovati faccia a faccia per la prima volta, Antonin deve aver fiutato questa dimensione del carattere di Leo, disporre cioè di un’anima da plasmare, da riempire, da condurre alla “verità”, lo avrebbe istruito, illuminato mostrandogli ciò che nessuno, a suo dire, riusciva a vedere: quanti e quali fossero i nemici, dove si annidassero e perché si ostinavano a perseguitare lui, e cosa avrebbe dovuto fare per sventare le loro subdole trame.

A quest’ora di notte nella distilleria Kuntz poteva capitare che la morte si affacciasse a reclamare un’anima, poco le importava se quell’anima avesse attraversato l’esistenza in un anticipo di inferno che almeno dall’altra parte, si sperava, le sarebbe stato condonato, a Lei non importava il corpo, se non importava al Grande Ragioniere, al quale, a quanto pare, importa solo l’anima, poiché dei corpi non si è mai curato, né mai lo avrebbe fatto. E i corpi dei quali la morte veniva a reclamare le anime erano di solito già mezzi andati, invecchiati anzitempo perché non amati, mai sfiorati da carezze, o curati da sguardi apprensivi, e infine neppure vegliati da occhi compassionevoli. Alla distilleria Kuntz ci si accorgeva che la morte era passata solo dopo giorni, quando l’invisibilità di un corpo era divenuta una lacuna intorno alla quale intessere ipotesi, quando l’assenza aveva alterato un orizzonte fino ad allora familiare. Non si consumavano lacrime, nella distilleria Kuntz, non si pensava alla morte come a un mistero, ci si affrettava a depredare la tana del trapassato, e a volte a ispezionare il cadavere per spogliarlo perfino della miseria che gli era rimasta attaccata; poi qualcuno si occupava del corpo, lo faceva sparire in una buca, o lo abbandonava oltre il muro, da lì mani invisibili lo raccoglievano e lo avviavano verso il nulla.

A volte, nella distilleria Kuntz, capitava che un cadavere ingrassasse i cani: era un tripudio, per loro, affondare musi affilati dalla fame nelle pieghe rigide di quella Cosa, addentare ossa già quasi spolpate dai topi che li avevano preceduti, alla fine non restava quasi nulla, qualche straccio affiorante e un’impronta nel terreno, unica traccia del passaggio di un’anima senza storia.

Nonostante la vecchia distilleria Kuntz occupasse una superficie ragguardevole che interrompeva la trama capillare della Città Nuova, per i cittadini restava una zona morta, una macchia che perfino nelle piante della città non era che una lacuna senza nome i cui confini coincidevano col muro che la cingeva, e conteneva oltre agli edifici fatiscenti dell’opificio anche un parco di diversi ettari, ai margini del quale era la casa padronale, una palazzina a due piani ormai ridotta a un rudere poiché dai tempi dell’ultima guerra, quando era stata accidentalmente colpita, i vecchi proprietari non avevano ritenuto opportuno rimetterla in sesto, preferendo abbandonarla e riparare altrove.

Al tempo in cui la distilleria macinava tonnellate di vinacce e la ciminiera sbuffava come una vaporiera, la palazzina era la sola costruzione visibile, situata com’era ai margini di un imponente parco di cedri del Libano e qualche chiazza di betulla, dipinta di un rosso pompeiano che la stagliava nettamente contro la macchia verde dei cedri. Per tutti, tranne che per chi vi lavorava, era un luogo mitico, fiabesco addirittura per i ragazzini che non di rado gironzolavano lungo il perimetro, incantati dalla tinta forte della casa, dai fiori che ornavano i balconcini alle finestre, dai tetti di ardesia che si impennavano verso il cielo, e dalla serenità che spiavano sui volti dei piccoli Kuntz mentre giocavano nel parco. Si invidiavano i giochi, i vestitini lindi, la gentilezza dei tratti e l’aura di nobiltà dei loro modi; si invidiavano i Kuntz per la fortuna, che li aveva messi in un mondo di fiaba, lontani dalla miseria e dagli stenti. I ragazzini, quelli di fuori, li invidiavano senza odio, senza risentimento, semplicemente, come se il sole che scaldava il pianeta dei Kuntz fosse più brillante e più caldo del loro.

Heinrich e Clara Kuntz, i due rampolli, ebbero un’infanzia dorata e un’adolescenza turbolenta, sulle spalle del primo gravava la responsabilità di portare avanti l’attività paterna, per la ragazza si favoleggiava di un matrimonio che avrebbe introdotto la famiglia nel ristretto novero di un’aristocrazia periferica. Queste le aspettative del padre, Herr Alfred, e le fantasie della madre, Frau Adelaide.

Clara e Heinrich avevano sempre diviso tutto, i giochi la stanza gli studi il tempo, pochi e selezionati amici in comune venivano spesso a trovarli, prelevati dalla Skoda di famiglia e riaccompagnati a casa, sovente dopo cena. Era a tavola, a cena, che Herr Alfred si informava dell’andamento della giornata, chiedendo ai figli un resoconto sommario di come avessero trascorso il tempo, ed era qui che spesso faceva la conoscenza degli amici dei suoi figli, per lui quasi sempre degli sconosciuti, sottoponendoli a un breve interrogatorio circa i loro nomi e cognomi e l’attività paterna, senza tuttavia interrompere la serie di gesti consueti e sollevando leggermente lo sguardo dal piatto se tra quei cognomi qualcuno gli fosse risultato familiare. Dopo cena Herr Alfred si ritirava nel suo studio a riprendere contatto coi suoi affari; la madre, Frau Adelaide, di solito ascoltava e assentiva.

E’ probabile che Herr Alfred non si accorgesse nemmeno che i figli crescevano, che la presenza sempre più frequente, in casa, di giovani uomini che si contendevano l’amicizia della ragazza, all’ombra benevola e consapevole del fratello, passasse inosservata. Solo Frau Adelaide mostrava, senza lasciarla trasparire, un’apprensione discreta dovuta essenzialmente all’incertezza, a quello che a volte le sembrava un turbinio nel quale vedeva sua figlia svolazzare come una farfalla impazzita che non trova dove posarsi. Nutriva, Frau Adelaide, la segreta speranza che, prima o dopo, la ragazza decidesse a quale dei ragazzi che la frequentavano dedicare la propria attenzione. Heinrich lasciava fare, osservava e anzi si mostrava divertito nel seguire le manovre messe in atto dai contendenti per accaparrarsi l’attenzione della sorella, la quale, tuttavia, manteneva col fratello un contatto ininterrotto fatto di occhiate, piccoli gesti allusivi, parole come segnali di un codice la cui chiave stava nella profonda intesa che nel tempo si era consolidata fra loro. La presenza di giovani uomini intraprendenti non interferiva con la loro intesa, le frivolezze che Clara era costretta a sorbirsi e corrispondere impallidivano al cospetto del sentimento che li univa.

E’ probabile che Herr Alfred e Frau Adelaide ignorassero tutto di questo sentimento, come di ciò che avveniva nella stanza dei ragazzi, che era rimasta la stessa, anche quando ormai il buonsenso avrebbe dovuto suggerire di allestire per i due adolescenti camere distinte. Ma Herr Alfred non si accorgeva che i figli crescevano, e Frau Adelaide era completamente rapita dalle fantasie che concernevano il futuro matrimonio della figlia.

Clara e Heinrich si amavano, teneramente, e con passione.

Si amavano di un amore esclusivo, che tollerava il chiacchiericcio di quanti ronzavano loro intorno come un comodo paravento. Si amavano e condividevano la stanza come un rifugio nel quale raccontarsi sentimenti segreti, fantasie che nascevano spontanee e concernevano i giochi che Clara avrebbe voluto insegnare a Heinrich e le domande che questi avrebbe voluto rivolgere a sua sorella, o le curiosità che il corpo di lei risvegliava in lui, oltre naturalmente spettegolare e ridere dei goffi tentativi messi in atto dai loro comuni amici per tentare di affascinare lei. Spesso condividevano lo stesso letto e a volte si addormentavano abbracciati, spossati dalla fatica di dover tenere a bada un’ansia che tendeva i corpi e li rendeva consapevoli di ogni mutamento, ogni sensazione che li attraversava lasciandoli stupefatti.

E fu Clara, una notte, a guidare la mano di Heinrich, a svelargli il suo corpo e a guidare quello di lui sopra di lei. Heinrich aveva diciassette anni, lei quindici.

Fu quando Clara iniziò a civettare con Oscar – un ventenne di “ottima famiglia”, come ebbe a dire Herr Alfred – , quando cominciò per gioco ad assediarlo e a sperimentare con lui le sue abilità di seduttrice, fu allora che Heinrich si fece ombroso. E più Heinrich diventava intrattabile e scontroso e Oscar sottomesso, più cresceva in Clara una sensazione che la inebriava, la faceva sentire indispensabile, padrona e artefice dei malumori di suo fratello, e dominatrice degli spasimi di Oscar, che gestiva, ormai, secondo i propri capricci. Sentiva di possedere il mondo, Clara.

Heinrich abbandonò la stanza in comune e si trasferì di sopra. Sua madre ne fu sorpresa, giudicando strambo tale cambiamento, suo padre sollevò appena lo sguardo dal fondo del piatto e indirizzò a Heinrich un’occhiata fuggevole, niente più. Clara finse di ignorare la decisione di suo fratello, non avendo intenzione di scendere dalla nuvola sulla quale si era collocata.

Quando Oscar, insieme al resto della torma vociante, si fiondava in casa, Heinrich rimaneva asserragliato di sopra a macerarsi, a rimuginare propositi di vendetta nei confronti della sorella e di quanti la circondavano, e tutte le volte che gli arrivavano lassù le voci schiamazzanti della compagnia, una fitta dolorosa gli trapassava il petto piegandolo in due.

Heinrich si fece sempre più cupo e velenoso, passava sempre più tempo in camera assistendo impotente al disgregarsi inesorabile della cornice dorata che aveva contenuto la sua infanzia, l’adolescenza. Anche l’immagine di sé sbiadiva giorno dopo giorno, lasciando il posto a una lacuna che l’angoscia colmava con la rapidità di un vortice; fino a quando una voce misteriosa gli additò quel vortice come l’unico scampo.

Frau Adelaide trovò Heinrich che penzolava da una trave del soffitto, paonazzo, gli occhi spalancati sul vuoto.

Cessarono i ricevimenti, gli schiamazzi, i giochi; cessarono le schermaglie amorose di Clara. La famiglia andò a vivere fuori città e cancellò, per quanto possibile, la palazzina rossa dal ricordo. Herr Alfred fu costretto, suo malgrado, a cedere le notti all’insonnia, a porsi domande alle quali non trovò risposte e a vedere stingere dalla mente l’affresco che, insieme a Frau Adelaide, aveva composto per il proprio futuro e quello dei figli. Intorno a Clara si spense l’aura di onnipotenza che l’aveva ammantata, e il piedistallo sul quale si era collocata come una semidea si sgretolò miseramente. Si fece muta e intrattabile, rifiutò il cibo, si barricò nella sua stanza, e lentamente il suo splendore si liquefece al sole plumbeo della melanconia.

Herr Alfred e Frau Adelaide invecchiarono precocemente, dimenticarono la distilleria, dimenticarono Heinrich, dimenticarono Clara in una clinica per malattie nervose.

Poi arrivò la guerra, la Seconda, che sventrò la palazzina rossa: a quest’ora di notte appariva come il corpo disfatto, marcio, di una bestia abbattuta.

Col tempo la distilleria Kuntz si spopolò, la ciminiera cessò di fumare e l’odore aspro che avvolgeva il quartiere, allora poco più che un agglomerato di case, svanì e insieme con esso il ricordo dei fasti della famiglia Kuntz. I bambini si impossessarono del parco, divertendosi a scalare le macerie della palazzina che di rosso aveva conservato, ormai, soltanto qualche traccia. Quando la città si dilatò fino a inglobare le periferie, la distilleria Kuntz rimase isolata come un corpo estraneo e infetto. L’intera area divenne una carie che deturpava il quartiere, e la distilleria si trasformò lentamente in una terra di nessuno.

A quest’ora di notte, la vecchia, disfatta distilleria Kuntz proteggeva il sonno di quanti la città non voleva, di un’umanità di seconda e terza mano che non amava e che la Storia avrebbe ignorato…

Vanessa non dormiva, a quest’ora di notte. Raggomitolata sulla brandina che Viktor le aveva rimediato, ripensava alle sue amiche, a quanto le mancavano. Com’era lontano il tempo in cui il modo migliore di occuparlo era starsene in casa a spettegolare, a confidarsi segreti su tutto, specie sui maschi del villaggio. Adesso tutto le sembrava uno scherzo della memoria, e che le serate passate davanti alla grande stufa le avesse solo sognate.

Rivedeva Sveta e i suoi bellissimi capelli che portava sempre raccolti in una grossa treccia e che a volte legava intorno alla fronte, e quando era primavera lei e le altre addobbavano di piccoli fiori viola raccolti nei prati. Era bellissima Sveta, pensava Vanessa, e tutte la invidiavano per il modo in cui i ragazzi del villaggio la guardavano e a volte le sorridevano, anche se lei dava ad intendere che non se ne curava; ma non era vero, perché poi, quando tornavano a casa, lei per prima scioglieva la treccia e si lisciava i capelli biondi e non faceva che spazzolarli e odorarli e ammirarli, come se in testa avesse una corona d’oro. E quanto tempo davanti allo specchio a trovarsi difetti, a dirsi che non si piaceva, che nessuno si accorgeva di lei, ma lo sapevano tutte che lo diceva così per dire, perché invece voleva sentirsi dire che non era vero, che anzi era bellissima e che tutte avrebbero voluto assomigliarle. Certe volte era insopportabile, pensava Vanessa, come quando attaccava a raccontare di come, durante la Festa di Primavera, un tale di un altro villaggio le si era avvicinata e le aveva fatto la corte, ogni volta che raccontava quella storia aggiungeva nuovi particolari per abbellirla; una volta si inventò perfino un bacio che nei racconti precedenti non c’era mai stato… oh, Sveta, quella volta mancò poco che non la picchiassero, ma per finta, povera Sveta.

Chissà se qualcuna delle sue compagne pensava a lei ogni tanto; chissà se si erano domandate dove fosse finita. A quest’ora di notte forse dormivano, Sveta Irina Oksana, e Anja la sua preferita, il suo amore, pensava Vanessa.

Irina era gelosa di Anja perché era la sua amica del cuore, era gelosa perché avrebbe voluto essere al posto di Anja, che confidasse a lei i pensieri che invece erano riservati ad Anja, ma Irina non sapeva ascoltare, non prestava attenzione, non era capace come Anja di seguirla nel racconto delle sue fantasie, delle speranze, dei desideri che coltivava in segreto; Anja non rideva delle sue paure, diceva che erano le stesse anche per lei, e insieme passavano le ore del pomeriggio a raccontarsele, a ripetersele fino a piangere, certe volte, o a riderne come pazze. Come le parevano lontane e insignificanti le sue paure viste da qui: messe tutte in un fascio non valevano quanto una notte passata sui viali. Glielo avrebbe detto ad Oksana, se fosse stata qui con lei, pensava Vanessa, le avrebbe parlato degli uomini, di quelli che aveva conosciuto, le avrebbe spiegato di cosa erano capaci, cosa cercano in una ragazza, le avrebbe fatto capire cosa voleva dire sentirsi un buco da riempire e basta. A Oksana che si vantava di conoscere gli uomini solo perché aveva limonato con qualche imbranato che aveva provato a metterle la lingua in bocca e una mano tra le cosce, pensava Vanessa. Le avrebbe spiegato che anche quando gli uomini sembrano gentili, lo fanno perché vogliono costruirti intorno una rete di parole nella quale prima o poi resterai prigioniera, perché gli uomini sanno che scambieremo le maglie della rete, che lentamente ci avvolge, per un mantello d’oro che ci renderà splendenti, e invece ci soffocherà.

Quanto le sembravano sciocche e fortunate le sue compagne, e cosa non avrebbe dato per averle qui con lei, pensava Vanessa. Nei pomeriggi trascorsi davanti alla stufa a raccontarsi storie da niente, a ridere dei ragazzi, facevano finta che il mondo fuori dalla stanza non esistesse, ma il mondo c’era, e lei lo aveva scoperto subito fuori del villaggio. Era stato uno sconosciuto che l’aveva invitata per una passeggiata, e insieme si erano avviati verso il bosco di betulle subito dopo il bivio. Pareva gentile, simpatico anche, sorrideva, le raccontava cose buffe che la facevano ridere, e a lei piaceva ridere. Aveva detto di chiamarsi Boris e che faceva il minatore; le aveva raccontato che passava molto tempo fuori dal suo villaggio, che tornava a casa ogni due mesi, quando gli concedevano una licenza di quattro giorni. Non ricordava quanti anni avesse detto che aveva, venti venticinque, non lo ricordava. Però ricordava il suo sorriso e i denti bianchissimi, e ricordava le piccole rughe ai lati degli occhi. Sembrava gentile e buono, le aveva offerto una sigaretta che lei aveva rifiutato ed era stata ad ascoltarlo mentre le raccontava della miniera di carbone. Un lavoro duro, diceva Boris, sporco, un lavoro per quelli come lui che non erano andati a scuola, che nessuno rispettava, e questo a lei era dispiaciuto perché non credeva che per meritarsi il rispetto delle persone bisognava per forza essere istruiti, anche lei aveva fatto poca scuola, giusto le prime quattro classi, poi aveva dovuto lavorare nello spaccio del villaggio.

Era stata sua madre a dirle che in casa avevano bisogno di una mano, che col suo lavoro di contadina a giornata non ce la faceva a tirare avanti, e così aveva preso la prima cosa che le era capitata.

Ma era stata contenta di lavorare allo spaccio del villaggio, pensava Vanessa, era stato lì che aveva conosciuto le sue compagne, prima Anja, poi Oksana e Sveta, e per ultima Irina.

Nel bosco di betulle lei e Boris si erano seduti su un masso appuntito e avevano riso, poi lui le aveva chiesto se non voleva sedersi per terra e le aveva sorriso in un modo speciale, lei aveva risposto di no, che preferiva stare sul masso.

Non avrebbe mai indovinato dietro i denti bianchissimi di Boris il sorriso di lupo, pensava Vanessa, se ci fossero state qui le compagne le avrebbe messe in guardia, avrebbe detto loro di non fidarsi di uno straniero dai capelli chiari e un sorriso lucente, di uno che ti invita a una passeggiata, ti offre una sigaretta e poi ti strappa il vestito di dosso e ti prende, col suo bel sorriso bianco, come fossi una cagna, pensava Vanessa. Ripensava a quello che era successo nel bosco di betulle subito dopo il bivio, Vanessa, ma avrebbe preferito dimenticare.

A quest’ora di notte Vanessa riusciva a pensare solo a una cosa: il silenzio, quel silenzio subito dopo i grugniti di Boris, quando ancora le stava dentro. Era un silenzio mai sentito prima, tutto il bosco ne era pieno, non riusciva a pensare che a quel silenzio. Avrebbe voluto raccontarlo alle compagne quel silenzio, e il dolore che aveva provato, e di come non vedesse l’ora che Boris si alzasse, la lasciasse libera di andare e tornare  casa a far finta che il mondo, fuori, non esistesse. A quest’ora di notte, Vanessa le rivedeva le sue compagne, Anja Irina Oksana Sveta, solo che adesso era lei che non riusciva più a vedersi tra loro, non poteva più, dopo che era stata presa con l’inganno, e soprattutto dopo che altri tre, dopo Boris, si erano stesi sopra di lei, in quel bosco di betulle subito dopo il bivio. Non li aveva nemmeno sentiti arrivare, erano comparsi come fantasmi e l’avevano circondata, e solo allora Boris si era messo in piedi e aveva ceduto il posto sopra di lei: uno alla volta, uno dopo l’altro senza dire una parola, senza fare rumore; e nemmeno era riuscita a vederli in faccia, forse non ce l’avevano nemmeno un volto. E anche dopo, quando avevano finito, quando la guardavano dall’alto, da così in alto che pareva avessero il cuore talmente distante dai loro uccelli da essersi perso tra le nuvole, anche allora non era riuscita a guardarli in faccia.

Delle mani la tenevano e la spingevano verso un furgone, dall’altro lato del bosco di betulle. A quest’ora di notte Vanessa ricordava il buio e le mani legate dietro la schiena, e un fazzoletto che le tappava la bocca.

E poi un viaggio interminabile.

Per quanto tempo avevano viaggiato? Per quanti giorni, quante notti? Lei, che non era mai uscita dal villaggio e che il mondo lo conosceva attraverso i vetri della sua stanza.

A quest’ora di notte, come altre notti, Vanessa ricordava che il mondo le era sfilato davanti attraverso la finestrella sul retro di un furgone. Mai avrebbe immaginato, Vanessa, che il mondo fosse così grande, mai avrebbe detto che potessero esserci boschi lunghi quanto due giorni e due notti, o fiumi che potessero cambiare colore, tagliare montagne, sparire inghiottiti da un bosco e ricomparire più grandi. Le era sembrato di attraversare le stagioni, in quel viaggio, l’estate al suo villaggio, l’inverno sulle montagne, i campi di girasole che a fissarli ti abbagliavano, e poi prati che parevano un mare e laghi come piccoli mari imprigionati in un bosco.

Chissà se le compagne riuscivano a immaginare che i confini sono solo un’invenzione, che il mondo non iniziava e non finiva da nessuna parte.

Se fossero state qui le compagne, Vanessa avrebbe raccontato loro che era stata venduta, che era passata da mani sconosciute e sbrigative ad altre ancora più ruvide e senza scrupoli; che lei valeva quanto due sacchetti di una polvere bianca passati da una mano all’altra, e di come i nuovi padroni l’avevano provata, parlavano una lingua sconosciuta ma avevano le stesse intenzioni, gli stessi modi, gli stessi gesti. A quest’ora di notte Vanessa pensava che era proprio vero, i confini tra gli uomini erano soltanto un’invenzione. E quando aveva implorato che la lasciassero andare, o che la riportassero indietro, gli uomini che l’avevano scambiata con sacchetti di polvere l’avevano guardata senza capire, l’avevano spinta sul sedile posteriore di una macchina e le avevano ordinato con un gesto di tacere, che era inutile che cercasse di spiegarsi, e quando aveva cominciato a piangere e a urlare l’avevano picchiata senza pensarci due volte.

Non gli aveva mai visti sorridere, quegli uomini, pensava Vanessa, mai!

E il viaggio era terminato davanti a una casupola di legno, una baracca, e da lì aveva visto in lontananza un mare di luci bianche, parevano tante stelle cadute. Ricordava che le avevano urlato di entrare nella baracca, dove la aspettavano altre ragazze sole come lei, e nei loro occhi aveva visto lo stesso inganno che le aveva fatte arrivare lì, come lei. Non aveva chiuso occhio quella notte, Vanessa, stesa sopra una panca di legno e coperta alla meglio, lo sguardo fisso alla luna fuori dalla finestrella; sapeva che quella era la stessa luna che vedeva dalla sua cameretta, eppure quella notte le sembrò che avesse stampato sul faccione un sorriso cattivo. Quella notte non finiva mai.

Entrarono in due, con una torcia illuminarono i letti e si fermarono davanti a una, la ragazza non provò nemmeno a protestare, a cosa sarebbe servito; per il resto della notte era rimasta a lamentarsi come un animale ferito. Non era un pianto, non era un lamento, era come la fatica che deve fare l’anima quando sta per scappare in silenzio, deve essere proprio così quando si muore, pensava Vanessa, a quest’ora di notte.

Ripensava al giorno dopo, Vanessa, e rivedeva le facce dei nuovi padroni, avevano occhi chiari e parlavano la sua stessa lingua, aveva pensato che la stessero aspettando, che fossero arrivati fin lì dal suo villaggio per riportare indietro lei e lasciare andare le altre, ma non fu così. Anche questi le trattavano come sacchi da spostare, anche questi non avevano luce negli occhi. Nonostante le sembrò dolce riascoltare il suono della sua lingua, sulla bocca di quegli uomini significò disprezzo per lei e per le altre, per i loro corpi e per il loro dolore. Provò a domandare a uno “come ti chiami, da quale villaggio arrivi”, le rispose con uno spintone che la fece sbattere contro un’auto, e allora capì, e vide che, questa volta, i loro corpi valevano quanto tre casse di legno. Chissà cosa contenevano quelle tre casse, pensava Vanessa a quest’ora di notte, per valere quanto cinque di loro…

Rannicchiata sotto una coperta leggera, Vanessa scorse la luce fioca che filtrava da una finestrella, tra non molto Viktor sarebbe tornato, pensò, l’avrebbe guardata senza dire una parola e si sarebbe seduto sul letto con la testa tra le mani, e sarebbe rimasto così a lungo. Nonostante i mesi trascorsi, Vanessa poteva dire di non conoscere affatto Viktor, gli aveva sentito dire poche parole in tutto quel tempo e visto fare gesti lenti, pesanti, come se fossero carichi di un dolore misterioso che lei non riusciva a decifrare. Tutti qui, nella distilleria, parevano portarsi dietro una ferita, un dolore invisibile, indistinguibile da quello degli altri. E Viktor le ricordava Pavel, un poveraccio che viveva non molto lontano dal suo villaggio ed era solo, non aveva parenti, non aveva amici ma lo conoscevano tutti, alcuni lo scansavano altri lo aiutavano, i bambini lo perseguitavano e gli ridevano dietro, e viveva arrangiandosi. Dicevano che Pavel era arrivato al villaggio da una città lontana, che quando era arrivato si era sistemato in quella capanna alla periferia del villaggio e non parlava con nessuno, non rispondeva al saluto, e che quando era una donna a rivolgergli la parola diventava pallido di rabbia e correva a chiudersi in casa; dicevano che Pavel era stato un bell’uomo ma lei lo aveva conosciuto ormai vecchio, con i capelli e la barba lunghi proprio come Viktor, dicevano anche che una donna gli aveva frantumato il cuore.

A quest’ora ormai prossima all’alba, Vanessa ripensava alle volte che insieme alle compagne si era avventurata nelle vicinanze della capanna di Pavel, di come l’avevano spiato, di come lo avevano visto parlare da solo, aveva sempre provato compassione per quel vecchio, e una grande tenerezza; una volta era tornata a casa di Pavel, ma da sola, e lo aveva trovato che fissava una fila di betulle in lontananza, lo aveva salutato, gli aveva sorriso e Pavel le aveva fatto un cenno con la mano, e non era scappato. S’era seduta accanto a Pavel, Vanessa, ed era rimasta in silenzio tutto il tempo, e quando Pavel si era alzato per rientrare nella capanna, le era sembrato che il vecchio le sorridesse. Viktor le ricordava Pavel per la barba e i capelli in disordine, e per la stessa malinconia negli occhi. A lei piaceva la fronte di Viktor, anche se era sempre coperta da ciocche in disordine e sporche, e aveva rughe che la segnavano da una parte all’altra, le aveva contate, erano tre, tre linee parallele e ondulate che pareva raccogliessero tutti i pensieri tristi, tutte le preoccupazioni che Viktor si portava dietro. Le piacevano anche le sue labbra sottili e quasi bianche, certe volte Vanessa aveva sperato, e temuto, che Viktor le appoggiasse sulla sua fronte quando aveva avuto bisogno di essere consolata, ma non era mai successo e lei non aveva osato chiederglielo, Viktor le metteva soggezione. Lui non era come gli altri, pensava Vanessa, come tutti gli altri che abitavano nella distilleria, o come quelli che l’avevano pagata, lui dava l’impressione di essere scontento, che cercasse qualcosa, che gli mancasse una cosa senza la quale non voleva vivere, anche se lei non capiva cosa.

Certe volte Vanessa aveva desiderato che Viktor non fosse uscito la notte, che fosse restato a farle compagnia perché aveva paura, ma non glielo aveva mai chiesto; e quante volte aveva sperato che Viktor fosse tornato diverso, cambiato, che finalmente le avesse sorriso e le avesse detto di alzarsi e prepararsi per andare via, perché non erano più costretti a rimanere lì, perché la sua tristezza era svanita come la nebbia, ma non era mai successo.

A volte Vanessa aveva sentito Viktor agitarsi nel sonno, fare il nome di una donna, Amelia, e ne era stata gelosa. Su quel nome Vanessa ci aveva fantasticato a lungo: immaginava una donna bellissima che Viktor aveva amato e poi perduto, o che si era persa perché Viktor l’aveva abbandonata dopo averla illusa, gli uomini lo fanno, pensava Vanessa, e fanno anche peggio. Certe volte Vanessa aveva fantasticato di mettersi al posto di Amelia, ma era triste perché lui non la amava, piangeva e amava Viktor di un amore malinconico, storie così, che terminavano con un dolore sconfinato che riempiva il resto dei giorni, i suoi e quelli di Viktor.

Fra non molto Viktor sarebbe tornato, pensava Vanessa, e le sarebbe piaciuto vederlo sorridere. Perché era così difficile veder sorridere un uomo, si domandava Vanessa, vederlo ridere di cuore, con tutto il corpo, come faceva lei con le compagne, quello gli uomini non lo sanno fare, proprio non ci riescono, forse perché nessuno glielo ha insegnato. Eppure da bambini i maschi hanno lo stesso sorriso delle femmine, lo stesso stupore negli occhi, allora quand’è che cominciano a diventare maschi?, quand’è che cominciano a trasformarsi in lupi e a guardare le femmine con occhi cattivi?, quand’è che il mondo comincia a dividersi in due?

Raggomitolata sotto una coperta leggera e sudicia, Vanessa pensava alle ore che avrebbe trascorso a gironzolare per la distilleria. Da quando stava con Viktor, ormai da quasi tre mesi, non si era ancora azzardata a mettere il naso fuori dal recinto per paura, anche perché non avrebbe saputo dove andare, la distilleria era diventata la sua casa. Non era come stare davanti alla stufa in compagnia delle amiche, qui non aveva amici, solo occhi cattivi e sguardi disgustati. Solo con Leo aveva trascorso del tempo a chiacchierare, e anche lui non era come gli altri. Anche Leo, come Viktor, aveva occhi da bambino e modi gentili che la distilleria non era riuscita a cancellare, e quando stava con lui le sembrava di stare con Anja. Leo le faceva complimenti, ma non come un uomo qualunque, che dietro parole gentili nascondeva intenzioni da lupo, no, Leo non era così. Lui le accarezzava  i capelli, le diceva che sarebbe sembrato un bellissimo ragazzo con quel suo corpo lungo e sottile, quasi piatto, se avesse avuto i capelli corti, e sorrideva mentre la prendeva in giro, però poi le diceva che sarebbe diventata una bellissima donna, che la immaginava ben vestita e truccata, con i tacchi a spillo e una gonna con lo spacco, e le mostrava come avrebbe dovuto fare per conquistare gli uomini, ma a lei gli uomini non interessavano, e piuttosto che mettersi con uno di loro preferiva morire. Leo conosceva la sua storia e diceva di capirla, ma diceva anche che non potevano farci niente loro, se il destino si era divertito a metterli a questo mondo e per giunta agli ultimi gradini, diceva Leo, e che il mondo potevano guardarlo soltanto dal basso. Era così, diceva Leo, bisognava rassegnarsi e non illudersi, ma poi diceva che per lei sarebbe stato diverso, ma lo diceva per consolarla, diceva che un giorno sarebbe uscita da questa fogna e sarebbe andata per il mondo con la grazia e il fascino che lui le assicurava.

Ma lei non era come la descriveva Leo e non lo sarebbe mai stata, pensava Vanessa, e Leo lo diceva soltanto per farle dimenticare dove si trovava. Lei lo sapeva che fuori dalla distilleria c’era un altro mondo, quello dei lupi, di individui senza pietà che ti scambiano con polvere bianca e casse di legno, il mondo di chi ti cerca di notte sui viali per comprarti, usarti per pochi minuti e poi lasciarti sul marciapiede come un sacchetto di immondizia; quel mondo che non sa niente di te, della tua casa, del tuo villaggio, che non conosce le tue compagne e non immagina la strada che hai dovuto fare per arrivare su un viale qualsiasi di una città qualsiasi, lontana un mondo dalla tua vera vita. Là fuori c’era un mondo che non immaginava le stagioni che aveva dovuto attraversare, né la luna che aveva una faccia differente; fuori c’erano uomini che ti pagavano e nel prezzo non era compresa la pietà.

Quante ne aveva viste di facce, sudate arrabbiate incupite indifferenti, quanti fiati di birra e mani che l’avevano frugata senza complimenti. Aveva capito, Vanessa, che il mondo degli uomini è differente, avrebbe voluto dirlo alle sue compagne, se fossero state qui.

 

Francesco De Nigris

 

2 Commenti

  1. In questo capitolo hai descritto una realtà che purtroppo esiste davvero… la tratta delle ragazze vendute che finiscono in strada a prostituirsi, lontani dalla loro casa in città che spesso non sanno nemmeno dove sono e che già durante l’interminabile viaggio subiscono violenze e stupri è qualcosa di orribile e io stessa faccio fatica a immedesimarmi in questo stato in cui la tua anima viene completamente frantumata. è molto triste, ma è necessario parlarne e così poter agire. Ci vuole coraggio e sensibilità per scrivere un racconto del genere e ci sei riuscito davvero molto bene!

  2. Il tuo stile è molto particolare, mi piace. Anche la storia, che fa trasparire una grande sensibilità su temi alquanto attuali…


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