Gehenna (Cap. 8)

CAPITOLO 8

Bussavano alla porta del camerino, Viktor sollevava lo sguardo dagli spartiti, senza attendere risposta la porta si apriva e sull’uscio compariva un uomo in livrea, era alto, sottile, sfiorava lo stipite, l’uomo si inchinava leggermente e con un gesto indicava a Viktor la direzione del palcoscenico, Viktor obiettava che non era ancora il momento, c’era un’ora abbondante prima dell’inizio del concerto, ma l’uomo appariva irremovibile, irrigidito nell’inchino dava l’idea di un manichino, e non aveva smesso una smorfia che Viktor aveva scambiato per un sorriso.

“Non faccia attendere il pubblico, e soprattutto non faccia capricci.”

“Non ho mai fatto capricci”, rispondeva Viktor irritato.

“Già, è quello che dicono tutti; dunque, mi segua.”

Quell’uomo non piaceva a Viktor, non gli piaceva la livrea e nemmeno quel suo sorriso di cartapesta, non gli piaceva il tono con cui gli si stava rivolgendo e di questo, pensava, avrebbe protestato con la direzione del teatro. L’atteggiamento dell’uomo in livrea aveva irritato Viktor, le sue parole gli avevano messo addosso un’ansia inconsueta.

“Non posso.”

“E diceva di non aver mai fatto capricci.”

“No, proprio non posso, non trovo gli spartiti.”

“Si giri, sono sul tavolino.”

Viktor constatava che davvero gli spartiti erano davanti a lui, non si erano mai spostati e questo lo confortava, ma durava poco; i minuscoli segni impressi in modo ordinato sui pentagrammi avevano preso a danzare sotto i suoi occhi, si spostavano, scavalcavano linee e spazi sovrapponendosi in modo inintelligibile. Sotto gli occhi di Viktor si andava svolgendo una lotta furibonda tra figure pause chiavi legature e segni dinamici, un guazzabuglio selvaggio che obbligava i suoi occhi a saltare da un punto all’altro dello spartito, a vedere lentamente dissolversi il senso che la disposizione ordinata di quei simboli doveva significare; intere frasi si disfacevano, si frantumavano incisi e ingarbugliavano ritornelli. Viktor si sentiva sempre più agitato, temeva che la dissoluzione dei segni che si andava operando sotto i suoi occhi non fosse che il riflesso della stessa che sentiva agitarsi dentro, nella mente e nella memoria.

“Ebbene?”

“Non posso, non posso.”

“Suvvia, non faccia storie.”

“Perché pensa che faccia storie, non vede quello che sta succedendo?”

Viktor indicava all’uomo in livrea il disfacimento sotto i suoi occhi.

“Mi sembra che sia tutto in ordine. Allora, andiamo, il pubblico comincia a scalpitare.”

Appena varcata la soglia del camerino, un brusio  intenso e uniforme, che proveniva dalla sala, si diffondeva nel corridoio che stavano percorrendo, l’uomo in livrea precedeva Viktor con passo lento e ponderato, Viktor lo seguiva come un’ombra.

Viktor avrebbe giurato che il tragitto tra il camerino e il palcoscenico fosse più breve, o così credeva di ricordare dal giorno prima, quando il sovrintendente del teatro, con un sorriso gioviale stampato sulle labbra e un pizzetto brizzolato che gli ornava il mento, lo aveva condotto per gli ambienti del teatro e gli aveva mostrato il camerino; da lì si erano poi spostati verso la sala, e una volta sul palcoscenico, Viktor era rimasto completamente solo a prendere dimestichezza col pianoforte schierato al centro del palcoscenico. Il timbro del grancoda era parso piuttosto metallico, l’accordatura imprecisa, la corsa dei tasti alquanto corta. Tranne questi e altri piccoli difetti, la prova era andata bene, l’acustica della sala gli era sembrata eccellente. Adesso pareva che il corridoio fosse interminabile e che l’uomo in livrea che lo precedeva stesse vagando a vuoto in una sorta di dedalo intricato, per giunta illuminato in modo precario. L’unica costante, in quel peregrinare, era il brusio, sempre più intenso, che giungeva dalla sala, pareva che bastasse aprire una porta, una delle tante disposte lungo le pareti, per ritrovarsi di colpo in sala.

“Dove mi sta portando?”

“Mi segua, non faccia storie, e si fidi.”

“Dovremmo essere già arrivati, credo che dovremmo andare a sinistra, è da quella parte che proviene il brusio, perché continuiamo ad andare avanti?”

“Vuole conoscere il teatro meglio di me? Sappiamo entrambi perché vorrebbe andare a sinistra anziché a destra, lo sanno tutti, anche i muri, cosa significa per lei la destra. E poi le ripeto: vuol conoscere il teatro meglio di me?”

“Non intendevo dire questo, è che…”

“E dunque? Del resto, fra poco la lascerò e sarà libero di andare da che parte vuole, stia tranquillo, ma credo che rimpiangerà di aver voluto fare di testa sua, e le assicuro che quelli che incontrerà saranno molto meno clementi di me. Tutti uguali gli artisti”, aggiungeva tra i denti l’uomo in livrea.    

In fondo a un corridoio, dopo l’ennesima svolta, si intravedeva una luce, pareva che l’uomo in livrea si stesse dirigendo da quella parte, invece svoltava ancora una volta a sinistra, e questa volta Viktor protestava.

“Insomma, credo che sia giunta l’ora di fermarci, non ho intenzione di seguirla oltre.”

“Faccia come crede, ma si ricordi che l’avevo avvertita.”

L’uomo in livrea si dissolveva oltre una pesante tenda, dietro alla quale a Viktor parve di intravedere un ampio salone illuminato; era tentato di sollevare la tenda, di dare un’occhiata all’interno e magari entrare, ma si ricordò che era lì per il concerto e il pubblico ormai rumoreggiava. E poi c’era una luce in fondo al corridoio, finalmente.

Viktor pensava che sarebbe stato opportuno, una volta sul palcoscenico, scusarsi col pubblico per il ritardo non causato dalla sua volontà, poi ricordò che, in fondo, era in anticipo sull’orario di sala, perciò le scuse sarebbero state superflue; gli veniva da pensare che il pubblico non aveva motivo di rumoreggiare così tanto, se le cose stavano come stavano. Piuttosto avrebbe dovuto chiedere a qualcuno del teatro che gli procurasse immediatamente nuovi spartiti dei quali non poteva proprio fare a meno.

Alla fine del corridoio Viktor si trovava di colpo avvolto da un silenzio irreale, il vocio che lo aveva accompagnato per tutto il dedalo si era dissolto; usciva all’aperto e si ritrovava a percorrere una strada che non conosceva in una città mai vista prima, tuttavia sapeva che era lì per il concerto, doveva solo cercare il teatro, ma da solo non ci sarebbe mai arrivato.

“Mi perdoni”, diceva rivolto a un passante, che lo squadrava dalla testa ai piedi e rideva.

“Il carnevale è terminato da un pezzo, dove va conciato in quel modo?”

“Sto cercando il teatro, devo assolutamente essere lì, mi stanno aspettando, può aiutarmi?”

“In questa città non c’è mai stato un teatro, l’hanno informata male, e le ripeto, il carnevale è terminato da un pezzo.”

Il passante piantava Viktor e si allontanava ridacchiando. Viktor pensava che quel tale non sapesse quel che diceva, probabilmente non era pratico della città; avrebbe chiesto informazioni a quell’uomo appoggiato al lampione, dall’aspetto doveva essere uno del posto.

“Mi perdoni, signore, non vorrei disturbarla, ma ho necessità di raggiungere al più presto il teatro e non so proprio come arrivarci, sto cercando aiuto.”

“Non è mia abitudine parlare a degli sconosciuti, se poi sono conciati come lei adesso, beh, non li degno nemmeno di uno sguardo.”

“Cosa c’è che non va ne mio abbigliamento?”

“E’ ridicolo e fuori moda.”

“Ma sono qui solo per il concerto, di solito vesto in modo più sobrio.”

“Vuole prendermi in giro? Guardi che io conosco la vita, e di tipi come lei ne ho visti a bizzeffe; mi faccia la cortesia di allontanarsi, altrimenti mi costringe a chiamare aiuto.”

Al diavolo, pensava indispettito Viktor, deve essere una città di maleducati. Forse avrebbe dovuto mostrarsi più disinvolto, meno ansioso, solo così non avrebbe suscitato sospetti nei passanti. Viktor proseguiva lungo quella strada, la stessa che aveva intrapreso da quando era uscito all’aperto, prima o poi lo avrebbe incontrato un passante meno rude. Da lontano scorgeva un giornalaio, in fondo alla strada, Viktor era sicuro che da lui avrebbe senz’altro ricevuto l’informazione che stava cercando. Benché credesse di avvicinarsi passo dopo passo all’edicola di giornali, pareva a Viktor che, nonostante gli sforzi, fosse destinato a non raggiungerla mai, anche se la volontà gli suggeriva il contrario. Gli pareva di scorgere con una certa nitidezza addirittura i caratteri delle testate in vetrina, e tuttavia avvertiva un flusso potente che lo spingeva indietro, come se stesse lottando con una fiumana di gente che avanzasse compatta nella direzione opposta alla sua. Si sentiva impedito nel procedere, Viktor, e alla fine, esausto, si appoggiava a un parapetto oltre il quale era possibile scorgere in basso una costruzione imponente che somigliava a un teatro.

Devo andare da quella parte, pensava Viktor, ci sono quasi.

Non c’erano gradini, non una passerella che potesse condurlo di sotto, l’unica soluzione sarebbe stata tornare indietro, cercare un accesso e raggiungere il teatro; ma quando si volgeva dalla parte dalla quale era arrivato, constatava che la strada non era più la stessa, allora fermava un giovane uomo, un adolescente che procedeva spedito.

“Mi aiuti, la prego, devo assolutamente raggiungere il teatro di sotto, sarebbe così gentile da indicarmi dei gradini, un accesso, qualcosa che mi permetta di arrivarci?”

“Per questa strada non ci arriverà mai, e poi ormai è tardi, il concerto sarà già iniziato.”
“Non possono cominciare senza di me, è ridicolo.”
“Ma davvero? E chi crede di essere?”
“Sono il pianista, è me che stanno aspettando.”
“Ma lei crede di essere davvero così indispensabile?”
“Il punto è un altro: devo raggiungere il teatro perché mi stanno aspettando, sono in città per questo, non ha senso iniziare il concerto senza il pianista, non le pare?”
“Le do un consiglio: non ci pensi più e se ne torni da dove è arrivato, in questa città i pianisti non sono ben visti, tutti quelli che ci sono venuti non hanno fatto che suscitare discordia e contestazione, sa cosa intendo: fazioni, sostenitori, interessi, tutta roba che qui da noi non vogliamo. E voglio darle un altro consiglio: non dica in giro di essere un pianista, rischierebbe di essere linciato.”

Era inverosimile che in questa città nessuno lo conoscesse, rimuginava Viktor, eppure la città era ricoperta di manifesti, i giornali parlavano del suo concerto, aveva riportato successi ovunque, sollevato clamori, come poteva essere possibile? E poi nessuno che fosse disposto ad aiutarlo? Forse doveva trattarsi davvero dell’abbigliamento, doveva esserci qualcosa di veramente sbagliato, ma non aveva altro da mettere, non qui almeno. E perché mai in città i pianisti erano così detestati? In fondo, non credeva di meritare un tale trattamento, Viktor, non aveva mai fatto niente di insolito se non suonare, e dall’accoglienza che aveva ricevuto in altre città non poteva che dedurre che il pubblico lo stimava, lo apprezzava, e dunque perché non in questa città?

Quando Viktor si sporgeva per la seconda volta oltre il parapetto lo scenario era mutato, non più la costruzione imponente che pareva un teatro ma solo gente, una folla, una moltitudine silenziosa che pareva in attesa di qualcosa, un suo cenno, un sorriso, qualche parola di circostanza, ma Viktor restava muto, disorientato, incapace di dare una risposta alle molteplici e complesse aspettative che sentiva giungere dal basso. Qualcuno urlò: “Dì qualcosa”; “Spiegaci!” urlò un altro, e poi “Scagionati se puoi”; “Siamo qui per te, non è giusto che te ne stia in silenzio”. L’ultima voce che Viktor riusciva a distinguere era di donna, lo chiamava per nome.

“Viktor, Viktor, mi senti? Sono qui, ti ho portato un po’ di tè, dovresti berlo, prima che si raffreddi.”

Viktor riconobbe quella voce, si scosse, sollevò il capo e vide Olga che gli stava davanti con un recipiente di latta tra le mani, quello dove di solito prendeva il tè. Olga fissò Viktor e comprese: aveva appena fatto ritorno da uno dei suoi invisibili pellegrinaggi nella memoria e per lei non era più una novità, ormai.

Olga non aveva mai osato chiedere a Viktor da che parte si trovasse in certi momenti, del resto sarebbe stato inutile, quando aveva provato a stanare Viktor dalla fortezza del mutismo ne era stata invariabilmente respinta, ed era stata la cosa più dura da accettare, nei suoi mesi di convivenza con lui, l’idea di non possedere alcuna chiave di accesso al mondo di Viktor la frustava. Quante volte Olga si era domandata cosa non andasse in Viktor, perché nei suoi momenti di assenza, se fino a qualche istante prima il suo viso era attraversato dall’ombra di un sorriso, bastava chiamarlo per nome ed ecco che qualcosa, o qualcuno, si affrettava a cancellare dal suo volto i segni di un’intesa che doveva restare non detta, la prova indiretta di una volontà, di una complessità di intenzioni che faticavano a mutarsi in parole dette e non solo pensate, ma perché? Aveva forse paura, Viktor?, e di cosa, di chi?

Spesso Olga aveva creduto che nei suoi confronti Viktor mantenesse un atteggiamento di chiusura e indifferenza, che non la considerasse perché pensava che lei non sarebbe stata in grado di capirlo, di comprendere i suoi discorsi, i suoi pensieri; che il mondo di Viktor fosse diverso dal suo questo Olga lo aveva capito, da quando, poi, aveva scoperto quella copia di giornale con quella foto, le era diventato chiaro che Viktor non poteva essere capitato alla distilleria Kuntz per un capriccio, per caso, uno che aveva girato il mondo, che conosceva le lingue! Ma allora cosa, se da quella sera di dieci anni prima nessuno ne aveva più sentito parlare?

“Se non bevi il tè si raffredda. Sei tornato prima del solito stamattina, non ti ho sentito arrivare.”

Olga si accomodò su una sedia sgangherata, erano all’aperto, sul retro della tana, circondati al mare di erbacce che aveva invaso ogni angolo libero della distilleria; a quest’ora del pomeriggio il sole era ancora alto e disegnava ombre nitide.

“Quando mi sono svegliata ti ho trovato già disteso. Sai, la notte passata ho dormito male, comincio a sentire il caldo. Quando è giugno, intorno al mio villaggio sono già germogliate le betulle e il bosco si riempie di felci. Con le mie compagne andavamo spesso nel bosco, sedevamo all’ombra e restavamo in silenzio, non per molto però, c’era sempre qualcuna che attaccava a chiacchierare. Poi quando tornavamo a casa raccoglievamo fiori che mettevamo tra i capelli, facevamo finta di essere bellissime e ammirate dai ragazzi del villaggio. Non ti ho mai parlato delle miei compagne. Già! Non ti ho mai parlato di me e tu non me lo hai mai chiesto.”

Olga sapeva già che Viktor non le avrebbe risposto, ma aveva bisogno di parlare. Sapeva Olga che quella loro storia aveva il sapore di una commedia neppure tanto allegra, ma si accontentava di pensare a Viktor come ad un interlocutore interessato ma discreto, silenzioso, fingeva di credere che era per quel suo modo di essere garbato che lui non aveva ancora osato chiederle di lei, della sua vita di prima, era solo per quello, per non entrare nella sua vita con indelicatezza. Questo fingeva di credere, Olga, per questo non dava credito al silenzio di Viktor. Non era, infatti, un silenzio astioso e indifferente, non è che non le rivolgesse la parola perché non la considerava e non gli importava nulla di lei, era solo per timidezza, era per quello.

“Quando era estate passavamo molto tempo all’aperto. Sai, da noi l’inverno non finisce mai, è lungo e noioso. Tutta quella neve, e il freddo. Quando arriva la primavera festeggiamo. Il primo giorno di primavera accendiamo degli enormi falò, uno per ogni casa, sul davanti, li facciamo con la legna morta che raccogliamo durante l’inverno. Di solito lo fanno i maschi. Si raccoglie la legna e si nasconde in un posto segreto, poi facciamo a chi accende il falò più alto, tutti i bambini e i ragazzi del villaggio si danno da fare a raccogliere quanta più legna possibile per avere il falò più grande e fare invidia ai vicini; poi quando è notte si va tutti nella piazza del villaggio e si canta e si balla, si balla tutta la notte per festeggiare la primavera, si dimenticano le malinconie dell’inverno, si dimentica il freddo e la neve, gli alberi germogliano e si riempiono di foglie nuove. C’è sempre da mangiare e da bere, si beve molto…Io no, a me non piace la vodka fatta in casa, sa di petrolio, ma non bevo nemmeno quella dello spaccio; però no, non mi piace bere. Al villaggio dicono che la festa della primavera è una cosa molto antica anche se nessuno mi ha mai saputo spiegare quanto. Poi dicono che tanto tempo fa, forse secoli, si festeggiava uccidendo una vergine e un ragazzino ma io non ci credo, è una cosa da barbari, non sembra anche a te? Ma loro dicono così, che si usava sacrificare un bambino e una bambina per festeggiare l’arrivo della primavera, per ringraziare la natura della nuova stagione e per fare in modo che la terra producesse nuovi frutti. Sì, perché dicevano che poi il sangue della vergine e del bambino veniva sparso nella terra, nella terra ancora un po’ gelata e che dopo questo la terra cominciava a sciogliersi, il suolo si scaldava e così dalla terra venivano fuori nuove piante e nuovi frutti. Mah, mi sembrano solo storie, fantasie, che ne pensi?”

Olga credette di scorgere una reazione nelle sopracciglia inarcate di Viktor.

“Ti stavo raccontando delle mie compagne. Eravamo unite, ci volevamo bene, anche se non tutte alla stessa maniera. Una volta, per la festa della primavera, io e le mie compagne decidemmo che avremmo fatto un falò tutto nostro, solo noi cinque. Eravamo cinque: io, Sveta, Irina, Oksana e Anja, la mia preferita, e allora ci siamo date da fare a raccogliere legna per tutto l’inverno e l’abbiamo nascosta nella cantina di Anja senza farlo sapere ai suoi, soprattutto a suo fratello Boris, che altrimenti non solo ce l’avrebbe rubata ma ci avrebbe anche prese in giro. Lui era così, cosa vuoi, è solo un ragazzino, appena tredici anni e a quell’età i maschi sono stupidi. Insomma abbiamo raccolto più legna che potemmo e l’abbiamo ammassata in cantina, e quando arrivò la festa eravamo pronte per accendere il nostro falò tutto di ragazze. Ne avevamo parlato a lungo le sere d’inverno, quando ci riunivamo a casa mia davanti alla stufa, e nella nostra fantasia doveva essere il più bel falò del villaggio, avrebbe fatto invidia a tutti, a cominciare dai maschi. Avevamo deciso di festeggiare tra noi, a modo nostro l’arrivo della primavera… un bel girotondo intorno al falò cantando e ballando ma senza cose strane, senza sacrifici di vergini e senza vodka che sapeva di petrolio.

“Qualcuno però si era accorto dei nostri movimenti, aveva notato che ci intrufolavamo nella cantina di Anja, o ci aveva spiate nel bosco, e credo di sapere chi è stato, non può essere stato che Modest, l’amico del cuore di Boris, che ha casa proprio di fronte a quella di Anja. Sì, deve essere stato lui.

“Quando è arrivata la festa non abbiamo più trovato la legna al suo posto, ce l’avevano rubata, e quando l’abbiamo scoperto era troppo tardi, non avremmo avuto il nostro falò tutto di ragazze, fu una grande delusione. Avevo dei sospetti, è ovvio, ma non avevamo prove, così ci siamo rassegnate. Il falò di Boris però era molto grande e bruciò tutta la notte. Quando li abbiamo incontrati in piazza, lui e il suo amichetto Modest, ci guardavano e ridacchiavano. Che cretini! Verso l’alba Boris e Modest erano brilli. Sì, era permesso bere anche ai ragazzini, ma solo per quella notte, quando li abbiamo incrociati ci sono venuti dietro e ci hanno preso in giro, ‘avete fatto proprio un bel falò,’ dicevano venendoci dietro, ‘hai visto, Modest,’ diceva Boris, ‘hai visto quanta legna?’, e Modest gli dava corda, ‘sì, sì, hai ragione, hanno fatto un bel lavoro, peccato che non sono riuscito a vederlo il falò delle ragazze,’ diceva, e così è andata avanti a lungo, fino a quando indispettite non ce ne siamo tornare a casa.”

Olga raccolse dalle mani di Viktor la tazza di latta e si alzò per portarla in casa, quando tornò Viktor aveva sollevato il capo, sembrava sorridesse, e la fissò.

“Cosa c’è?”

Viktor naturalmente non rispose, ma a Olga sembrò che stesse per dire qualcosa, perciò la ragazza si rimise a sedere e rimase in silenzio, sforzandosi di sorridere. Davanti a loro c’era un mare di erba spontanea, macchie di camomilla bastarda interrompevano la fitta distesa di avena selvatica, qua e là soffioni leggeri facevano capolino tra cespugli di ailanto, a loro volta assediati da larghe chiazze di ortica minore e forasacchi dei tetti. A ogni leggero alito quel mare infestante si increspava ondeggiando impercettibilmente ora a destra ora a sinistra, piegandosi e tremolando come percorso da fremiti sotterranei. La primavera inoltrata era, alla distilleria Kuntz, un tripudio di verde, un acre concerto di pollini e ronzii. Sul retro della tana la sagoma di Viktor era sovrastata da quella vegetazione superflua. A quell’ora del pomeriggio il sole si apprestava a dissolversi, oltre un orizzonte lontano, in accesi colori che si diluivano, si liquefacevano lungo il percorso, macchiando di rosa, rosso, indaco, viola e arancio un cielo azzurro e terso che di lì a poco si sarebbe fatto cupo.

Viktor fece ciò che non aveva mai fatto, allungò una mano, la porse a Olga, e con un cenno del capo le fece intendere che voleva che anche lei allungasse la sua, Olga guardò Viktor incredula e continuò a tenere i gomiti appoggiati alle ginocchia.

“Che c’è?”

Viktor fece di nuovo cenno col capo e la invitò ad allungare una mano. Olga porse una mano a Viktor, che la prese tra le sue e la tenne stretta. La presa non era energica, non era prepotente, Olga sentì che avrebbe potuto ritirare la mano senza sforzo, le parve, anzi, che la delicatezza della stretta avesse la leggerezza di una carezza, la titubanza del pudore, l’incertezza di un pensiero che si vergogna di manifestarsi. E come erano calde le mani di Viktor, e lisce. Il contatto della pelle sulla pelle risvegliò in Olga tenerezze sopite, dimenticate, sepolte sotto le macerie di ricordi recenti; solo le sue compagne avevano una pelle così liscia e tesa, e solo il ricordo di loro riusciva a svegliare in Olga le sensazioni che adesso le procurava il contatto con le mani di Viktor.

“Vuoi dirmi qualcosa?”

Viktor fissava Olga e sorrideva, anche i suoi occhi pareva ridessero, e a Olga non sfuggì l’istantaneo guizzo infantile che per un istante illuminò lo sguardo di Viktor.

“Una volta, a Firenze, mi hanno portato a S. Maria Novella. E’ in Italia, ero con i miei genitori.”

“Che cos’è S. Maria Novella?”

“E’ una chiesa. A Firenze ce ne sono tante, come qui. Tu non ci sei mai stata, vero?”

“Prima di adesso non mi ero mai mossa dal villaggio, so solo che l’Italia si trova da qualche parte sulla carta geografica.”

“Dovresti andarci a Firenze, una volta o l’altra, magari quando sarai più grande. Qualche notte prima avevo fatto uno strano sogno, ormai sono tantissimi anni ma lo ricordo ancora come se l’avessi sognato l’altra notte.”

“Quanti anni avevi?”

“Oh, ero un bambino, cinque, forse sei, non di più. O forse qualcuno in meno. Non ricordo con

esattezza, ma ero molto piccolo. C’è un chiostro accanto a S. Maria Novella. Per la verità ce n’è più di uno. C’era un chiostro e su un lato del chiostro un enorme stanzone, me lo ricordo tutto affrescato, ogni centimetro quadrato di parete era ricoperto di affreschi. Credo che si chiami il Capellone degli Spagnoli. E… ma sto divagando, ti stavo raccontando del sogno. Qualche notte prima, come ti dicevo, avevo fatto un sogno. Mi trovavo a letto nella mia stanza, in quel periodo vivevamo in Italia, a casa dei nonni materni. Sapessi! Una casa enorme, in collina, dalla casa si vedeva Firenze, la cupola del Duomo, il campanile, i tetti rossi. C’era un parco sconfinato che si stendeva lungo i fianchi della collina, anche la casa dei nonni aveva i tetti rossi e il sentiero che portava a casa era fiancheggiato da cipressi robusti e alti; a volte quei cipressi mi facevano paura, mi sembravano guardiani arrabbiati, sembrava che dovessero sradicarsi e mettersi in fila e dirigersi verso la casa dei nonni e assediarci.”

“Come continua il sogno?”

“Cosa? Ah, il sogno, hai ragione. Mi trovavo nella mia stanza e dormivo, e mentre dormivo sognavo, stavo sognando di sognare. Sognavo di uno strano personaggio, tutto vestito di rosso, un vestito aderente al corpo come una seconda pelle, e aveva un mantello anch’esso rosso che terminava con un cappuccio nero. Il personaggio era in una posizione impossibile, appollaiato sulla porta, come sospeso per aria, e mentre mi fissava e ridacchiava ingoiava qualcosa che prendeva da una ciotola che teneva tra le mani. Dai bordi della ciotola veniva fuori del fuoco. Mi fissava, sorrideva e ingoiava pezzi infuocati di qualcosa che non so. Allora mi svegliavo atterrito e sudato e mi accorgevo che era un sogno. Non l’ho mai dimenticato. Continuo a portarmelo dietro da anni senza riuscire a comprenderlo.”

“Cosa c’entra il sogno con quella chiesa, come si chiama?”

“S. Maria Novella. Il Cappellone degli Spagnoli è interamente affrescato, ci sono i discepoli, ci sono personaggi importanti della città, scene del vangelo. Non li ho mai letti i vangeli, me ne parlava mia nonna, era una donna molto pia. Sul lato destro della parete di fronte all’ingresso del Cappellone, in basso, sono rappresentati strani personaggi, hanno un aspetto umano all’apparenza, sembrano persone come le altre, invece hanno qualcosa di diverso, di grottesco, e sono dipinti con colori insoliti e hanno visi che li fanno assomigliare a degli animali. Non so come spiegarti, sembrano non umani, nonostante i corpi. Mi fecero un’enorme impressione, mi spaventarono quelle teste strane di animali.”

Viktor sorrise e strinse la mano di Olga con più vigore.

“Sai chi erano quei personaggi? Indovina, indovina se ti riesce. No? Te lo dico io: erano demòni. Diavoli. Erano quanto di meglio l’immaginazione umana potesse fare per rappresentarsi il male, la malvagità, la perdizione. A pensarci oggi, e ci ho pensato a lungo in questi anni, a pensarci mi verrebbe da sorridere, ma al bambino che ero allora fecero un effetto paralizzante. La nonna mi raccontò poi che in quella parte dell’affresco era rappresentata la discesa di Cristo agli inferi per dimostrare che la morte e il male erano stati vinti, vinti da Cristo, questo è quello che mi raccontò la nonna. Il personaggio del sogno mi fece lo stesso effetto paralizzante dei personaggi dipinti sulle pareti del Cappellone degli Spagnoli, nel chiostro di S Maria Novella; e gli somigliava anche, un po’.”

Viktor tacque a lungo, il capo chino e la mano di Olga sempre stretta nelle sue. A Olga sembrò che Viktor si stesse di nuovo allontanando, lo sguardo assente era quello dei momenti di oblio, le rughe della fronte denunciavano un intenso lavorio, e il tremolio delle mani parve pronunciarsi, chissà quando sarebbe tornato indietro.

A Olga faceva uno strano effetto sentirsi legata a Viktor e al tempo stesso esserne distante, separati entrambi da una reciproca ignoranza, ignoranza della lingua, non quella delle parole, ma quella delle intenzioni, dei pensieri, di quella lingua che scavalca le parole e si lascia afferrare attraverso gli sguardi, attraverso segnali impercettibili che comprende solo chi delle parole ha imparato a fare a meno, poiché quel che ha da dire può essere detto anche attraverso il silenzio, un silenzio attento, palpitante, un silenzio che è magia e intuizione, che è carezza e lingua; la lingua di Viktor Olga ancora non la comprendeva.

Se l’avesse conosciuta, Olga avrebbe potuto dire a Viktor che era contenta di vivere con lui, che si riteneva fortunata ad averlo incontrato, quella notte, quando per sfuggire al prepotente di turno non aveva trovato di meglio che scappare e nascondersi nella Città Vecchia; che considerava Viktor una specie di angelo, un angelo muto chissà come capitato sulla sua strada, che chissà quali strade aveva percorso per ritrovarsi quaggiù, in un mondo che non comprendeva e che lo aveva dimenticato. Per lui aveva rinunciato alle parole, lei che con le compagne trascorreva pomeriggi e serate a chiacchierare, e questo le dava un piacere paragonabile solo all’amore, anche se lei dell’amore aveva conosciuto solo scampoli di violenza, una specie di recita col finale già scritto dalle prime battute. Da quale paradiso sei piombato su questa terra, avrebbe voluto chiedergli Olga, e come è  stato che hai perso le ali? Nonostante le nostre vite distanti, abbiamo condiviso le apprensioni, oltre allo spazio, abbiamo finto senza cattiveria di conoscerci, e nonostante tutto sono contenta di vivere con te, avrebbe voluto dire Olga. Forse siamo destinati a continuare la nostra strada nella stessa direzione, chi lo sa, anche se io sono solo una ragazzina, che la strada ha di colpo imbruttita e invecchiata, ma non mi importa se a te non importa, avrebbe detto Olga a Viktor. Non sai niente dei miei mesi sulla strada, io non conosco niente dei tuoi anni in paradiso, e del mondo conoscevo soltanto il villaggio, fino a quel maledetto pomeriggio nel bosco di betulle. Io conosco il tuo nome per intero, tu ignori il mio, non me lo hai mai chiesto e io te l’ho tenuto nascosto, ma è arrivato il momento, avrebbe detto Olga, è arrivato il momento perché mi sento pronta, voglio raccontarti tutto di me , anche quello che avrei voluto non accadesse mai e che dimenticherei volentieri, darei i miei sedici anni per poter cancellare con uno straccio gli incroci della Città Nuova. Mi chiamo Olga, Olga, non Vanessa, avrebbe voluto urlare, ma così avrebbe solo spaventato Viktor.

Un’innaturale tensione nelle mani di Olga scosse Viktor, che si guardò intorno e oltre la fitta cortina di vegetazione che lo assediava, come se oltre quel verde cercasse un filo esile che legasse le sue fantasticherie alla realtà, come se dalla sua immaginazione fosse appena sfuggita un’immagine, un volto, una voce che voleva riafferrare a tutti i costi. Il ritorno di Viktor rincuorò Olga.

Viktor guardò Olga e sorrise, lei cercò di sfilare la mano da quelle di Viktor ma lui la trattenne ancora più forte.

“Queste mani, le vedi queste mani? Credi che queste mani legate facciano di noi due  esseri fortunati e non dei sopravvissuti? Oh, se potessimo dire di noi che non siamo dei naufraghi, dei fragili, insignificanti fuscelli che si tengono faticosamente a galla, perché è questo che siamo. Sai cosa ci fa andare a fondo? Il peso intollerabile di interrogativi che siamo costretti a sopportare giorno dopo giorno, anno dopo anno, fino a quando il conto non si chiude per sempre. Avremo vissuto il tempo che ci era stato concesso, certo, avremo finito di imparare che non c’era altro oltre i giorni che ci erano stati concessi. Giorni: un’interminabile, continua apoteosi, una glorificazione del tempo come munifica concessione. Una concessione alle nostre illusioni, l’autorizzazione ad avviarci senza pensarci troppo verso il finale fatale. E sarà lì, sul finire della commedia, che ci sarà fatta un’ultima concessione: voltarci indietro e ammirare le macerie che avremo accumulato, che il tempo ci ha concesso di accumulare, e chiameremo quelle macerie vita. Per assolverci non servirà dirci che non abbiamo vissuto invano, dirci che abbiamo perseguito il Bello, l’abbiamo inseguito, braccato, a volte ci è sembrato di sfiorarlo. Già… Snidare la bellezza nelle pieghe del mondo e portarla alla luce perché tutti possano fissarla abbagliati è cosa per nulla semplice. Credevo d’aver trovato il Bello nella musica, in una donna… Sì, credevo e forse mi sono sbagliato. Credevo d’aver trovato il Bello nell’intangibile perfezione d’un corpo di donna, quando con gli occhi e la mente accesi di desiderio ti sembra che la perfezione con la quale quelle membra sono assemblate, siano un inno all’armonia, la semplificazione che è concessa ad occhi offuscati come i nostri di percepire un lampo, un bagliore fuggevole dell’idea di bellezza. Sarà quello che definiamo il divino. Ma io non posso parlare del divino, non più, non lo riconosco ormai, non so più cosa sia; forse non siamo fatti per afferrarlo, per afferrarlo fino in fondo, si rischia di rimanere folgorati per sempre. Diffida di coloro che sostengono d’averlo compreso fino in fondo e tentano di spiegarlo con le parole, con quanto di più ambiguo, sfuggente e superficiale ci è dato per esprimerlo: parlano solo di sé, per circondarsi di un’aura che non possiedono. Il Bello non gli ha attraversato la mente e il corpo. Sì, il corpo, hanno percepito solo dei ridicoli e insignificanti fremiti che hanno scambiato per l’alito del Bello. Quando il Bello ti attraversa il corpo ti lascia ferite profonde… Questa era la mano di un dio”, spiegò Viktor sollevando il braccio destro, dopo aver lasciato la presa che lo legava a Olga.

Olga si alzò, entrò nella tana e ne uscì con in mano la copia del Narodny Listy, quella con la foto di Viktor più giovane di dieci anni; tornò e sedette di fronte e Viktor. La fronte era la stessa, osservò Olga, e sotto la barba incolta indovinava i medesimi lineamenti gentili, c’era solo qualche ruga in più. Olga sfiorava con le dita l’immagine di Viktor e si domandava cosa provasse per lui, se fosse amore quel miscuglio di tenerezza, apprensione, malinconia e quel vuoto che avvertiva al centro dello stomaco. Se per caso l’amore non fosse quello spasmo che e volte avvertiva intorno al collo, un formicolio piacevole che le arrivava alla testa e la faceva sentire allegra, o quell’eccitazione che avrebbe voluto manifestare con un abbraccio scomposto e certe volte irruento, in una tempesta di baci carezze pizzicotti, in un temibile impulso  a mordere che a volte la spaventava, poiché si sentiva una cannibale la cui fame sarebbe stata saziata soltanto divorando pezzo per pezzo le dita, le guance, le orecchie, le labbra e l’anima di Viktor? Tutto ciò appariva a Olga una follia, ma se questo era l’amore allora non avrebbe esitato a urlare che sì, era pazza; se questo era l’amore, non le sembrava diverso da quell’altra follia, quella degli uomini che le avevano saccheggiato il corpo, allora il suo amore avrebbe devastato il corpo e l’anima di Viktor e avrebbe concesso a Viktor di fare lo stesso con lei, ma questa volta sarebbe stato diverso.

Olga allungò le mani e tenne quella di Viktor, il gesto le sembrò temerario e al tempo stesso consueto, familiare e invadente; Viktor percepì il fremito che agitava Olga, sollevò lo sguardo, fissò Olga negli occhi e sorrise.

“Di tutte le strade che avremmo potuto percorrere, alla fine siamo stati costretti a seguirne una sola, una che crediamo d’aver scelto, ma non è così, non è come sembra”, ammise Viktor.

Olga allora sollevò il giornale davanti a Viktor senza parlare e attese, pose la sua immagine davanti agli occhi di Viktor come una prova inconfutabile alla quale non poteva sottrarsi. Viktor esitò a lungo.

“E’ soltanto un’immagine, uno spettro. Quello che vedi non c’è più, non esiste più, se è mai esistito. È morto quando gli dei hanno smesso di parlargli, quando con una parte del mio corpo è morta la mia volontà. Attraverso queste mani passava la volontà di un dio che mi ha abbandonato, ed è morta in me la musica che le attraversava. Ogni muscolo, ogni nervo e tendine, ogni articolazione delle mie braccia, delle mani, ogni intenzione è morta con una parte del mio corpo… Non ero più io a decidere, era qualcun altro. Questa immagine è soltanto ciò che resta di quel che credevo di essere. Non credere a quello che è scritto su questo pezzo di carta, non potrà spiegarti nulla. Non potrà svelarti il mistero di un’esistenza senza più significato e…”

“Parlami di Amelia”, lo interruppe Olga.

Il volto di Viktor fu segnato da una contrazione dolorosa e violenta come una scudisciata. Viktor arretrò, fuggì da Olga e la sua domanda, lasciandola di nuovo sola. Il sole all’orizzonte si stava dissolvendo. Olga raccolse il giornale che Viktor aveva lasciato scivolare dalle mani e lo ripiegò con cura, lo tenne tra le mani e lo appoggiò al petto, poi andò a nasconderlo sotto il materasso della branda; tornò con una candela accesa. Viktor raccontava.

“C’era un pianoforte a casa dei nonni, un Bösendorfer grancoda, quando  lo vidi per la prima volta mi fece uno strano effetto, piansi e andai a rifugiarmi dietro il divano e da lì lo spiavo come fosse un oggetto mostruoso. Per giorni mi rifiutai di scendere di sotto e me ne restai barricato in camera, asserragliato dentro una trincea sicura e confortevole. Quel comportamento sconcertò i miei genitori, stavano per sbarazzarsi del pianoforte. Una mattina, lo ricordo bene ancora adesso, una mattina di primavera le mimose erano macchie di un giallo abbagliante. Dopo colazione mi rintanai in camera, la mia stanza era invasa dai giocattoli, c’era un teatrino in miniatura che i nonni tedeschi mi avevano fatto pervenire per il mio quinto compleanno, i nonni italiani, invece, una schiera di soldatini di piombo dell’esercito napoleonico. Non saprei dire se quello che percepii fosse un lamento, una nenia, se fosse pianto, o un’invocazione di aiuto. Ricordo solo che quel miscuglio struggente di parole dette in un modo a me del tutto sconosciuto mi trafisse, mi incatenò ad un’emozione senza nome. Mi costrinse a piangere.”

“Cos’era?”

“Oh… Mi affacciai sull’uscio, percorsi il corridoio e mi arrestai in cime alle scale, immobile, silenzioso, con l’orecchio teso a carpire ogni singolo richiamo che saliva dal basso. Scesi le scale e mi arrestai a metà, sedetti a un gradino e rimasi ad ascoltare. Mi parve di riconoscere la voce di mia madre. Quella mattina mi parve diversa, nuova, come se parlasse una lingua che né lei né mio padre avevano mai parlato prima. Mi arrischiai a percorrere l’ultima rampa che conduceva al salone a pianoterra e mi fermai sull’ultimo gradino, dietro lo spigolo che nascondeva ai miei occhi quello strano oggetto. Poi mi sporsi e vidi mia madre che sfiorava quella specie di mostro con le dita e sentii che parlava in quella strana lingua che mi aveva affascinato. La sua voce era come una carezza. Era una lingua che la mia mente non comprendeva ma svegliava in me echi di una lontananza siderale, di nostalgie inconsolabili, di spazi sconfinati che non avevo mai visto né sentito nominare. Mi sembrò di rivedere i luoghi di cui mio padre mi aveva spesso narrato, di vedere la bruma che li avvolgeva, i profondi silenzi che  li attraversavano. Vidi le cupe foreste di un Nord incantato.

“Mi avvicinai senza far rumore, mi rincantucciai ai piedi dello sgabello sul quale sedeva mia madre e restai a contemplare il suo corpo che ondeggiava, si dondolava avanti e indietro come sotto l’effetto di un incantesimo, sollevava la testa come se cercasse nel vuoto le risposte ai richiami che la sua voce spandeva tutt’intorno; dalle sue labbra venivano fuori i suoni di quella lingua misteriosa, accattivante. Stava cantando, mia madre stava cantando in tedesco, la lingua che aveva appreso da ragazza in un collegio svizzero… anche lo studio del pianoforte aveva intrapreso in collegio. Allora avvenne una specie di sortilegio, cominciai a ondeggiare come faceva lei e mi afferrò il desiderio di apprendere quella lingua misteriosa, la musica, per poter anch’io percorrere quei territori invisibili che immaginai mia madre stesse esplorando. Volevo poter dire anch’io quella indicibile frenesia che teneva mia madre e me.”

“Fu allora che decidesti di fare il pianista?”

“La prima volta che mi accostai al pianoforte avevo paura, temevo che potesse svegliarsi l’animale fantastico che immaginavo si annidasse lì dentro. Poi cominciai a parlare col pianoforte. Sì, a dialogare. Mi affascinava l’arrendevolezza del mio nuovo compagno di giochi, la sua totale disponibilità ad assecondare ogni mio umore, ogni bizzarra fantasia, la sua fedeltà me lo rese indispensabile, la sua assenza di imprevedibilità mi rassicurò, in lui sapevo di trovare un rifugio alle mie paure, all’ansia, all’indecifrabilità che a volte il mondo mi poneva davanti come un ostacolo insormontabile. Persino il buio, che solitamente mi angosciava, persino il buio divenne niente altro che un aspetto solo un po’ più indecifrabile. Sedevo allo sgabello e posavo le dita sulla sua pelle bianca e nera e lui era solido, rassicurante. A volte mi sentivo un mago, l’artefice sotto le cui dita il pianoforte si animava. Ricordo Herr Kleist, il mio primo insegnante, e poi l’Accademia, il mio secondo insegnante. Era italiano, il professor De Barberjis. Aveva fama di orco, di severo fustigatore di coloro che approdavano all’Accademia ‘con la valigia colma di velleità e la testa ingombra di un fatuo egocentrismo’ diceva, e come urlava, come inveiva contro il malcapitato di turno che aveva l’ardire di presentarsi a lezione sicuro di sé e dei propri mezzi vedendosi fatto letteralmente a pezzi. Le sue tirate erano memorabili. A me, chissà perché, riservava quanto di più morbido, pacato e arrendevole riuscisse a racimolare dal suo temperamento scostante. Forse mi voleva bene, chi lo sa! E poi il giorno del diploma… Dopo il diploma, un giorno il professor De Barberjis mi dice: ‘E’ tempo di consolidare le radici e temprarsi al freddo dell’Est’, e mi sventola una lettera sotto il naso, ‘non volevo parlartene prima perché non volevo distrarti, ma adesso è giunto il momento’. ‘Non capisco’ dissi io, e lui: ‘Irina Vishnevskaya, la leggendaria, l’impareggiabile, Irina Vishnevskaya, la odiosa…’. Partii per quel paese, il tuo paese e…”

“E’ lì che hai imparato la mia lingua, allora”, si intromise Olga.

“Il professor De Barberjis non si sbagliava sul conto della Vishnevskaya, da loro era un mito, ma nonostante ne fosse consapevole, nella vita ordinaria e nelle relazioni era di una semplicità, una disponibilità e una franchezza disarmanti.

“Solo quando era in aula, a tu per tu con uno studente e il brano che stavano affrontando insieme, la Vishnevskaya si trasformava. Il suo acume, la profonda umanità, quel divenire tutt’uno col l’autore e il pezzo la rendevano… diabolica. Quando lavorava, in classe calava un silenzio intollerabile, in quel silenzio potevi percepire la manifestazione della grazia, una grazia pagana, sulfurea, che scivolava dai lembi della veste di Dioniso e calava impalpabile nelle menti degli studenti.”

“E’ lì che hai imparato a parlare la mia lingua?”
“Poi tornai… la Russia la Bielorussia l’Ukraina, le pianure ungheresi… ogni frontiera un timbro, ogni visto caratteri incomprensibili; ogni controllo lingue che suonavano barbariche. Poi Belgrado e Ljubliana. Come appariva sconfinato il mondo attraverso i finestrini di un treno.”

“Lo so, ho visto quanto è grande. Sai, volevo parlarti di…”

“Fu a Ljubliana, alla stazione. Fu lì che la vidi.”

“Amelia?!”

“Viaggiammo insieme fino a Trieste. Lì aspettava un treno per Venezia. Io dovevo proseguire per Milano.”

“Parlami di lei”, implorò Olga, “com’era, era bella? era simpatica? era comprensiva? Dai, ti prego.”

Olga attese invano una risposta, nessuno, nemmeno lei avrebbe potuto orientare il percorso labirintico dei pensieri di Viktor.

“E’ una lingua misteriosa la musica, complicata, indicibile. Non sono i segni, no, quelli sono pensieri fossili. Bisogna essere scelti, essere eletti per potersi fare tramite tra la lingua degli dei e quella degli uomini. A volte può essere una condanna, un’ossessione. Hai mai provato a pensare a un suono? Cos’è un suono? E’ niente, un palpito, un’intenzione che si dissolve in un soffio, un soffio che smuove il fondo melmoso dell’anima e la rivolta. E’ dal fondo melmoso che nasce la musica. Ma bisogna esserci stati laggiù. E’ un prezzo che bisogna pagare per comprendere che l’assoluto si origina laggiù, nella melma, come il dolore, la bellezza, laggiù nella melma.”

Quanto più le parole di Viktor risultavano oscure, tanto più cresceva in Olga un sentimento di ribellione, di insofferenza, le pareva che Viktor si nascondesse dietro le parole per non vedere quello che lo circondava, per non dover ascoltare quello che lei aveva da dirgli.

“Ascolta”, intimò Olga, “ascoltami, ho bisogno di parlarti, devi ascoltarmi adesso. Mi senti? Viktor mi senti?”

Olga afferrò Viktor per un braccio e lo scosse con forza, Viktor sollevò il capo, sbarrò gli occhi e sul volto gli si disegnò un’espressione di smarrimento. Quante volte Olga aveva creduto che Viktor fissasse proprio lei e non un fantasma, ma adesso lo sguardo di Viktor diceva stupore, smarrimento, il timore di trovarsi di fronte a una sconosciuta della quale ignorava le intenzioni, e Olga capì che forse Viktor la stava per davvero guardando per la prima volta, che stava guardando lei e non una traccia opaca della sua mente. Era come se Viktor interrogasse Olga con lo sguardo, le chiedesse di aiutarlo a distinguere tra una realtà immaginata che solitamente era in grado di addomesticare e plasmare a piacimento, e una che si mostrava con la pesantezza di un corpo, con la consistenza di una forma solida, mentre quegli altri, i personaggi delle sue frequentazioni immaginarie, si muovevano leggeri, inconsistenti, senza né peso né forma, e la lingua che parlavano non lo colpiva dall’esterno con la perentoria ruvidezza della voce di Olga.

“Mi riconosci? Viktor dico a te, mi riconosci? Ascolta.”

“Ti prego, ti prego, non farmi, non…”. Viktor raccolse da terra la cartella di cuoio nero posata ai suoi piedi e la portò al petto, la strinse e guardò Olga implorante.

“Sta’ tranquillo, non hai niente da temere, sono io, non aver paura, non voglio la tua borsa, non è questo che voglio. Voglio solo parlare con te, ne ho bisogno, e tu devi ascoltarmi. Devo farlo per te e per me, non posso più fingere, e tu devi ascoltarmi. Mi senti? Viktor mi senti?”

“Io… sei… sei tu…”

“Ti ricordi come mi chiamo? Ti ricordi come ci siamo conosciuti? Ti ricordi dove mi hai trovato? Te lo ricordi? Fai uno sforzo, ti prego, è importante, è importante per me.”

“Cosa c’è da dire, cosa c’è?!”

“Sai come mi chiamo? Ti ricordi il mio nome? Ti ricordi quando ci siamo incontrati, te lo ricordi?”

“Era d’estate, a Ljubliana, c’erano i treni, la gente e…”

“No, non è così, non era d’estate e non c’erano treni. Ti prego, cerca di ricordare. Era novembre, faceva freddo e tu eri per strada e… mi hai sentita, ti sei avvicinato, hai avuto pietà di me, mi hai portata con te qui alla distilleria. Viviamo insieme da allora, te lo ricordi? Viviamo nella stessa casa. Ricordi il mio nome, ricordi come ho detto che mi chiamavo? Lo so, per te non fa nessuna differenza, ma io ho bisogno di dirtelo. Mi chiamo Olga, Olga, il mio nome non è Vanessa come ti avevo detto quella volta, no, non è Vanessa, io mi chiamo Olga e vengo dalla strada… Tu non sai, non sai, mi vergogno a… Quando ti ho conosciuto facevo la puttana, sì, la puttana, mi ascolti? La puttana”, urlò Olga in faccia a Viktor, e scoppiò a piangere. “Mi vergogno, mi vergogno di me, mi vergogno di quello che sono, del mio corpo, mi disprezzo, e non so più dire se sono Olga o Vanessa, ma il mio nome è Olga e non lo so, forse… sono innamorata di te. Mi hai capito, Viktor?”

“Perché parli russo?”

“E’ la mia lingua, vengo da lì, lo capisci? E mi chiamo Olga, non Vanessa.”

“Ma quanti… quanti nomi hai?”

“Mi hanno obbligata a portare quel nome, Vanessa, ma io mi chiamo Olga e al villaggio ho lasciato

le mie compagne.”

“Come mai sei qui, perché non sei al tuo villaggio?”

“Mi hanno rapita, mi hanno violentata e rapita, mi hanno portato in questa città per fare la puttana, Ho fatto la puttana per sei mesi, poi sei arrivato tu.”

“Io? Perché io?”

“Non ti ricordi come ci siamo incontrati?”

“Non lo ricordo, non voglio più ricordare. Non c’è niente che valga la pena di essere ricordato.”

“E invece devi. La sera in cui sono scappata, ero in macchina con un cliente al di qua del fiume, proprio sotto la collina della Città Vecchia, e anche il cliente era un vecchio. Era vecchio, puzzava di alcool e aringa affumicata, disse di chiamarsi Vaklav, voleva che lo chiamassi paparino e fingessi di essere la sua bambina, la piccola Vanessa; voleva che gli sedessi sulle ginocchia e lo accarezzassi, voleva che gli dondolassi sulle ginocchia, voleva fare ‘il cavalluccio’, e intanto mi toccava. Mi disse di aprire la bocca. Voleva infilarmi dentro la sua lingua schiumosa e intanto mi faceva male con un dito… mi faceva davvero male. Poi cominciò ad arrabbiarsi, mi schiaffeggiò, mi diede un pugno sul naso. Ero diventata una bambina disobbediente perciò mi picchiava. Quando arrivò il momento sembrò che non capisse più nulla, si abbandonò sul sedile come se fosse svenuto. Fu allora che scappai, feci in tempo a sollevarmi i pantaloni e scappai. E poi mi hai trovata.”

Viktor stava seguendo affascinato il racconto di Olga poi, inaspettatamente, trasse dalla tasca del cappotto un fazzoletto e lo porse a Olga, che si asciugò le lacrime.

“Forse hai ragione tu, tutte le volte che ho provato a capire perché sono finita in questa città a fare la puttana, non sono riuscita a darmi una spiegazione, non ce ne sono, non ce n’è una, è tutto senza senso. Perché sono uscita quel giorno? Perché sono andata con lui al bosco di betulle? Perché mi ha fatto quel che mi ha fatto? Cosa c’entravo io? Chi lo ha deciso per me? Niente, non c’è spiegazione. Cazzo, perché?”

“Credo che quello che ci riesca alla perfezione sia fingere di sapere: di sapere il perché del dolore, della morte, dell’iniquità, della follia; fingere di conoscere la nostra strada, di averla scelta come se noi stessi l’avessimo tracciata sulla mappa della nostra esistenza; come se conoscessimo gli snodi che svieranno i nostri passi per strade che non avremmo voluto percorrere. In realtà ci sfugge il senso e la necessità, ma fingiamo che non sia così.”

“Cos’ha la tua mano, perché ne parli sempre, vuoi spiegarmelo una volta per tutte?”

Viktor rise come non aveva mai fatto.

“Vuoi che te lo spieghi, pensi davvero che sarei in grado di farlo? Oh, se potessi, se riuscissi a capire. Ho smesso di voler capire il perché delle cose, non ci riesco, non più.”

“Almeno dimmi cosa ti è capitato, quando ti è capitato, dov’eri, cosa facevi, con chi eri, cosa pensavi, prova a dirmelo. Cosa pensavi in quella foto, quella del giornale? Eri così giovane, così serio, sembri così severo.”

“A quanto pare siamo destinati a soccombere. Non c’è nessuno in grado di spiegarci l’inspiegabile, scarseggiano i saggi e i profeti e ci restano soltanto ciarlatani e preti. Mia nonna credeva ai preti, mia nonna italiana, povera vecchia; passava le serate a recitare rosari e le giornate a convincermi che anch’io avrei dovuto pregare, ‘per il bene della tua anima’, diceva. Già, per il bene della mia anima, non so se ne ho mai avuta una, un tempo ci credevo, a modo mio, poi deve esserle successo qualcosa, non so, non so proprio perché ho smesso di crederle, è stato quando gli dei mi hanno abbandonato. Mi restano solo queste inutili mani. No, le parole non ci sono, e non servirebbero.”

“Anche stanotte starai via?”, disse Olga. “Già, inutile chiedertelo. Ho sempre paura quando te ne vai e mi lasci sola, ho paura che non torni, ho paura di svegliarmi e non trovarti disteso sulla branda. Ho paura di questo posto, di notte mi sembra di sentire dei rumori, ho paura che, prima o poi, qualcuno entrerà quando non ci sei. No, non voglio pensarci, non lo sopporto. Perché non resti? Staremo svegli fino a tardi a parlare di noi. Resta.”

 

Francesco De Nigris

 

Aggiungi un Commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Commento *

Nome
Email