Aurora: Incendio Sulla Collina I (Cap. 6)

CAPITOLO 6 – INCENDIO SULLA COLLINA I

“Andiamo” dice Mr.P, “Qui è finita, usciamo”.

La ragazzina, finalmente libera, si lascia trasportare dalle robuste braccia del Nonno che cerca di sorriderle, ma la ferita alla tempia non lo aiuta. Lei si limita a fissarlo silenziosa mentre si avviano all’uscita. In silenzio, anche gli altri cinque lo seguono insieme ai superstiti della sparatoria.

“Faccia a terra e mani dietro la nuca!” urla il Mast.

Una volta all’esterno della casa, gli uomini catturati vengono messi con le spalle al grosso muro del guardino e uno di loro comincia a piangere immediatamente. Il Pastore, disgustato, si accende una sigaretta e lo guarda torvo.

“Smettila, mi dai il voltastomaco”.

Il Pipitone e l’indiana dagli occhi azzurri, tra i prigionieri, lo fissano con attenzione, sebbene sul viso dell’uomo c’è molta più sicurezza, come se la situazione fosse sotto il suo controllo. Solo la donna tradisce inquietudine.

“Per voi c’è un trattamento speciale” dice il Nonno attirando la loro attenzione.

Qualche istante dopo, dall’interno della casa, si vedono i primi bagliori di un piccolo focolaio e prima che l’ingresso della casa venga avvolto dalle fiamme, la figura zoppicante di Papà Nino è ben visibile sulla soglia. In pochi e decisi passi l’uomo li raggiunge prima che il fuoco divori tutta la facciata principale e la casa diventi un immenso rogo.

Gli uomini catturati fissano rapiti l’incendio, mentre quello in lacrime non smette di tremare guardando il Pastore.

“Dai, smettila” gli dice Mr.P., “Andiamo via”.

“Dobbiamo preoccuparci di te?” chiede il Nonno avvicinandosi all’uomo in lacrime e questi scuote il capo deciso.

“Allora sparite!” urla il Pastore alle sue spalle facendoli correre. I nove prigionieri si dileguano nella notte.

“Che ne farete di noi?” domanda il Pipitone che era stato trattenuto con l’indiana dagli occhi azzurri.

“Ve l’ho detto prima, no?” risponde il Nonno e mentre le fiamme divorano la casa, li spinge lontano.

“Però! Ha il suo fascino, non credi?” sente dire al Tetto quando, nei pressi del retro, nota una piccola costruzione in muratura dove sono riposti gli attrezzi per la manutenzione del giardino. Non ha bisogno di forzare la serratura per trovare quello che cerca, perché una volta vicini, dice ai due prigionieri di prendere le pale appoggiate a un muretto basso. Il Pipitone si volta immediatamente, ma si ritrova la sua pistola puntata alla faccia.

“Magari pensi di potermi sopraffare perché ho un braccio ferito, vero?” gli chiede il Nonno.

Con titubanza, i due eseguono l’ordine e si portano sul retro della piccola costruzione dove il calore è ancora poco.

“Scavate!” intima il Nonno, “Non dovrebbe essere difficile, il terreno sembra morbido”.

“Che intenzione hai?” chiede allarmata la donna, ma non ricevendo la risposta, capisce subito le sue intenzioni.

“Scava tu” dice il Pipitone con disprezzo lanciandogli la pala, “Se devi ammazzarci fallo e basta, pezzo di merda!”.

“Come vuoi” mormora lui tramortendoli entrambi con il calcio della pistola senza dargli il tempo di reagire.

Il terreno è decisamente morbido in quella porzione di giardino e sebbene abbia un braccio inservibile, l’uomo riesce a scavare una buca profonda in pochi minuti. L’azione è resa più facile anche dalla presenza di una fossa biologica preesistente e da poco ricoperta di cui, però, non si accorge. Quando ne tocca il fondo duro, è convito di aver raggiunto uno strato di pietre. Giudicando abbastanza il lavoro eseguito, si limita a far rotolare i corpi inermi del Pipitone e dell’indiana all’interno. Con soddisfazione il Nonno ammira poco dopo la buca ricoperta.

“Credo che aspetterò” mormora e si accende una sigaretta sedendosi vicino. Vuole rimanere a contemplare ancora un po’ il suo lavoro e cercare di ascoltare le loro voci da sotto che gridano aiuto. Tende allora un orecchio, ma sente solo gli echi delle sirene. Le voci imploranti non ci sono e ci rimane male. Soddisfatto però di averli eliminati, non indugia oltre e si allontana ritornando dagli altri gettando via la sigaretta appena fumata.

“Dobbiamo andare adesso” fa Mr.P rinfoderando la sua pistola, “Che fine ha fatto il Nonno?”.

“C’era la spazzatura da mettere fuori” dice quest’ultimo sbucando alle sue spalle.

È sporco di terreno e sorride.

“Tutto a posto?” chiede Mr.P inarcando le ciglia.

Lui risponde di sì con la testa.

Il Tetto lo guarda incuriosito, “E quei due?”.

Il Nonno alza le spalle e si pulisce dal terreno continuando a sorridere. La ferita al braccio è ancora viva e gli procura una smorfia che fa sorridere la ragazzina.

“Andiamo” le dice e la prende per mano.

 

 

 

Quando le prime zolle umide di terreno gli cadono sulla faccia, ciò che pensa è che qualche animale gliela stia leccando. È un cane, probabilmente, come quello che aveva da piccolo e viveva con i suoi genitori. Non lo aveva mai sopportato, perché ricorda bene tutte le volte che gli saltava addosso facendolo cadere con la schiena a terra.

Lo sgridava, lo rimproverava come gli avevano insegnato, ma la bestiaccia tutte le volte si metteva sopra e gli leccava la faccia con voracità. Suo padre diceva che era il suo modo per fare festa quando lo vedeva, eppure a lui non importava delle sue feste, né tanto meno della sua schifosa linguaccia che gli sbavava tutto il viso.

Ricorda ancora con soddisfazione quando lo ha avvelenato l’estate in cui lo avevano lasciato solo con sua nonna e la bestiaccia. Una bella estate finita con le lacrime di quella stupida della madre che lo aveva pianto per due giorni.

È quel fastidioso ricordo a destarlo progressivamente, perché gli mette sempre rabbia e la rabbia non lo fa dormire. Stava dormendo? Cerca di muoversi, scrollarsi di dosso la sensazione sgradevole della lingua del suo odiato cane come in un sogno senza forze e si rende conto di non esserne capace.

Non è il suo cane. È qualcosa di più pesante.

La testa gli duole e vuole toccarsela, vedere cosa provochi quella sensazione, ma le braccia sono ancora più pesanti delle palpebre e non rispondono alla sua volontà. Sente il respiro soffocarlo, un battito ritmico nelle orecchie tamburellare con forza, e lentamente e con fatica, riesce ad aprire gli occhi.

La prima cosa che realizza è la puzza. Non è proprio quella di una fogna, ma la similitudine che la sua testa riesce a trovare in quel momento è quella. Viene da sotto di lui. Da sotto arriva un tanfo che rende i sensi più vivi e acuti.

“Cazzo” sibila e si rende subito conto di essere immobilizzato e al buio. Cerca di muoversi e sente tutto il peso del terreno che lo schiaccia come un verme al fondo duro dove si trova. Ogni piccola oscillazione del corpo gli fa cadere ai lati della faccia altro terreno umido e soffice che gli riempie parzialmente la bocca facendolo boccheggiare.

Ricorda tutto.

Era nella sala, stavano officiando il rito quando i sei bastardi erano sbucati dal nulla e si erano messi a sparare. Li aveva attesi, sapeva che sarebbero venuti, ma lo scontro armato era stato fatale e una volta catturati…

Ferma i suoi ricordi quando intuisce di stare rischiando la morte. La parte del fondo duro su cui è disteso a faccia in giù è costellata da aperture quadrangolari da cui proviene il tanfo che lo ha svegliato e su una di queste ha trovato la sacca d’aria che lo sta tenendo in vita. Per ora.

“Devo uscire prima che sia tardi” mormora per sentire la sua voce.

La mente, terribilmente allerta per l’adrenalina che comincia a pompare sangue in tutto il corpo, gli suggerisce un’azione rapida prima dell’irreversibile conseguenza. L’unica speranza è inspirare profondamente più aria possibile e puntellarsi con tutte le forze sperando che il bastardo che lo ha gettato nella fossa non stia mirando il suo operato.

“Ora o mai più” borbotta prima che altro fango gli riempia la bocca. È il volto del Nonno che ha di fronte in quel momento il Pipitone, che facendo leva su tutta la propria volontà di vivere e la rabbia che si ritrova chiude gli occhi e comincia a spingere. Il terreno è morbido, sembra cedere con facilità sulla schiena, ma quando il respiro gli viene a mancare, il peso sulle gambe diventa insopportabile e si sente cadere.

Portandosi le braccia ai lati della testa cerca di crearsi uno spazio per respirare, ma il terreno entra di nuovo nella bocca e soffoca. Ha il tempo di respirare una volta ancora prima di lanciarsi in un ultimo e cieco tentativo quando, ormai allo stremo, sente il terreno cedere definitivamente tra le mani e il caldo della notte carezzargli le dita.

Issandosi a fatica, vomita il terreno che ha in gola non appena la testa è fuori, cominciando a boccheggiare con fatica e a pieni polmoni. Quando riesce a stabilizzarsi, recuperando le ultime forze, si adagia poco per volta fuori della buca uscendone completamente.

“Figlio di puttana” sussurra esausto e con un ghigno di trionfo, “Sono vivo” e comincia a ridere come un folle.

Le fiamme della casa a pochi metri lo riscaldano per un po’, ma subito capisce che se non si fosse mosso quel fuoco avrebbe finito il lavoro della carogna che lo aveva seppellito vivo. Alzandosi con un ultimo sforzo, il Pipitone si allontana tra gli alberi circostanti lasciandosi dietro le sirene della polizia e quelle dei pompieri.

 

 

 

Il mattino seguente, quando l’ispettore Franchi sta per prendere servizio nel suo ufficio, il Pipitone si sveglia in un casolare a pochi metri dalla casa incendiata dove ha trovato riparo per la notte. È ancora scosso per quello che gli è successo, ma l’esaltazione di essere riuscito a sfuggire dalla bara di terreno è ancora più forte.

Il ricordo della ragazza che si trovava con lui lo sfiora appena.

Era la preferita del Capo, solo una delle tante, e che fosse crepata in quella buca non gli importava affatto, anzi, era forse un bene per lui e per l’Organizzazione. Morto il Capo, restava solo lui a gestirla e voleva farlo.

Non aveva mai gradito i servigi dei sei bastardi che lo avevano quasi ammazzato, né il gioco che il Capo aveva cominciato con il figlio, l’ex sbirro, uno di loro. Sedendosi a una finestra, il Pipitone riflette su come si fossero complicate le cose per la mancanza di razionalità del vecchio bastardo che lo aveva comandato fino al giorno prima.

“Hai fatto la fine che meritavi” sussurra al sole che vede sorgere, “Se non ti ammazzavano loro, lo avrei fatto io”.

Il Capo pensava che bastassero le dodici statuette e quel ridicolo sacrificio umano per donargli l’immortalità, non essendosi mai preoccupato di studiare la leggenda. Questo lo avrebbe di certo annientato, perché finita la messa in scena, sarebbe crepato con un bel buco in fronte. Sorride il Pipitone a quel pensiero e scuote la testa per il mancato divertimento. Ora c’era da pensare come prima cosa ai soldi.

Ce ne erano un bel po’ sparsi in tutto il mondo, ma quelli puliti erano al Centro Commerciale Emiliano. Nessuno li avrebbe toccati, nemmeno la polizia. Il Pipitone deve ammettere che per quanto rimbambitosi per la storia dell’immortalità, il Capo era uno che si faceva rispettare. Quei soldi gli avrebbero permesso di tenere salda tutta l’Organizzazione e soprattutto gli avrebbe dato modo di vendicarsi delle sei carogne.

“Oh, certo che la pagherete” ringhia tra i denti.

Nessuno conosceva i meccanismi di sicurezza del cavò sotto il Centro Commerciale. Solo lui, l’indiana dagli occhi azzurri e naturalmente il Capo in persona. Morti loro, nessuno poteva prelevarli anche se ci avessero provato.

Di sicuro poi la notizia della disfatta sulla Collina de Pensieri avrebbe girato il mondo e tutti quelli che avevano temuto l’Organizzazione e il suo reggente in particolare si sarebbero sentiti liberi. Doveva agire in fretta, dunque, prima che il suo ascendente sui vari pezzi dell’ingranaggio si fosse perso. Doveva cercare di consolidare il potere, magari a un livello più basso, con poche e fidate persone, e stanare i sei bastardi.

“Subirete la stessa sorte” mormora, “Ma non sarete così fortunati da poter scavare per uscire”.

Portandosi alla porta del casolare, il Pipitone fissa la collina dove prima si erigeva la casa. C’è ancora fumo, una nube acre gli arriva fin sotto il naso a ricordare ciò che è successo la notte prima e un nuovo moto di rabbia lo scuote.

“Figli di puttana”.

Intorno a lui ci sono solo attrezzi per lavorare i campi, nulla da mangiare e neanche un po’ d’acqua per pulirsi.

Il suo primo istinto era stato prendere qualsiasi cosa e andare a cercarli, ammazzarli uno per uno e vederli implorare.

“No. Devo agire con razionalità”.

Si sente sporco e arrabbiato per come sono andate le cose, ma avrà la sua vendetta, lo giura a se stesso. Si vendicherà di quegli uomini e forse sa anche come fare. Un sorriso malvagio gli taglia il viso quando esce dal casolare e si avvia a una delle case vicino. Inventerà una scusa, farà un paio di telefonate e metterà a tacere eventuali sospetti come prima cosa. Lui sa come fare e quando sarà pronto per agire si godrà lo spettacolo dalla poltrona più comoda.

Nella villa sulla collina, la notte prima, aveva fatto una scelta e adesso la sentiva più vicina.

“Aurora” sussurra e sorride richiamando l’attenzione di un anziano contadino che si appresta a uscire per i campi.

 

Raffaele Scotti

 

4 Commenti

  1. Svelato il mistero dunque su chi abbia inscenato tutta la trappola!

    • …:)…Domanda: un lettore/amico/collega di lavoro/etc… ha criticato la scena della sepoltura definendola inverosimile. L’idea, manco a dirlo, mi è venuta da Kill Bill dove, se ricorderai/hai visto il film, la protagonista esce da una bara sotterrata a suon di pugni. Ora, non per menarmela, ma se uno ti sotterra in una fossa biologica poco profonda dandoti la possibilità di “respirare”, non hai più possibilità di “salvarti” rispetto ad un altro inchiodato in una barra e sotto cumoli di terra!?!…:)

  2. Ahahaha se uno vuole criticare qualcosa, un modo lo trova sempre! Secondo me va benissimo, anzi, il fatto che il terreno gli entri nella bocca e si senta soffocare è molto realistico, ho provato infatti un po’ di disgusto a leggere quella parte.

    • Vedi che tra colleghi ci si capisce?…:D…


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