Caro Fabrizio, ti racconto di un ritorno…
Ho sempre avuto un grande sogno: raccontare la storia dei miei nonni.
Purtroppo entrambi sono venuti a mancare prima che potessi cominciare l’opera.
Con il cuore ho raccolto le poche testimonianze in mio possesso e ho cercato con dedizione di ricostruire un grande Amore.
“Dolce Straniera, ti chiamerò così, anche se fui io lo straniero in quella terra meravigliosa.
Ogni giorno ti penso e questo pensiero mi tiene compagnia.
Non conosco il tuo nome, non so nulla di te, eppure tu mi rapisti il cuore e la mente come nessun’altra.
Sono in trincea e mi nascondo dal nemico;
fra i boati terrificanti delle bombe penso al nostro antico incontro.
Se fossi il tuo innamorato ti scriverei delle lunghe lettere e apprenderesti dalle mie memorie il mio infinito percorso.
Per troppi mesi ho tenuto segreta al mio cuore quest’emozione, ma ora provo a scriverla, immaginando un giorno di rincontrarti”. Tuo Vittorio. Mar Rosso, 6 giugno 1939.
“Raffaella muoviti dobbiamo andare in Chiesa, inizia la processione!” gridava Carmela.
Raffaella e Carmela erano due sorelle.
Le univa però solo il tondeggiante profilo del naso.
Raffella era alta dalle rotondità burrose, occhi verdi e capelli castani, un neo sul mento e delle gambe slanciate.
Carmela invece era magrissima e aveva gli occhi nocciola.
A Raffaella piaceva chiacchierare, perdere tempo, ascoltare i brusì della gente, correre per le strade e andare al mare.
Carmela preferiva stare in casa a studiare e leggere. La sua aspirazione era sposarsi e sistemarsi.
“Raffaella, vuoi sbrigarti?
E levati quel rosso pomodoro dalle labbra, non ti sta bene!” insisteva Carmela.
“Si arrivo…”
Raffaella non stava ascoltando, con lo sguardo percorreva un’altra direzione.
In fondo alla via del Santissimo Salvatore, tra le case padronali ed il mercato c’era un ragazzo, che poteva avere all’incirca vent’anni, con una camicia bianca e un paio di pantaloni neri e larghi, stretti in vita da una cinta.
Era il 10 luglio del 1938.
“Ave Maria. Ave, Maria, grátia plena, Dóminus tecum. Benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui, Iesus. Sancta María, Mater Dei, ora pro nobis peccatóribus, nunc et in hora mortis nostrae.”
Raffaella e Carmela vivevano in campagna dove i loro genitori possedevano diversi appezzamenti di terra e coltivavano principalmente ortaggi.
Abitavano in una casa composta da diverse stanze, famosa per l’enorme terrazza esterna da cui un oratore poteva esibirsi in pubblico.
All’esterno c’era un porticato dove tutte le sere estive si riuniva la famiglia a cenare.
Chiunque a Barunissi conosceva il Signore Gaetano e le sue figlie.
Vittorio, si chiamava così perché era nato nel ’18, era veneto ed era a Salerno con le truppe militari di Mussolini venuto in visita durante il contesto trionfalistico che seguiva la recente proclamazione dell’Impero, avvenuta il 9 maggio del 1936.
Da due giorni era in congedo e con i compagni aveva deciso di visitare il lungomare Trieste, ma sbagliando strada si ritrovarono a Barunissi.
Stavano camminando per le vie del centro quando s’imbatterono nell’ultimo giorno del corteo dedicato alla Madonna delle Grazie, il corteo dei Tammorari.
Una fiumana di persone, caldo, grida, risate, preghiere sballottolarono Vittorio agli angoli del paese,
qui vide per la prima volta mia nonna.
Raffaella era giovane, una ragazzina, ma a quell’età era già in età da marito, a tredici anni le signorine si fidanzavano per poi contrarre le nozze.
Lei invece voleva arruolarsi nella croce rossa e alle proposte dei corteggiatori proprio non ci pensava, sperava che un giorno qualcosa le avrebbe impedito di seguire la sorte comune a tutte le sue coetanee.
Prima dell’8 settembre 1943 le sconfitte militari italiane in Africa, in Unione Sovietica e in Sicilia avevano prodotto un elevato numero di prigionieri sparpagliato in vari campi e con condizioni di vita disumane.
Tra l’8 aprile e il 18 novembre del 1941 con l’offensiva britannica in Nord africa e la conquista di Massaua in Eritrea le forze inglesi catturarono quanto restava della flotta italiana nel Mar Rosso.
A quei soldati catturati dagli Inglesi in Africa settentrionale e in Etiopia, circa 400.000, spettò il giro del mondo, tra sofferenza, paura e malattia.
Tra questi c’era Vittorio, mio nonno.
A quindici anni mia nonna Raffaella si ritrovò in uno dei dieci villaggi fondati nel 1939 per volontà di Italo Balbo per Arabi, Berberi ed Italiani in Libia, insieme ai primi ventimila coloni, spinti dalla propaganda fascista che prometteva terre fertili e prospettive di ricchezza.
Tutti questi villaggi avevano la loro moschea e la loro Chiesa, scuola, centro sociale (con ginnasio e cinema) ed un piccolo ospedale.
La Libia Italiana era una società povera, sconvolta da lotte interne, ma orgogliosa della propria indipendenza, per nulla intaccata dal dominio turco.
Nel 1940 gli italiani in Libia avevano raggiunto i 120mila, concentrati soprattutto nella zona tra Bengasi e Tripoli. Tra di loro veneti, campani, calabresi, siciliani e contadini della Basilicata.
La famiglia di mia nonna aveva rilevato una piccola pasticceria a Tripoli e tutti i giorni le figlie preparavano piatti tipici della tradizione campana rifornendo i bar della zona.
Correva l’anno 1947.
Mio nonno Vittorio liberato dalla lunga prigionia aveva intrapreso la carriera di ingegneria idraulica assicurando i pozzi di petrolio presenti sul territorio libico.
Il suo cantiere era il deserto e l’unico ristoro il mare.
Così ogni giovedì mattina al rientro camminava sulla spiaggia di Tripoli.
Qui in uno scenario pacifico e suggestivo dove il sole giocava tra le foglie delle palme e la sabbia con il vento, depositandosi ovunque,
rivide mia nonna Raffaella, ancora una volta come un estraneo.
Qui tra la melodia dell’aria che si diffondeva senza limiti e le temperature calde e secche, che via via si facevano più dolci avvolgendo tutto in un fresco venticello, le corse incontro come un innamorato.
Qui dove la cultura araba ed europea s’incontravano mescolandosi nel clima mediterraneo, lui le chiese di sposarlo.
Bellissima storia, grazie!