Gehenna (Cap. 5)

CAPITOLO 5

L’Albanese uscì di casa presto, sul groppone aveva una nottataccia e poche ore di sonno. Alzò lo sguardo e vide grigio, una coperta di nuvole dalla quale veniva giù una pioggerella fine e fastidiosa.

I colori erano velati, la strada deserta, il ritmo dei passi interrotto dalle frequenti pozzanghere negli interstizi tra i blocchi di porfido. Era aprile, ma pareva ancora inverno. L’Albanese sollevò il bavero della giacca leggera e si strinse nelle spalle per fronteggiare meglio il freddo.

Tempo di merda, pensò l’Albanese nella sua lingua.

Gli toccava camminare per raggiungere la Città Vecchia, e l’idea della metropolitana proprio non lo sfiorava: non avrebbe tollerato le occhiate indagatrici, o le teste che si voltavano dall’altra parte, non gli piaceva il vuoto intorno al suo corpo, quando era costretto a farsi largo nella calca, lo faceva sentire nudo e colpevole.

Sarà per via della giacca, pensò l’Albanese.

Pensò anche che il lavoro non faceva progressi e Stefan glielo avrebbe fatto pesare. Gli sembrava di sentirlo: Sei solo buono a star dietro a quattro puttanelle, gli avrebbe detto, e poi avrebbe aggiunto che il Professore non ne sarebbe stato contento. Già, il Professore non ne sarebbe stato contento.

Sapeva bene, lui, che il Professore non sarebbe stato contento della piega che aveva preso la storia, ma ciò che più lo tormentava era l’idea del fallimento: non era stato capace di assolvere a un compito che gli era stato assegnato, e per colpa di chi? Di una troietta qualunque che non era stata ai patti, e questo gli faceva torcere le budella. Fosse stata una delle sue, pensava l’Albanese nella sua lingua, una cosa del genere non sarebbe successa.

Con le ragazze che gli affidavano lui era chiaro dal primo momento: non fate le furbe, portate a casa quello che dovete e le cose andranno bene per tutti, troverete da mangiare e dormire e io sarò sempre dalle vostre parti per controllare che non si presenti qualche malintenzionato, queste sono le regole. Questo era il discorso che faceva quando gli affidavano delle nuove, e aveva sempre funzionato, con tutte, bianche nere slave occidentali, perché alla fine sono tutte uguali, vogliono una cosa sola: fare soldi e tornarsene a casa, dal fidanzato che le aspetta per sposarle, pensava l’Albanese nella sua lingua.

Una come quelle lui non l’avrebbe mai sposata, nel suo Paese le donne stavano a casa, quelle per bene, e non si facevano venire strane idee come guadagnare soldi, scappare di casa o scegliersi un uomo da sposare, a quelle cose ci pensava la famiglia, ci pensavano i vecchi che sapevano quello

che facevano, e sceglievano la donna giusta che doveva badare alla famiglia e alle sue cose, quelle erano le regole, e si rispettavano, altrimenti tutto andava in malora, tutto: la casa la famiglia il Paese, tutto… erano quelle le regole, erano quelli i patti, non se le era inventate lui quelle regole, c’erano e basta e così doveva essere, per tutti, a cominciare da lui; e quando un giorno se ne sarebbe tornato a casa, al suo Paese, la famiglia avrebbe trovato per lui la ragazza giusta, di questo era sicuro e ci contava, era sempre stato così, per i fratelli i cugini e tutto il resto: ci pensava la famiglia. Così l’avevano educato, così era venuto su: il rispetto delle regole, le devozioni alla famiglia, il saper stare al proprio posto. C’era una scala, un posto per tutti e una regola per ogni cosa, e un patto era un patto e chi non stava ai patti era un disonorato, senza rispetto. Per questo con le ragazze che gli affidavano era chiaro: non fate le furbe, rispettate le regole e tutto funzionerà, pensava l’Albanese nella sua lingua.

Sebbene disdegnasse le derive malinconiche, l’Albanese non poté fare a meno di pensare alla sua terra con nostalgia, ma poiché il ricordo rischiava di legarlo a una catena dalla quale non sarebbe stato agevole sciogliersi, e ritenendo certi sentimenti indegni di un duro, se li scrollò di dosso con un’alzata di spalle e si rituffò nel problema più urgente e degno di considerazione.

In cosa aveva sbagliato? Perché aveva la sgradevole sensazione di essersi perso in una ragnatela di ipotesi e indizi? Perché le tracce che la ragazza sembrava essersi lasciate alle spalle si dissolvevano nel nulla? Persino la voce del Professore non gli era stata di grande aiuto, lui che la considerava una guida infallibile ed essenziale: anche quella voce pareva essersi appannata, ritirata, nascosta dietro il velo opaco di un’ansia che teneva l’Albanese per la gola e gli dava tregua solo durante il sonno. Ciò non voleva dire, tuttavia, che non ne avvertiva la presenza, l’offuscarsi di quella guida era solo la conferma che il Professore sapeva e non poteva che esserne scontento, argomentava l’Albanese. Che il Professore conoscesse i suoi pensieri, che potesse anzi suggerirglieli, era per lui più che un’ipotesi, era una certezza.

L’esperienza suggeriva all’Albanese quella certezza. Dovunque andasse, o con chiunque parlasse, nella Città Vecchia, la presenza del Professore era palpabile: sui volti di chi fermava per strada, nelle espressioni allarmate quando diceva loro per chi lavorava, nei silenzi istantanei, nei gesti dietro i quali si nascondevano e che accompagnavano le parole come a marcare una distanza che li proteggesse da quel nome impronunciabile. A sentir nominare il Professore la gente si intristiva, si spegneva in volto come fosse stata evocata l’entità che li teneva al palo di un’esistenza insignificante, o tormentata, vissuta come un dazio crudele.

Pareva che tutti, in un modo o nell’altro, fossero obbligati a considerare quella presenza come inevitabile, e sebbene nessuno ne parlasse, o ne parlasse il meno possibile, era come se anche i loro pensieri, come quelli dell’Albanese, avessero dovuto, prima o dopo, fare spazio a quel nome.

Tutto ciò non stupiva l’Albanese, era anzi la conferma di quanto aveva sempre immaginato del Professore. A volte l’Albanese si era spinto a pensare che la presenza del  Professore fosse come l’aria: necessaria, onnipresente ma invisibile: potevi solo credere che ci fosse, intuirne la presenza dagli effetti, ma mai dire di riuscire ad afferrarlo, a possederlo, a contenerlo, ne eri avvolto e contenuto, ma se provavi a dargli un volto, o una forma, ti scivolava dalle dita. Il Professore faceva

venire in mente all’Albanese uno specchio che non rifletteva, una cornice vuota.

Né l’Albanese si stupiva che il Professore avesse scelto questa città per fare i suoi affari. Vero era che l’Albanese conosceva soltanto una  minuscola porzione di mondo, e che i confini di questa porzione coincidevano per lo più con quelli della sua Terra d’origine; tuttavia riteneva questa città “malata”, come amava ripetere a se stesso quando lo assediava la nostalgia di casa; trovava questa città cupa e malinconica, “vecchia” e appesantita dalle tracce di un passato che a lui pareva morto ma che tutti si sforzavano di tenere in vita con accanimento, nemmeno fosse il cadavere di un personaggio illustre per il quale la pietà, il rimpianto, la riconoscenza e il dovere imponessero continui ritocchi e aggiustamenti, puntelli di ogni tipo pur di perpetuare l’illusione di una presenza ancora viva e rassicurante.

L’Albanese non amava la sovrabbondanza di chiese e palazzi dai nomi impronunciabili, che non riusciva nemmeno ad immaginare un tempo abitati; la città gli sembrava una baldracca invecchiata male, per quanto tentasse di tenersi su col trucco e con trucchi di ogni genere. L’indifferenza, l’astio che i cittadini gli riservavano, poi, erano dall’Albanese abbondantemente ricambiati, e la diffidenza di cui era fatto oggetto – benché non appartenesse alla schiera dei santi e si riconoscesse apprezzabili doti di cattiveria – gli pareva ingiustificata. In fondo erano quelle sue doti che avevano procurato all’Albanese il lavoro, e se andavano bene al Professore andavano bene anche a lui. E poi, pensava l’Albanese nella sua lingua, avrebbe voluto vedere loro al suo posto, tutti quelli che storcevano il naso quando lo vedevano passare e lo seguivano con lo sguardo come se volessero fulminarlo col loro disprezzo, accompagnandolo con frasi il cui senso era più chiaro di uno sputo in faccia. Il lavoro sporco lo lasciavano fare a lui e tenevano per sé una coscienza senza rimorsi. Alla fine, lui era lì per garantire che le ruote girassero, che il commercio di carne accontentasse tutti e procurasse a tutti un vantaggio, e allora?

L’Albanese procedeva a passi corti e svelti, lo sguardo basso a cercare di scansare le pozzanghere e i lastroni più insidiosi: dalle suole saliva una sgradevole sensazione di umido che ormai aveva intaccato le tomaie e si apprestava ad aggredire i calzini; dalla fronte colava qualche rivoletto che gli appannava la vista. La giacchetta leggera gli pesava sugli omeri e per di più la pioggerella si stava mutando in acquazzone, in lontananza si udì il brontolio soffocato di un tuono.

Nemmeno un balcone per ripararsi, pensò l’Albanese nella sua lingua. Poteva entrare in un locale  e aspettare che passasse, ma cosa avrebbe risposto se poi qualcuno lo invitava a sedersi al tavolino? e quando lo sentiva parlare male la lingua? No, era meglio quel portone aperto.

L’Albanese si chiese se la strada che stava percorrendo fosse la solita, quella che tutte le mattine lo portava alla Città Vecchia, perché quel portone – tra l’osteria ‘La Scala d’oro’ e la bottega del robivecchi, che a quest’ora di solito era già aperta – non ricordava di averlo mai visto prima. Da questo lato della strada, l’arco di pietra piantonato ai lati da due leoni a grandezza naturale gli pareva una bocca minacciosa, per giunta la fitta penombra che intravedeva attraverso la metà aperta del portone dava l’impressione che una mano di nero ne sbarrasse l’accesso. L’Albanese sollevò lo sguardo in cima all’arco e un mascherone di pietra lo allarmò: la bocca spalancata pareva vomitasse serpentelli che si intrecciavano in un’appendice disgustosa, gli occhi parevano due globi sul punto di esplodere e sulla testa, come una corona, svettavano due corna attorcigliate.

Come quelle di certi capri, pensò l’Albanese nella sua lingua.

Esitò prima di attraversare la strada, l’Albanese, si guardò intorno e dubitò che fosse la strada giusta, anche se l’osteria e la bottega erano al solito posto. Anche gli  alberi lungo il marciapiede parevano gli stessi, e le panchine del parco, e le case a due piani, anche quelle vecchie come il resto della città, che a seguirle ti portavano dritto al fiume, non c’era da perdersi, case alberi pali, andavano tutti verso la Città Vecchia, si arrestavano al fiume, alla fine della strada, e ti lasciavano davanti al Ponte dei Servi, da lì poi a sinistra, fino al Ponte delle Grazie, che bastava attraversare per trovarsi a due passi dalla collina della Città Vecchia: la strada era quella. Allora come mai questo portone non lo aveva mai notato, eppure ci era passato davanti tante di quelle volte, si domandò l’Albanese nella sua lingua.

La pioggia intanto si era ingrossata e adesso veniva giù gagliarda e fragorosa, se l’Albanese si fosse attardato ancora un po’ la sua giacchetta si sarebbe disfatta come cartapesta, e allora sì che ci sarebbe stato da bestemmiare. L’Albanese percorse correndo il tratto che lo separava dal portone sull’altro lato della strada e quando saltellò sul marciapiede, per superare il rigagnolo che correva veloce verso il tombino più vicino, rischiò di scivolare su una lastra talmente levigata e rilucente che ebbe modo di vedersi riflesso; l’acrobazia con la quale si tenne fortunosamente in equilibrio non evitò, tuttavia, all’Albanese di atterrare con un piede in una pozzanghera, per evitare la quale sarebbe stato  necessario un ulteriore balzo, per il quale i riflessi dell’Albanese non erano pronti.

“Puttana…”, sibilò l’Albanese nella sua lingua.

Il temporale adesso era sulla città e la inondava, la pioggia cadeva così fitta da appannare il basso orizzonte dei tetti, oltre il quale le guglie della Cattedrale parevano liquefarsi. L’Albanese era irritato, aveva un piede e una caviglia inzuppati e la giacchetta aveva cambiato colore, e andarsene in giro a far domande conciato come se lo avessero appena ripescato dal fiume non lo avrebbe certo aiutato. Era irritato perché se la pioggia persisteva, avrebbe visto andare in fumo i suoi piani per quella giornata, s’era svegliato con la sensazione che quella sarebbe stata la giornata giusta, e con la determinazione di non tornare a casa senza averne saputo finalmente di più su “questa Vanessa del cazzo”.

È proprio da ridere, pensava l’Albanese nella sua lingua, quando fai dei piani c’è sempre il diavolo di turno a metterci la coda.

E più da ridere ancora è che in tutto questo tempo non mi ero mai accorto di questo portone: di qua l’osteria, di là il robivecchi e mai visto ‘sto portone… un’altra cosa che non quadra, pensava.

Erano molti i conti che non tornavano all’Albanese. Per esempio che per tutti questi mesi non era riuscito a mettere in fila due fatti che erano due a proposito di quella Vanessa: non poteva essere sparita, si diceva, da qualche parte doveva essersi nascosta, da qualcuno doveva essere andata a farsi proteggere, qualcuno doveva tenerla, e più il tempo passava più tutto diventava complicato. E Stefan aspetta, si diceva l’Albanese, e il Professore aspetta. A volte, s’era detto chi se ne importa, cazzo!, se questa vacca non si trova, con tante che ce ne sono e tutte quelle che arrivano ogni settimana, perché proprio questa? Cosa gli cambia a Stefan, al Professore se questa o un’altra? Sono tutte uguali, cazzo, e allora perché proprio lei? E se non si trova? ‘Affanculo, dirò a Stefan che se la cercasse lui da solo questa Vanessa, gli dirò che non sono stato capace. Cercatela tu questa Vanessa, s’era detto l’Albanese, a volte. E poi la città non era mica come il suo villaggio, dove se qualcuno starnutiva lo sentivano tutti, questa è una città che da sola vale quanto mille villaggi, pensava l’Albanese nella sua lingua, e la gente si guarda storta, si sfugge, ognuno va per i fatti suoi e si chiude il mondo dietro la porta di casa, e io devo fare il lavoro da solo, girare domandare insistere spostarmi. E, poi, questa pioggia del cazzo.

L’Albanese stava pensando di tornarsene indietro, tanto la giornata era cominciata storta ed era certo che non ne sarebbe uscito niente di buono; meglio tornarsene a casa e restarci, almeno poteva cambiarsi i panni bagnati, togliersi le scarpe inzuppate e infilarsi sotto la coperta, così evitava di prendersi un malanno, tanto quello che doveva fare oggi poteva farlo benissimo domani, se non gli era riuscito di fare il miracolo in tutto ‘sto tempo, pensava, poteva anche aspettare un altro giorno.

Era così irritato l’Albanese che non si avvide del trambusto che montava alle sue spalle, anche perché il picchiettio della pioggia sul selciato gli era diventato talmente familiare e presente da impedirgli di percepire altri suoni. Si rese conto di quanto stava accadendo alle sue spalle solo quando, insieme ad una sorta di brontolio, una folata gelida lo investì in tutto il corpo. Si voltò ma ebbe solo il tempo di vedersi sfilare davanti una sagoma incerta, come un cane o un grosso gatto, o uno strano individuo dalle dimensioni di un nano: pareva che anziché camminare, scivolasse rapido senza toccare terra, e il trambusto che lo aveva preceduto altro non era che un indistinguibile brusio, un borbottio misto a soffi, a roche risatine e a un respiro affannoso. All’Albanese parve che quella strana creatura facesse una capriola, prima di fermarsi finalmente sul marciapiede davanti al portone.

Era a pochi passi, lì, immobile sotto la pioggia, pareva un nano, o un bambino, lo strano individuo aveva la statura di un bimbo di pochi anni ma la corpulenza di un uomo in miniatura, la pioggia pareva non impensierirlo, e fissava l’Albanese senza parlare.

Lo fissava di sbieco e ridacchiava, il sopracciglio sinistro inarcato e l’espressione sardonica di uno al quale è impossibile tenere nascosti i pensieri. L’individuo aveva una voce infantile.

“Siamo indietro col lavoro, direi.”

“Cosa tu dice?”
“No no no, un impegno è un impegno, una parola data è una parola data, le regole sono regole, non te lo ricordi??”

“Chi tu è?”

“E tu chi sei, sai dirmelo tu?”

“Io no conosce te… mai visto te e…”

“Se non conosci me, non conosci neanche te stesso.”
“Cosa tu vuole… io no conosce te!”

“Un impegno è un impegno, non è vero?”

“Quale tuo nome, cosa vuole tu da me?”

“Non ti serve conoscere il mio nome, io non sono un nome.”

“Tu va’ via, io no parla con chi no conosce.”

“Ma tu mi conosci, non è vero?”

“No, no vero, io no conosce te”, disse l’Albanese allarmato.

“Sì che è vero, hai parlato con me tante volte.”

“No vero, io no conosce!”

“Oh, sì.”

“No!”

“Fai il lavoro che devi fare”, tagliò corto allora il Nano, con un tono di voce più cupo.

“Cosa tu dice, tu no sa…”

“Il tempo passa.”

“No essere nessun lavoro… io… nessun…”

“Voglio aiutarti”, disse il Nano in tono conciliante.

“No volere tu aiuta me.”

“Ne sei proprio sicuro?”

“No, no volere niente, no bisogno te io.”
“Oh, dicono tutti di non aver bisogno di me, ma il lavoro non mi manca.”
“Tu no sa, no conosce…”

“Passa dalle parti del vecchio cimitero ebraico, quello abbandonato, forse troverai qualcuno che

potrà aiutarti.”

L’Albanese stava provando a replicare che sì, conosceva il cimitero abbandonato ma non ci sarebbe andato, quando vide il Nano allontanarsi a passi corti e frettolosi in fondo alla strada, in direzione del fiume e della Città Vecchia, le parole gli si ingolfarono in gola e una fitta dolorosa gli serrò il collo impedendogli di respirare. Insieme al Nano svanì anche la pioggia, la volta grigia che sembrava doversi rivoltare compatta sulla città si stava disfacendo in fretta nella direzione opposta a quella del Nano. Ancora per poco l’Albanese fissò un punto in fondo alla strada nello sforzo di riconoscere la sagoma bizzarra dell’individuo che lo aveva turbato, poi si voltò per capire da dove fosse sbucato il Nano, ma dal fondo dell’androne il buio continuava ad essere spesso e impenetrabile.

Non si domandò, l’Albanese, chi fosse quell’individuo, né arrivò a spiegarsi da dove diavolo fosse saltato fuori, e nemmeno si chiese come mai, nonostante l’acqua venisse giù a secchiate pareva scivolargli addosso come sulle pietre lisce del marciapiede. La mente dell’Albanese andò dritta al Professore, fu anzi il Professore ad impossessarsi di lui, quasi che l’Albanese potesse vederlo, come se lo avesse lì davanti. L’Albanese si allarmò, si scosse e decise di sfuggire a quel sortilegio, pensò che doveva muoversi, riprendere, controvoglia, la strada per la Città Vecchia; gli venne anche di pensare che stava facendo la stessa strada del Nano, che anzi metteva i passi sugli stessi passi di lui. Sto andando per la mia strada, io, pensò allora l’Albanese nella sua lingua, non sto seguendo nessuno e non andrò da nessuna parte, figuriamoci. E il Professore non c’entra un cazzo, ‘affanculo il Professore. Ma no che non può saperlo, come fa  il Professore a sapere chi vedo, con chi parlo, dove vado e cosa mi passa per la testa. Sì, avrà qualcuno che lo tiene informato, ma non c’entra niente col Nano. Niente. Ne sono sicuro.

L’Albanese attraversò il lungofiume ma andò diritto, non svoltò a sinistra come al solito, imboccò il Ponte dei Servi, si trattò di un impulso più che una decisione; attraversò il ponte a testa china, numerando i passi ed evitando accuratamente di calpestare gli interstizi tra le lastre del selciato. Ce l’aveva con se stesso, l’Albanese, ma evitava di pensare, per non dover ammettere che per quella strada sarebbe stato costretto ad aggirare la collina della Città Vecchia e a inoltrarsi per strade che aveva percorso raramente, e prima di raggiungere la sommità, dove c’era Piazza dei Cavalieri, non avrebbe potuto fare a meno, anche volendolo, di costeggiare il muro di cinta del vecchio cimitero ebraico e attraversare il quartiere che chiamavano ‘il ghetto’. L’Albanese si ricordò del nano e sputò di lato.

Dall’altro lato del fiume il sorriso  di una giovane donna a bordo di un’automobile sembrava invitare l’Albanese a proseguire con fiducia, e lui rimase a fissarne, come ipnotizzato, l’immagine che campeggiava su uno stravagante tabellone pubblicitario; la ragazza sembrava promettere che a bordo di quell’auto sarebbero andati lontano, lei e l’Albanese, talmente lontano da poter raggiungere un paradiso che attendeva entrambi alla fine del viaggio, e arrivarci in due sarebbe stato meglio che da soli. L’Albanese fissò i denti scintillanti della ragazza e le labbra atteggiate a un sorriso irresistibile, e dopo un po’ gli parve che quelle labbra si muovessero, che la ragazza parlasse e lo invitasse a proseguire lungo la strada che aveva intrapreso, cosa che l’Albanese fece sotto l’influsso ipnotico di quel sorriso. Attraversò la strada, l’Albanese,  senza badare a un taxi che arrivava da destra e fu costretto a frenare di colpo e a sterzare per non prenderlo, né fece caso a una coppia di ciclisti che gli urlarono dietro qualcosa, procedeva con calma l’Albanese, lo sguardo fisso al tabellone; quando fu sotto si fermò, si guardò intorno, spinse lo sguardo oltre il ponte poi tornò alla strada che aveva appena attraversato e si domandò dove si trovasse e cosa ci facesse lì.

Questo fianco della collina era interamente ricoperto da un bosco di lecci, qua e là si scorgevano attraverso la vegetazione gruppi di case bianche e il sottobosco era segnato da un dedalo di stretti viali sterrati che si perdevano e ritrovavano più in alto; un canale transennato convogliava acqua verso il fiume. C’erano panchine di legno lungo il sentiero principale, e durante la bella stagione non era infrequente incontrare famigliole con bambini che scorrazzavano per le radure, o coppiette che trascorrevano ore a guardarsi negli occhi e a promettersi amore eterno. Quassù il frastuono del traffico giungeva attutito, a quest’ora del mattino lo scalpiccio dell’Albanese si udiva nitido e spaventava passeri merli e verdoni scesi a becchettare. A metà della salita l’Albanese si lasciò cadere su una panchina, era la prima volta che si trovava da questa parte della collina e non era per nulla sicuro che il viale che stava percorrendo portasse da qualche parte; si chiese perché stamattina aveva dato retta alle sue gambe anziché all’abitudine, avrebbe risparmiato tempo e fatica, e forse a quest’ora avrebbe già contattato le persone che potevano aiutarlo, le persone giuste. Intanto si tolse le scarpe e posò i piedi sulla panchina, li massaggiò e sentì che i calzini erano inzuppati, poi contò i rintocchi del campanone della Cattedrale, erano nove.

L’Albanese si rimise in movimento giusto per scacciare dalla mente il pensiero inopportuno e fastidioso del Nano, il suo suggerimento: il cimitero ebraico; si domandò se il sentiero che stava percorrendo non lo stesse portando dritto lì e perché mai lo stesse seguendo, dal momento che non aveva alcuna intenzione di andarci al cimitero ebraico, né si sarebbe mai piegato a chiedere informazioni a un passante, sempre che a quest’ora gli fosse riuscito di trovarne uno.

Di rado l’Albanese si era trovato di fronte a un dilemma, e ancor più raramente aveva dovuto affrontare situazioni che non prevedevano se non un’unica soluzione, come quando si trattava di avere a che fare con le ragazze che gli venivano affidate, e in quelle circostanza sapeva che le sue parole non dovevano essere interpretate ma seguite alla lettera, e quando qualche patema provava ad affacciarsi alla sua coscienza era accolto con la medesima sbrigativa superficialità e insofferenza con le quali rintuzzava le lamentele delle ragazze.

Adesso, però, era diverso. Nonostante sapesse di non avere alcuna intenzione di arrivare al vecchio cimitero ebraico abbandonato, come gli aveva suggerito il Nano, qualcosa vincolava l’Albanese, gli guidava i passi e lo metteva in contrasto con se stesso. Senza contare il fatto che, chissà perché, l’incontro col Nano aveva svegliato in lui la presenza del Professore, al quale si sentiva comunque vincolato, e nella sua mente il Nano e il Professore pareva complottassero per dirigere i suoi passi. Di tornare indietro nemmeno a parlarne, ormai era quasi in cima.

Alla fine della salita l’Albanese si ritrovò in una radura nella quale convergevano tracce da ogni direzione, notò che non c’erano panchine, né indicazioni utili a proseguire per la Città Vecchia. L’Albanese si fermò al centro della radura e si sentì accerchiato dal silenzio, un silenzio ostile, insopportabile. Gli parve di scorgere tra gli alberi che cintavano la radura sagome di bambini che correvano, anche se l’Albanese non avrebbe potuto giurare che si trattasse di bambini, avrebbero potuto essere adulti che inseguivano bambini, bambini che giocavano a nascondersi agli adulti, o a rincorrersi tra loro. Oppure fantasmi, che si spostavano da un punto all’altro con l’intenzione di nascondersi ai vivi perché, come notò l’Albanese, si muovevano rapidi e silenziosi, senza un grido, senza voce o riso, nel più assoluto silenzio, e senza smuovere un filo d’erba. Un irrazionale impulso a fuggire assalì l’Albanese, ad allontanarsi quanto prima da quel posto, a prendere una direzione qualsiasi pur di trovarsi il più lontano possibile da quelle presenze; l’ansia lo afferrò alla gola, gli fece immaginare di trovarsi circondato da presenze sempre più numerose, da un popolo di sagome mute che sbucavano da ogni parte, si dirigevano verso di lui e lo stringevano in un cerchio sempre più stretto. L’Albanese si accorse che sudava, un sottile diadema di goccioline gli contornava la fronte.

Parve all’Albanese di risentire la voce del Nano che gli rideva dietro, e poi un’altra che si accavallava a quella del Nano, più grave e pacata, ma che non riconosceva, come non riusciva a decifrare quel che diceva, anche se il tono di quella voce era deciso e inflessibile e sembrava istigare l’Albanese, spronarlo, comandarlo. Gli sembrava che tutto ruotasse, gli girasse intorno, gli alberi le sagome il silenzio.

Quando l’Albanese si guardò intorno ancora una volta fu come fosse la prima e le presenze erano svanite; ma trasalì a un tocco lieve sulla spalla che lo costrinse a voltarsi di colpo.

“Cosa fai qui fermo, stai perdendo il tuo tempo.”

Una giovane donna gli stava alle spalle, bionda e slanciata, stretta in un elegante tailleur blu che la assottigliava ancora di più, pareva così leggera ed esile da temere che una folata di vento un po’ più gagliarda potesse portarla via; le labbra rosse spiccavano su un incarnato pallido, gli occhi erano scuri e lo sguardo fondo e severo, parlava la lingua degli altri, quella che l’Albanese detestava.

“Stai perdendo il tuo tempo”, ripeté la donna, “e questo non è un bene, lo sai.”

La consueta difficoltà dell’Albanese nel maneggiare una lingua ostica e ostile fu aggravata dall’imbarazzo, dalla confusione che la donna suscitava in lui, provò a rispondere, l’Albanese, ma ne venne fuori un farfuglio insignificante. Ripensò immediatamente alle figure intraviste nel bosco, l’Albanese, e pensò che la donna potesse essere una di loro, perciò la fissava con la bocca spalancata e il terrore negli occhi.

“No, no capito.”

“Il tempo non torna indietro, non ti aspetta, va avanti e si perde per sempre.”

“Come? Chi? No aspetto nessuno io.”

“I giorni si perdono, le ore si perdono e noi con loro. Alla fine ci volteremo indietro e saremo spaventati, ci accorgeremo di aver sperperato il tempo che ci era stato concesso, e sarà tardi.”

“Io, io mai visto te, io no conosce te.”

La donna sorrise, ma fu solo una piega malinconica che per poco increspò il disegno perfetto delle labbra.

“Questo non ti giustificherà. Hai un compito da svolgere, vai fino in fondo. Fa’ quello che devi, domani potrebbe essere troppo tardi.”

“Come sa tu…”

“Non io, tu lo sai, sai quello che devi fare.”

L’Albanese si sentì letto dentro e provò vergogna. Chi era questa donna che lo sfogliava come un libro aperto? come poteva sapere certe cose? pensò l’Albanese nella sua lingua, lui non la conosceva, non l’aveva mai vista prima d’ora, come faceva a sapere che quella mattina era in ritardo? che a quest’ora doveva trovarsi da tutt’altra parte, non fosse stato per il temporale e il Nano? pensò l’Albanese.

“No sa perché, proprio no sa. Questa mattina fatto altra strada, proprio no sa perché… no stessa di tutti i giorni.”

L’Albanese avrebbe voluto prendersi a schiaffi lì, davanti alla donna, voleva cercare di spiegarle  l’inspiegabile disguido, sperava almeno di meritarsi la sua comprensione.

“Sei ancora in tempo. Ma ricorda che devi rendere conto di ogni incrocio del tempo che le tue azioni hanno determinato, le sincronie sono irripetibili e quello che è messo in moto non si arresta, e non ti aspetta.”

“No capito. Io no…”

“Non ha importanza, fa’ quello che devi, domani potrebbe non arrivare.”

La donna si allontanò senza far rumore, come se sfiorasse il terreno, nonostante i tacchi a spillo. L’Albanese la seguì con lo sguardo, provò ad allungare un braccio e a chiamarla, ma non conosceva il suo nome e la voce gli si gelò in gola, mentre la donna si dileguava nel folto del bosco.

E l’Albanese si ritrovò di nuovo solo, ancora più confuso e disorientato, al centro della radura come in un deserto, a domandarsi cosa ci facesse in quel posto, come ci era arrivato e soprattutto perché. Aveva la sensazione che la donna avesse portato via insieme al suo fascino inafferrabile una parte di se stesso, una fetta della sua vita precedente, e  i giorni e le ore che aveva alle spalle si fossero dissolti, cancellati da una nebbia che lo faceva dubitare di sé. E non serviva guardarsi intorno per sincerarsi che quelli che vedeva erano davvero alberi, che sotto i piedi la ghiaia crepitasse davvero, e l’aria fresca gli riempisse i polmoni per davvero; oppure, come in un sogno da morto, faceva finta di essere vivo, si concedeva l’illusione di uno scampolo di esistenza che ormai non gli apparteneva più? Forse che  le ombre nel bosco erano vere, pensò l’Albanese nella sua lingua, non le aveva immaginate, erano vere e lui ora era uno di loro, e anche la donna era una di loro: un’ombra che conosceva la sua vita, le sue intenzioni, l’impegno che aveva con Stefan e il Professore, ed era stata mandata ad avvertirlo che non c’era più tempo, che non aveva più alcuna scusa, che aveva buttato a mare il tempo che gli era stato concesso e adesso qualcuno gliene chiedeva conto. Forse quella mattina aveva creduto di svegliarsi, di alzarsi e vestirsi e di incamminarsi per strada, invece aveva lasciato sulla branda il suo corpo che a quest’ora doveva essere diventato freddo, immobile; riusciva a vedersi disteso, scalzo, la coperta attorcigliata attorno alle gambe, nessuno che lo lavasse, lo rivestisse e lo piangesse, pensava l’Albanese nella sua lingua. Era morto come aveva vissuto, in questa città di sconosciuti, pensava l’Albanese. Anche il Nano era un fantasma, allora, e il portone sotto il quale si era fermato poteva benissimo averlo sognato da morto.

E i rintocchi del campanone della Cattedrale, quelli che proprio adesso stava sentendo, anche quelli sono un sogno da morto, pensò l’Albanese. Li contò, erano dieci e provenivano dall’altro lato del fiume e parevano veri, doveva credere che fossero veri. Se tutto quello che gli stava capitando stava capitando a un morto, allora a che serviva preoccuparsi, non aveva più da andare in nessun posto, né combattere col tempo che pareva gli stesse attaccato ai polpacci come un cane rabbioso, e neppure Stefan poteva più dargli ordini e trattarlo come un lebbroso; quanto al Professore e a quella sua troietta, beh, se la cercasse lui da solo, se ne era capace, perché a lui l’impresa non gli era riuscita…

L’Albanese si rese conto di essere ancora vivo quando ripensò alla donna, al fatto che nessuna si era mai permessa prima di parlargli come aveva fatto la sconosciuta. Lui le donne, poi, non stava nemmeno ad ascoltarle, e a quelle con le quali aveva a che fare tutti i giorni non valeva la pena di dedicare attenzione, perché i ragionamenti che facevano non lo interessavano, anzi lo infastidivano, c’era solo da diventare scemi. La sconosciuta gli era sembrata diversa dalle altre, e quello che aveva detto lo aveva lasciato impalato come un deficiente. Aveva capito poco, e se qualcuno gli avesse chiesto di ripetere  quello che la donna aveva detto, non ne sarebbe stato capace. Cosa avrà voluto dire con quel suo discorso sul tempo, si domandò l’Albanese, e che avrebbe dovuto rendere conto di come lo aveva speso? E a chi doveva rendere conto del suo tempo? C’era forse qualcuno che stava lì a misurarlo il tempo e poteva rinfacciargli di averlo speso male? A chi doveva rendere conto? E perché alla fine di tutto l’unica persona che riusciva a immaginare dietro questi ragionamenti era il Professore, l’unico che poteva sapere, che aveva occhi dappertutto e orecchi nascosti dietro ogni finestra, che sapeva perché a lui non si poteva nascondere niente, l’unico che aveva il diritto di chiedergli conto del tempo, del suo tempo e di come lo stava usando? E allora, la donna? e il Nano?

Il sentiero che l’Albanese aveva inconsapevolmente imboccato si inoltrava nel bosco ed era delimitato su entrambi i lati da quel che restava di una palizzata rosa dal tempo. Non si domandava, l’Albanese, dove portasse, camminava a testa bassa senza perdere di vista la punta delle scarpe. Fu costretto a fermarsi quando si trovò davanti a un cancelletto chiuso, al di là il silenzio pareva più fondo di quanto non avesse già percepito. E poi c’era un muro di cinta tutt’intorno.

L’Albanese pensò d’essersi perso, considerò la possibilità di tornare sui suoi passi, alla radura, e di prendere un altro sentiero, non poteva rimanere lì a contemplare quell’ostacolo che gli sbarrava il passo. Considerò la possibilità di aggirare il muro, o di scavalcarlo, ma nessuno poi gli garantiva che al di là non avrebbe incontrato un altro ostacolo; magari la collina terminava di colpo a strapiombo, magari non c’erano altri sentieri, o se c’erano lo avrebbero portato da tutt’altra parte. La cosa migliore era tornare indietro, pensò l’Alanese. Tuttavia l’idea di tornare alla radura non lo invogliava, l’essere appena uscito da un incubo nel quale si era visto morto era un’esperienza che non avrebbe voluto rifare per niente al mondo. Eppure qualcosa doveva fare, non poteva farsi scoraggiare da un cancelletto arrugginito.

Quello che l’Albanese riusciva a intravedere oltre il cancelletto erano mucchi di lapidi grigie, letteralmente accatastate una sull’altra a formare un’accozzaglia indecifrabile, come se si fosse dovuto ovviare alla mancanza di spazio sottraendo terreno ai morti più vecchi, costringendoli a fare spazio ai più freschi e obbligandoli a condividere un’eternità scomoda e sacrificata. Non c’erano  più dubbi che quello fosse il cimitero di cui gli aveva parlato il Nano, pensò l’Albanese, e non aveva visto niente di più sinistro; da morto, pensò, avrebbe preferito una sistemazione migliore, un fazzoletto di terra tutto per sé nel quale potersene stare immobile e comodo, senza dover avere a che fare, anche da morto, con i suoi simili, che da vivo gli stavano rendendo l’esistenza non proprio una passeggiata; forse da morto, con un paio di metri di terra sulla testa e il contorno di vermi a ingrassarsi a sue spese, non avrebbe più dovuto nascondersi, vergognarsi di se stesso e sentirsi chiamare ‘Albanese’ come fosse un insulto; forse gli sarebbe capitata una posizione comoda dalla quale godersi l’eternità. Quello che per adesso vedeva lo intristiva. Forse era il caso di tornare indietro, cercare un percorso diverso che lo conducesse finalmente alla Città Vecchia. Intanto il campanone della Cattedrale stava scoccando i rintocchi, ed erano undici.

Cos’altro poteva aspettarsi da una giornata cominciata che peggio non si poteva, pensava l’Albanese nella sua lingua. Poteva tornarsene da dove era arrivato, rifare la strada e cercare di orientarsi, una volta giunto allo spiazzo dove aveva incontrato la donna, ma oltre al timore di rivedere le ombre, oltre al terrore di una nuova angoscia paralizzante, c’era il fatto che non avrebbe saputo a chi chiedere. Cosa avrebbe dovuto dire, mi sono perso per piacere aiutatemi? No, non se ne parlava nemmeno. E poi come spiegare che sì, si era perso, ma non era tanto l’aver smarrito la strada, cosa che avrebbe fatto sorridere chiunque, visto che la Città Vecchia era a pochi passi; quello che mai si sarebbe piegato a dire era che si sentiva perso dentro, già doverlo ammettere a se stesso lo disorientava, lo sbalordiva. Aveva sempre sostenuto, l’Albanese, che una volta sistemate le faccende pratiche, che per lui erano la custodia e il controllo delle ragazze, il problema di un tetto e qualcosa da mangiare, tutto il resto era secondario, una pura perdita di tempo. Quanto  alle pretese di dentro, a quello che era giusto o sbagliato, a quello che si doveva o non doveva fare, a quanto si poteva o non si poteva fare, a quello che sarebbe stato utile, per sé e per gli altri, fare o non fare, beh, su tutto questo l’Albanese aveva  deciso di metterci sopra un coperchio tanto tempo fa, di sbarazzarsene definitivamente da quando aveva capito che era rimasto l’ultimo ingenuo a star dietro a queste faccende. Da quando aveva intuito che la regola era ‘ognuno si fa i cazzi propri e ‘affanculo il resto’, si era sentito più leggero e il passo era diventato più sciolto. Se proprio avesse dovuto dire cosa guidava i suoi passi, se proprio avesse dovuto ammettere che sì, c’era sulla sua testa una stella che lo guidava, beh, quella stella era il Professore, riteneva l’Albanese. Il Professore doveva essere davvero un grande, se bastava nominarlo perché le cose andassero a posto, ogni testa si piegasse alla sua volontà, ogni vita ne fosse toccata, argomentava l’Albanese. Col Professore l’Albanese aveva trovato quello che aveva sempre cercato: un senso, uno stile, un obiettivo. Per questo l’unico spazio disponibile dentro era riservato al Professore, ai suoi pensieri, alla sua volontà, non c’era spazio per niente e nessun altro. Il fatto poi di non averlo mai visto non era per l’Albanese un problema, in fondo nessuno poteva dire di aver mai visto in faccia il Professore, non sapere come fosse fatto, che voce avesse, come si muovesse e vestisse era secondario per l’Albanese. Quello che contava era che il Professore c’era anche quando non c’era, perché era nella testa dell’Albanese, nei suoi pensieri, nelle intenzioni, e questo era l’unico spazio di dentro che l’Albanese riconoscesse e al quale permetteva di avanzare rivendicazioni. L’Albanese era orgoglioso di lavorare per il Professore, cercava di fare il suo lavoro meglio che poteva, ci metteva zelo e la giusta cattiveria. E poi il mondo non era per nessuno  un parco dei divertimenti, non era una gita, e nemmeno un posto dove la gente si sarebbe fatta in quattro per aiutarti; al contrario, pensava l’Albanese nella sua lingua, è necessario essere duri per sopravvivere, essere attrezzati e pronti al peggio, e stare alla larga dai problemi. Come la storia di questa Vanessa del cazzo, per colpa della quale era fermo davanti a un cancello arrugginito come un palo, uno spaventapasseri che non sa da quale parte voltarsi… purtroppo questo era un affare del Professore, e al Professore non poteva dire di no, nessuno avrebbe potuto dire di no al Professore.

Quando l’Albanese riemerse dai suoi pensieri, si disse che tutto questo pensare non gli avrebbe fatto bene, lo avrebbe rincoglionito. Anzi, pensò di stare rammollendosi, se un cancello arrugginito era capace di distoglierlo dai suoi propositi, e se l’incontro con due tipi strambi nella stessa mattinata poteva scombussolarlo al punto di non sapere da che parte andare. Di tipi strani la città era piena, e allora? Non poteva mica preoccuparsi per tutti i pezzenti e i pazzi che gironzolavano per via, lui; se la città li vomitava, perché proprio lui doveva darsi pena di due strampalati che gli avevano fatto perdere un sacco di tempo? In fondo, erano solo due tra tanti, uno storpio e una svitata che se ne andavano in giro a fare discorsi degni di loro.

L’Albanese, allora, si staccò dal muretto al quale era appoggiato, si avvicinò all’ingresso del cimitero e sferrò un poderoso calcio alla base del cancelletto arrugginito, che scricchiolò, gemette flebilmente sui cardini e si aprì. Ecco fatto, pensò l’Albanese, quel figlio di puttana di uno storpio l’ha avuta vinta.

Il cimitero, in realtà, era un minuscolo fazzoletto di terra cinto da un alto muro, vide l’Albanese, un reticolo irregolare con una stupefacente quantità di lapidi ammucchiate una sull’altra, la pietra delle lapidi era grigiastra, intaccata da licheni che la deturpavano e dal muschio che prosperava abbondante. I mucchi di lapidi accatastate parevano spuntare come stravaganti funghi dalla sommità di collinette tutte uguali. Da questa parte del muro la Città Vecchia pareva distante, lontano il viavai, il frastuono che a quest’ora del mattino la colmava. Era come se in questo fazzoletto di terra cintato il Tempo e la Storia fossero rimasti impigliati e costretti a rimanere indietro. Ma questo all’Albanese non interessava, non era un turista, lui, e che questo fosse un cimitero ebraico non faceva alcuna differenza. I morti sono morti dappertutto, pensava, sono tutti uguali, cambiano solo i nomi e i segni ma sotto, sotto due metri di terra la sostanza resta la stessa, gli stessi vermi, quello che li aspettava era uguale per tutti.

Dovunque guardasse l’Albanese non riusciva a scorgere che cielo, il muro di cinta era così alto che pareva un ostacolo insormontabile, una barriera senza uscita. Il Campanone della Cattedrale batté dodici colpi, l’Albanese li stava contando quando una voce lo fece trasalire.

“Queste tombe sono molto antiche, qui dentro sono sepolti  cinque secoli di storia. Oh, non temere, non devi aver paura di me, sono qui per aiutarti.”

“Io no bisogno”, si affrettò a dire l’Albanese.

“Oh, si che hai bisogno di aiuto, io lo so, posso indicarti la strada, il percorso migliore per orientarti, e poi non c’è nulla di male a chiedere aiuto, no?”

“Io no bisogno di aiuto, io è qui per…”

“Lo so perché sei qui, chi viene in questo posto non ci viene per caso, e tu sei qui per…”

“No, io no…”, balbettò l’Albanese.

“Ti sei perso, vero? Ti sei perso e non sai più da che parte cominciare, e il tempo vola, non è vero?”

“Perché tu dice questo?”

“Te lo leggo negli occhi. Sai, io sono vecchio e certe paure non mi imbarazzano più, e poi posso dire di averne viste così tante nella mia vita che un viso non ha più segreti per me; sul tuo leggo smarrimento, ansia, lo stupore doloroso di chi si è perso per strada e non sa domandare. Credo che tu sia arrivato nel posto giusto.”

L’Albanese si sentiva in bilico, sospeso tra il lasciarsi cadere dal versante della resa e ammettere finalmente la sconfitta, oppure cedere all’impulso di scappare da quel posto nel quale, dal momento in cui aveva messo piede, aveva sentito crescere un peso che lo opprimeva al centro del petto. Sentiva, l’Albanese, di non poter reggere la vista di quel vecchio all’apparenza innocuo, che gli si rivolgeva in modo garbato, con un tono di voce cantilenante e pacato e non lo metteva con le spalle al muro, rinfacciandogli qualcosa che non andava. C’era qualcosa nello sguardo del vecchio che lo intimoriva, lo rendeva nervoso. Perché il vecchio lo fissava in quel modo? Perché aveva quel tono che pareva volerlo ammaestrare? Perché aveva la sensazione che, da un momento all’altro, lo avrebbe inchiodato con una domanda alla quale lui non avrebbe saputo rispondere, una domanda come una coltellata che lo avrebbe colpito al centro del petto lasciandolo senza fiato e senza sangue? E da dove era sbucato quel vecchio, in quel posto che pareva deserto e abbandonato?

“Qui dentro non occorre fingere, non serve mentire. Le vedi queste tombe? Guardale bene. Cosa credi che nascondano?”

Ecco, pensò l’Albanese nella sua lingua, e già credeva di sentire nello stomaco il dolore lancinante di un cazzotto, lo strazio di una ferita che non sanguinava perché ad essere lacerato non era il corpo, ma qualcosa come un’invisibile impalcatura che lo sosteneva dentro.

“Nascondono pene, gioie, sofferenze, illusioni, disinganni, dolore, e cos’è tutto questo, ormai? Nulla, nulla di nulla, come quello che resta di questi corpi sotterrati. Da vivi coltivano quelle gioie, quelle illusioni, persino quel dolore, e sai tu cosa adesso non possono più fare questi corpi, questi crani svuotati? Non possono più mentire, non possono più farlo, né agli altri, né a se stessi. Quando erano in vita hanno passato molto del loro tempo a mentire, a coltivare la menzogna come lasciapassare per l’esistenza, a confondere e circuire gli altri con le parole? E sai tu su cosa mentivano? Mentivano su se stessi, sulla loro vita, sull’esistenza: erano consapevoli di agitarsi invano, di affannarsi verso un traguardo che non c’era. Li compiango, poveretti. L’ho fatto da sempre, del resto.”

L’Albanese naturalmente non capiva, si sentiva un cencio strapazzato senza avere il coraggio di ammetterlo; intanto il vecchio continuava a fissarlo dritto negli occhi.

“Un tempo ci veniva tanta gente in questo posto, era segnato persino sulle guide turistiche della città, adesso non ci viene più nessuno, e tu sei capitato qui per sbaglio, non è vero?”

“No, no… io no…”

“No? Non è quello che mi hai detto? Non mi hai detto che sei arrivato qui per errore, che ti eri perso?”

“No capito, io, io no capito.”

“Lo so, non mi aspetto che tu comprenda”, e nella voce del vecchio c’era adesso un velo di malinconica disillusione, “in fondo sei come gli altri… Adesso che ci penso, c’è qualcuno che viene ancora in questo posto, come ho fatto a dimenticarlo, è un giovanotto, si chiama Stefan.”

Quel nome fu una mazzata per l’Albanese, si scosse, si irrigidì, gli venne meno il fiato e aveva la sensazione di cadere all’indietro.

“Lo conosci?”

“No possibile, no, io no conosce, questa è grande città. Io no!”

“Mi era sembrato che quel nome ti dicesse qualcosa. Che strano! Ricorda: solo i morti non possono mentire, non ne hanno più il tempo. Tu sei ancora vivo, di tempo ne hai, perciò pensa a quello che devi fare, fallo finché sei in tempo. Lo sai cos’è il tempo, vero?”

“No sa, io no capito.”

“E’ una comoda illusione che a volte ci fa sentire immortali, ma se provi a guardarti indietro non te lo ritrovi, è svanito, perso, e con lui svanisce tutto il resto, perciò bada a non sprecare il tuo tempo, sbrigati a fare quel che devi , o rischi di ritrovarti a piagnucolare su quello che avresti potuto fare e non hai fatto e a maledire il giorno in cui tutto ha avuto inizio. Fa’ quello che devi.”

Il vecchio si allontanò. Quando l’Albanese provò a seguirlo con gli occhi, lo vide scivolare discreto attraverso una porticina nel muro di cinta che l’Albanese avrebbe giurato non essere mai stata in quel punto. Fece per chiamare, ma in bocca aveva il sapore di un’ingiunzione incomprensibile e severa, e nella mente una sensazione di vuoto opprimente. L’Albanese si lasciò cadere accanto a un mucchio di lapidi e rimase con la testa tra le mani. Quella mattina sembrava che ce l’avessero tutti con lui, poveraccio, che tutto il mondo gli rinfacciasse la sua inutile esistenza, e che l’unico sentimento che gli fosse concesso era quello della colpa, una colpa fuori misura, pesante, insopportabile, manifesta al mondo intero. I piedi nelle scarpe erano inzuppati, il disagio gli riportò alla mente un sogno di qualche notte prima: si dibatteva impotente in una minuscola pozza d’acqua nella quale era immerso e che col tempo prendeva a crescere fino a raggiungere la gola; non appena cercava di trovare un appiglio per salvarsi, il livello dell’acqua saliva. Si era svegliato di soprassalto in un mare di sudore.

Anche le mani sentì umide, l’Albanese le staccò dal viso, stava piangendo.

Attraverso il velo delle lacrime le collinette con le lapidi gli sembrarono aguzze come le montagne della sua Terra, respirando l’Albanese poteva sentire l’odore d’erba e terra rivoltata, quello acre delle capre e quello pungente del vento carico di pollini; rivedeva le case del suo villaggio, rivedeva la sua casa e rimpiangeva l’ordine che sua madre imponeva alle cose; la melodia della sua stessa lingua gli ricordava una nenia infantile e nostalgica.

“Non è questo il mio posto”, sussurrò l’Albanese nella sua lingua, “non è questa la mia vita, non è qui la mia gente.”

Fissava la porticina dalla quale era passato il vecchio e indugiava, l’Albanese. Dove porta quella porta? dove si sarebbe ritrovato? chi altri avrebbe incontrato ancora? E se oltre quella porta non ci fosse nulla? se una volta al di là si fosse trovato davanti a un deserto, a uno spazio completamente vuoto: niente più case, niente persone, niente più Città Vecchia?

Quando allungò una mano per tirare a sé la porticina, l’Albanese chiuse gli occhi, e quando li riaprì gli sembrò di essere riemerso da una notte fonda. Riconobbe Piazza dei Cavalieri, i portici e la collina del Castello dall’altra parte della città. Ritrovò la panchina divelta sulla quale aveva trascorso una notte e si ricordò dello strano tipo col quale s’era fermato a chiacchierare. La piazza brulicava di turisti e osservandoli l’Albanese sentì rinascere dentro un’ostilità e un disprezzo che lo riconciliarono col mondo. Si sentiva ormai al sicuro, l’Albanese, lontano dal pericolo di incontri bizzarri, fuori da un’atmosfera opprimente e un silenzio insopportabili; le fantasie angosciose che gli pareva di aver attraversato acquistavano ora la giusta dimensione: sciocchezze, paure da donnette!

Ma l’Albanese non aveva fatto i conti con Antonin.

Sull’altro lato della piazza, Antonin passeggiava su e giù ad ampie falcate, estraneo all’andirivieni dei turisti ma non meno attento a scrutarne le fisionomie e i gesti, a valutarne i movimenti e a soppesarne l’abbigliamento. I suoi amici burloni, i vetturini, lo avevano avvertito: qualcuno lo stava cercando, anzi lo cercava da giorni, doveva essere un pezzo grosso di un’Organizzazione che veniva per una missione vitale: censire tutti coloro che avevano baffi, se maschi, o i capelli biondi, se femmine, perché quello era un travestimento, in realtà si trattava di personaggi pericolosissimi mandati per preparare il terreno a un sovvertimento su scala mondiale, del quale al momento era impossibile prevedere le conseguenze. Antonin aveva abboccato e adesso era lì a contare i baffuti e le bionde.

L’occhio vigile di Antonin aveva puntato l’Albanese seduto sulla panchina sotto il platano, credendo di riconoscere in lui il personaggio importante che lo stava cercando. Antonin attraversò la piazza e si accostò cauto alla panchina.

“Permette che mi accomodi accanto a lei?”

L’Albanese puntò Antonin insospettito.

“Tu va via, siede a un’altra. Via!”

“Stia tranquillo, non la disturberò a lungo. Intendevo solo dirle che ha trovato la persona giusta, quella che può aiutarla nella sua ricerca. Sa, io conosco molta gente.”
“Ho detto te tu va via, no bisogno.”

“Non tema, di me può fidarsi, e poi sono pratico di certe cose. Pensi che mentre la stavo aspettando, ho cominciato a lavorare, sapesse quanti baffi e bionde ho contato.”

L’Albanese era infastidito e a disagio, non solo perché Antonin aveva tutta la stranezza di quegli altri, ma anche perché gli sembrava che i turisti che passavano davanti alla panchina ridacchiassero alle loro spalle.

“Guardi, tanto per cominciare dove sto di casa c’è un sacco di gente coi baffi, perciò in un solo colpo potrebbe beccarne più d’uno. Ma quel che è più importante, c’è anche una bionda, una sola per la verità, ma della quale non mi sono mai fidato, e credo proprio che sia una di loro. È una ragazza molto giovane, non ci sono dubbi; è molto pericolosa, questo è sicuro. Mi ascolti, dia retta a me, posso aiutarla. Da quando quella è arrivata alla distilleria Kuntz la situazione è andata fuori controllo.”

L’Albanese conosceva la distilleria Kuntz solo di nome, qualcuno gliene aveva parlato come di un posto poco raccomandabile, ma cosa c’entrava la gente coi baffi, e questa bionda?

“Non ha che da venire a dare un’occhiata, le chiedo solo questo; voglio essere utile all’Organizzazione e vedrà che non se ne pentirà. Venga a dare un’occhiata  alla distilleria Kuntz.”

L’Albanese era perplesso. Una bionda la stava cercando, questo era sicuro, ed era l’unica cosa che sapeva di quella fottuta Vanessa che pareva svanita nel nulla. A conti fatti, questo pazzo era l’unica persona che gli stava dando qualcosa che somigliava ad un’informazione, baffi a parte.

“Dove detto tu sta?”

“Alla distilleria Kuntz.”

 

Francesco De Nigris

 

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