Gehenna (Cap. 7)

CAPITOLO 7

Alla fine di maggio Antonin cacciò Leo dalla tana comune, affastellò la sua roba in un mucchietto e la depose all’ingresso del deposito, facendogli trovare la porta sbarrata, allora Leo comprese che la storia stava prendendo una piega davvero storta. Non tanto per la cacciata, poiché a quella c’era rimedio, dal momento che la primavera aveva fatto sciamare inquilini che alla distilleria Kuntz avevano solo svernato; quello che preoccupava Leo era assistere impotente alla discesa di Antonin verso la china del delirio che questa volta, chissà perché, sentiva davvero senza ritorno. Sapeva bene, Leo, quanto in tutto questo c’entrasse Olga, la quale tuttavia non aveva colpe, e intuiva l’influenza nefasta che quel tale Albanese aveva preso ad esercitare su Antonin.

Per l’Albanese, invece, Antonin stava diventando una presenza noiosa e ingombrante. Per parte sua, da quando aveva conosciuto l’Albanese, Antonin aveva ripreso a dar fiato senza ritegno alla sua natura delirante, e aveva cominciato dalla distilleria Kuntz. Sei mesi addietro siserebbe potuto vedere Antonin passeggiare come un ossesso lungo il medesimo percorso, immerso in riflessioni mute e inoffensive, adesso non era infrequente trovarlo all’ingresso della distilleria che sproloquiava di “fine dei tempi, della venuta di uno che avrebbe spianato i colli e colmato le valli, avrebbe rimediato alle ingiustizie del mondo”. Sentendo imminente l’epifania, il fervore di Antonin lo conduceva di tana in tana a portare agli inquilini l’annuncio, e intanto che c’era controllava se vi fossero inquilini coi baffi.

L’Albanese aveva parlato ad Antonin del Professore e accennato all’incarico che questi gli aveva affidato e da allora aveva dovuto sopportare Antonin nelle notti di guardia alle ragazze; Antonin aveva concluso, a modo suo, che l’Albanese fosse alla guida del movimento di ragazze che vedeva svolgersi intorno a sé, e che le ragazze fossero delle adepte di quel movimento inteso ad estendere la rete di neofiti che avrebbe accolto il nuovo venuto il quale, stando così le cose, non poteva che essere il Professore del quale l’Albanese parlava tanto.

Dunque era il Professore l’Atteso, l’Albanese il suo profeta e a lui, Antonin, non poteva che competere il ruolo di ministro, nell’era messianica che stava per inaugurarsi. Per accreditarsi nel suo nuovo ruolo, Antonin aveva impreso sui dorsi di entrambe le mani e sulla fronte un segno distintivo che avrebbe dovuto renderlo palese agli occhi dell’Atteso: lo si vedeva andare in giro con una sorta di spada disegnata sulle mani e sulla fronte, che qualcuno avrebbe facilmente potuto confondere con una rozza croce rovesciata. Ed era questo, più che i suoi discorsi strampalati, che metteva l’Albanese in imbarazzo, dato che Antonin lo seguiva a rimorchio sia per le strade della Città Vecchia, sia di notte accanto ai fuochi.

Antonin aveva avuto modo di apprezzare gli sforzi delle ragazze per coinvolgere quanti sostavano brevemente davanti ai fuochi, per diffondere la notizia dell’imminente avvento dell’Atteso, e le attenzioni che l’Albanese rivolgeva loro esortandole ed ammaestrandole su come avrebbero dovuto comportarsi, senza dire che l’intenso lavorio al quale le sottoponeva, facendole lavorare anche di notte, portava continui tributi in danaro che, Antonin non ne dubitava, sarebbero serviti per il sostentamento dell’Atteso.

Solo, Antonin non riusciva a spiegarsi come mai, nonostante l’impegno delle ragazze, l’Albanese le trattasse spesso con modi rudi e sgarbati, sbrigativi e a suo dire perfino violenti, soprattutto le bionde. Doveva esserci qualcosa che non andava nelle bionde, probabilmente rappresentavano un inspiegabile e reale intralcio per l’era che stava per avverarsi, altrimenti i suoi amici vetturini non lo avrebbero messo in guardia su di loro e l’Albanese non le avrebbe prese a calci e pugni, qualche volta. A parte questo, Antonin aveva piena fiducia nell’Albanese, lo seguiva come un cane affezionato e attendeva, come lui, che il Professore si appalesasse, anche se quando lui accennava al Professore, l’Albanese diventava intrattabile, perfino cattivo, come se non volesse sentirne parlare, come se il ruolo di profeta, che lui gli aveva attribuito, facesse sentire all’Albanese la pochezza della sua persona, tant’è vero che non mostrava come lui impazienza per la sua manifestazione, curiosità per quanto avrebbe avuto da dire, aspettative per l’implacabile fermezza con la quale avrebbe rimediato alle storture e ingiustizie del mondo. No, pareva che l’Albanese non volesse nemmeno sentir pronunciare quel nome, pareva anzi che lo temesse, come se anche lui, l’Albanese, avrebbe avuto molto da farsi perdonare e non fosse sicuro che l’abnegazione nel catechizzare le ragazze per l’avvento del Professore, sarebbe bastata a farlo entrare nel novero di coloro che avrebbero fatto ala alla manifestazione del Professore.

E poi quante volte Antonin aveva sentito l’Albanese lamentarsi, disperarsi quasi, per una certa Vanessa, che da quel che aveva capito era una che andava assolutamente ritrovata, poiché il ritrovamento avrebbe significato il coronamento dell’azione dell’Albanese, volta a spinare la strada del Professore, quasi fosse un dono sacrificale da offrirgli. In realtà, Antonin ci aveva capito poco, che la ragazza si chiamava Vanessa, che si era dileguata senza lasciare dietro a sé alcuna traccia, e che era bionda. Ecco, aveva pensato Antonin, una bionda. Doveva trattarsi, pensò Antonin, di una sorta di angelo ribelle, una fuoriuscita che col suo gesto aveva irrimediabilmente compromesso un equilibrio necessitante e niente, come lui sapeva, era senza conseguenze, anche i nessi oscuri avevano il loro peso, anche le dinamiche sotterranee alteravano equilibri inimmaginabili. Tutto ciò non faceva che rendere Antonin solidale con l’azione e le intenzioni dell’Albanese, avrebbe voluto aiutarlo, fare di più per la causa, ma non sapeva come, né comprendeva il rifiuto ostinato dell’Albanese a seguirlo alla distilleria Kuntz, lì una ragazza c’era, per giunta bionda, del cui nome non era sicuro, ma credeva di ricordare che Leo – il traditore e fedifrago – la chiamasse per l’appunto Vanessa, perciò l’Albanese non aveva che da farsi un giro, constatare coi suoi stessi occhi se la tipa che si accompagnava ormai stabilmente a quel suo tale innominabile conoscente non fosse la tale Vanessa che l’Albanese diceva di stare cercando. Nella peggiore delle ipotesi, l’operazione si sarebbe rivelata un fallimento, nella migliore avrebbe permesso all’Albanese di mettere nella rete un’altra bionda, una di quei figuri che operavano nell’ombra per far fallire l’opera salvifica del Professore; ma l’Albanese proprio non ne voleva sapere, e questa sua ostinazione risultava ad Antonin incomprensibile.

Sebbene le sortite notturne non fossero frequenti, Antonin aveva conosciuto alcune ragazze che lavoravano lungo i viali della Città Nuova, con una in particolare poteva dire di essere in confidenza – a modo suo, s’intende, permanendo invariato dentro di sé un atteggiamento cauto, perfino ostile nei confronti delle donne. La ragazza si chiamava Nicoleta e non era bionda. Era una rossa lentigginosa e aveva diciassette anni. Antonin aveva preso l’abitudine di sostare con lei davanti al fuocherello che li scaldava, poiché nonostante maggio, le notti erano ancora piuttosto fredde. L’attendeva tutte le volte che la vedeva allontanarsi con quello che Antonin considerava il neofita di turno, ed era lì ad accoglierla quando faceva ritorno e la vedeva scendere dall’auto e avvicinarsi all’Albanese per consegnarli l’obolo che era riuscita a procurarsi. Antonin aveva scoperto che Nicoleta era rumena, veniva da un paesino ai confini con l’Ungheria e si trovava in città da poco meno di sei mesi, e di tutto quello che era stata costretta a lasciare le dispiaceva non poter più frequentare la scuola; Antonin non ne sapeva di più. Tutte le volte che aveva cercato di porle domande, Nicoleta si era chiusa in un silenzio ermetico, che Antonin giudicava reticente; del resto, pensava, la discrezione era giustificata. Se l’obiettivo delle ragazze, e dell’Albanese, era costruire una rete di complicità estesa, volta a preparare la venuta dell’Atteso, e se la prossima epifania rischiava di incontrare ostacoli, interferenze, sabotaggi dettati dall’invidia e l’ignoranza, era necessario mantenere un riserbo giustificato; ed era comprensibile che, dal momento che il ruolo di sacerdote dell’Atteso che Antonin si era attribuito non era ancora di dominio pubblico, le ragazze lo guardassero con giustificato sospetto. La presenza dell’Albanese, le occhiate, gli ammiccamenti di lui verso le ragazze non lasciavano dubbi: c’era da custodire un segreto, che se fosse stato dato in pasto ai profani, o al primo venuto, avrebbe potuto rivelarsi un male e ritorcersi contro quella stessa umanità che l’avvento dell’Atteso doveva sanare. Questo era ciò che Antonin pensava.

Una notte Nicoleta raccontò ad Antonin di come fosse arrivata in città, gli parlò di una casa di legno nella quale aveva trascorso una notte in compagnia di altre ragazze, di cosa le avessero fatto due individui che non conosceva e ai quali era stata consegnata per essere poi affidata all’Albanese. Nicoleta raccontò ad Antonin che mentre le stavano sopra aveva pianto, e di come la luce della luna illuminasse il volto di un’altra ragazza distesa sul letto di fronte al suo. Per non sentire quello che stava accadendo, raccontò Nicoleta, non trovò di meglio che concentrarsi sul volto di quella ragazza che non avrebbe mai più dimenticato, avrebbe potuto riconoscerla tra mille, poiché si erano guardate a lungo, come se ognuna interrogasse l’altra, chiedesse spiegazioni per quello che le stavano facendo. Nicoleta aveva fissato per tutto il tempo il viso di quella ragazza, i suoi lunghi capelli biondi, la figura lunga e magra rannicchiata; l’aveva implorata con lo sguardo, ma la ragazza, come le altre nella baracca di legno, non aveva fiatato, se ne era rimasta immobile, in silenzio. Poi aveva rivisto quella ragazza dai lunghi capelli biondi alla luce dell’alba, prima che fossero separate per sempre; non avrebbe mai dimenticato quel volto, era l’unica cosa di umano al quale aveva rivolto uno sguardo. Non conosceva il suo nome, Nicoleta, ma il volto non lo avrebbe dimenticato.

Antonin aveva ascoltato il racconto di Nicoleta con partecipazione, commuovendosi perfino, le parole della ragazza lo avevano indotto a riflettere, e le riflessioni erano amare, sconsolate.

Come era possibile, aveva pensato, che il mondo ospitasse individui così malvagi, senz’anima? Approfittare brutalmente di una ragazza che si era votata alla causa. Possibile che quegli sciagurati non avessero riconosciuto in lei la nobiltà d’animo, l’innocenza delle intenzioni, la fragilità della condizione umana e si fossero accaniti su di lei in modo barbaro? Tutto ciò tormentava Antonin. Era la percezione dell’iniquità che gli faceva sperare che l’imminente venuta dell’Atteso avrebbe posto rimedio all’ingiustizia nella condizione umana; se il mondo era governato dalla cecità, dalla stoltezza, dall’iniquità, se la condizione umana soffriva di una intrinseca debolezza, di fragilità, se i deboli dovevano soccombere alla stoltezza dei forti, allora era necessario, urgente, irrinunciabile che l’Atteso si appalesasse. Non aveva dubbi Antonin: l’avvento futuro avrebbe sanato tutti i mali, quelli del cuore, dell’anima, del corpo e dello spirito, e lui sarebbe stato in prima fila ad osannare l’artefice di tale mutamento, di una tale rivoluzione; e lo avrebbe fatto non solo per sé, ma per tutti, a cominciare da Nicoleta, rifletteva Antonin, che non aveva colpe, che non aveva nulla da farsi perdonare e tutto da sperare e pretendere, nel nuovo futuro che l’Atteso avrebbe inaugurato. E che fosse il Professore l’Atteso, l’artefice di tale evoluzione per il genere umano, Antonin non aveva ormai dubbi, glielo diceva il fervore che notava intorno a sé, glielo diceva l’apprensione dell’Albanese, il tormento interiore che Antonin percepiva, anche se l’Albanese non ne parlava. Glielo diceva, infine, questa sua appagata sete di riequilibrio, il suo bisogno di equità, l’ aspirazione mai sopita ad immaginare una umanità riappacificata, priva di individui che sottomettono altri individui, che ne spiano la vita per conto di innominabili Organizzazioni. Nel mondo avvenire, rifletteva Antonin, non ci sarebbe più stato bisogno di tutto ciò, nel mondo avvenire la libertà della mente e del cuore sarebbe stata l’unica moneta di scambio, nel futuro che l’avvento del Professore lasciava intravedere non avrebbe avuto cittadinanza il male in tutte le sue manifestazioni , gli spiriti risanati avrebbero naturalmente dato vita a una società giusta e sana, pacificata e buona, nessuno avrebbe più potuto calpestare la dignità di una ragazza innocente come Nicoleta, poiché l’animo umano risanato avrebbe concepito soltanto giustizia e pace. Così pensava Antonin.

Intanto che si preparava all’avvento di tale era, Antonin bighellonava per le strade della Città Vecchia, catechizzando i passanti su ciò che li attendeva. I suoi compagni di strada, i vetturini, avevano notato in lui un cambiamento vistoso, a cominciare dai segni sulla fronte e sulle mani, e non perdevano occasione per stuzzicarlo. Tuttavia, la metamorfosi sopraggiunta era di tale portata che assorbiva Antonin al punto che ogni tentativo di coinvolgerlo in scherzi e situazione improbabili, naufragava contro il granitico sussiego e la ferma volontà di questi di non farsi deviare dal corso dei suoi pensieri e azioni.

Tutte le mattine Antonin si svegliava non oltre le otto, si guardava intorno, constatando con soddisfazione l’assenza dell’innominabile compagno di un tempo, e si disponeva a spendere la giornata nell’attesa impaziente dell’evento. C’era il giro obbligato presso i coinquilini della distilleria, che ancora parevano sordi al richiamo del nuovo ordine che Antonin andava prospettando; poi un rapido passaggio per gli incroci della Città Nuova, nel caso incontrasse l’Albanese, infine la metà consueta, la Città Vecchia.

Da quando Antonin aveva cacciato di casa il suo coinquilino innominabile, non si era preoccupato di informarsi su quale fosse la sua attuale sistemazione all’interno della distilleria, anche se sospettava che quel tale avesse trovato un buco non lontano dalla ciminiera, nei pressi della tana del ‘signorino’ e della sua ospite. Fu proprio nei pressi della tana di Viktor che una mattina Antonin incrociò Olga, che si disponeva a stendere i pochi panni del suo guardaroba, un paio di pantaloni di tela, abbondantemente oltre misura, due camicette, qualche capo di biancheria, quasi tutta roba procurata da Leo, da quando aveva trovato di che racimolare qualche soldo facendo della sua naturale tendenza all’oblazione un’attività lucrosa.

Olga lanciò un urlo quando, voltandosi, si ritrovò Antonin alle spalle, ma lui le sorrise e allargò le braccia.

“Mi perdoni, non avevo intenzione di spaventarla; e comunque non è me che deve temere, signorina, c’è in giro gente molto più pericolosa e infida di me, se comprende quello che intendo, è da quella gente che deve guardarsi. Non tema. Piuttosto si guardi, e si guardi bene, da chi le sta vicino, spesso sono proprio coloro che dividono con noi il tempo e lo spazio quelli da cui dobbiamo attenderci il peggio, se comprende quello che intendo.”

“Non capisco, non parlo bene la tua lingua.”

“Oh, ma io parlo la sua”, disse Antonin nella lingua di Olga: “E un tempo la parlavo anche meglio.”

“Davvero?”

“Eh, ma quelli erano altri tempi, un’altra storia. Allora eravamo tutti diversi. Non voglio con

questo dire che si stava meglio, per nulla. Ma lei, piuttosto, come sta? Sono passati mesi da quando ci siamo incontrati per la prima volta e non abbiamo mai avuto modo di approfondire la nostra conoscenza, non le sembra bizzarro?”

“Cosa?”

“Che si viva nello stesso posto e ci si ignori. Ovviamente non mi riferisco a lei in particolare, voglio dire tutti, tutti quelli che vivono nella distilleria, non le pare?”

“Non so, non so cosa dirti, io…”

“Eh, sapesse! Sono circolate molte voci strane sul suo conto, signorina. A proposito, deve perdonarmi ma non ricordo più il suo nome, vuole essere così gentile da ricordarmelo.”

Olga indugiò, conosceva appena quel tipo, e da quello che le aveva raccontato Leo non doveva essere molto a posto con la testa.

“Io… io mi chiamo…”

Ad Antonin non sfuggì la reticenza di Olga, del resto si trovava al cospetto di una bionda, cioè di un individuo intrinsecamente infido, questo non lo dimenticava Antonin, individui come questa ragazza andavano trattati con estrema cautela, con una distanza ammantata di buone maniere, ovviamente, e una diffidenza condita con qualche sorriso, tanto per non destare sospetti.

“Dunque diceva?”

“Perché vuoi sapere il mio nome?”

“Oddio, perché si usa così tra persone civili, ci si presenta, si fa la conoscenza, è come aprire la porta di ingresso e ammettere qualcuno nella propria casa, è così che si fa, non mi dica che non lo sapeva?”

“No, cioè sì, sì lo so cosa vuoi dire, certo, le presentazioni, io devo dire il mio nome tu il tuo e così ci siamo presentati, certo che lo so come si fa.”

“E dunque, come si chiama?”

“Mi chiamo Vanessa, ma…”

”Ma?”

“No, niente.”

“Dunque il suo nome è Vanessa, vero? Molto bene. Il mio nome è Antonin, ma questo credo che lei lo sappia già, immagino?”

“Sì, lo sapevo, l’ho saputo da Leo.”

A quel nome Antonin avvertì una morsa al centro del petto, uno spasmo, come un pugno

inaspettato, ma non lasciò che la sensazione dolorosa trapelasse sul suo volto, non voleva che quella

debolezza avvantaggiasse la sua avversaria.

“Vanessa dunque è il suo nome”, sottolineò Antonin come fosse una stoccata.

“Sì, è il nome che porto. Ma perché, non hai mai sentito questo nome?”

“Direi di sì, anzi le dirò che negli ultimi tempi questo nome è ricorso più di una volta, e direi che è questo, piuttosto, ad essere strano.”

“Cosa vuoi dire?”
“Oh, niente, niente, era così per dire. Lei ha detto che non parla la mia lingua, devo dunque dedurre che non è del posto.”

“Infatti, non sono di qui.”

“E’ arrivata qui col suo amico, intendo dire quello che chiamano il ‘signorino’?”

“Chi, Viktor? No, sono arrivata dopo di lui, era già qui quando l’ho conosciuto.”

“E’ lecito domandare come mai si trova qui, in questa città, nella distilleria?”

“Anche questa è un’altra storia, e non mi va di raccontarla. Anzi, io qui ho finito, credo che me ne tornerò dentro, ci si vede.”

“Ah, un momento, ancora una domanda. Ha saputo di quello che si sta preparando, ha saputo le ultime novità?”

“Di cosa parli?”

“Di quello che stiamo tutti aspettando, la prossima manifestazione dell’Atteso, di colui che metterà a posto ogni cosa e che si manifesterà tra noi tra non molto e …”

“Senti, non mi interessa, e quando incontri il tuo… Come l’hai chiamato?

“L’Atteso.”

“Quando lo incontrerai, salutalo da parte mia.”

Dopo quel colloquio Antonin credeva di saperne abbastanza circa la ragazza, ne avrebbe riparlato con l’Albanese. Antonin aveva la sensazione che gli elementi a sua conoscenza potessero combaciare con quelli fornitigli vagamente dall’Albanese, e sperava, perciò, di riuscire a fargli finalmente fare un salto alla distilleria, hai visto mai che la Vanesse che l’Albanese stava cercando non fosse proprio lei, la bionda della distilleria. Poteva ben essere che dopo il sopralluogo l’Albanese si sarebbe acquietato, e lui si sarebbe sentito appagato dall’aver potuto aggiungere alla sua ormai lunga lista di bionde il nome di questa Vanessa. La reticenza della ragazza, e il sospetto che vivesse nella distilleria in incognito, sembravano ad Antonin un fatto grave, la conferma che come bionda aveva molto da nascondere. Quanto al suo compagno, il tale ‘signorino’, per ora gli sembrava un individuo innocuo, anche perché, sebbene fornito di barba, non rientrava nei canoni dell’altra categoria pericolosa, i baffuti, per il piano d’avvento dell’Atteso.

Alla distilleria Kuntz ormai tutti scansavano Antonin. I segni rozzamente impressi sulla pelle poi, se

inizialmente avevano suscitato la curiosità di alcuni, avevano reso Antonin ancora più inviso, soprattutto da quando la sua presenza davanti alle varie tane era diventata quotidiana, accompagnata com’era da ammonimenti infuocati su come tutti avrebbero dovuto prepararsi al rivolgimento che stava per avverarsi. Gli inquilini della distilleria Kuntz avevano cominciato a guardare Antonin di traverso, non parendo loro vero che, nonostante l’esistenza si risolvesse in un rosario inconcludente di giorni tutti uguali, cioè insopportabili, non avevano fatto null’altro di male per doversi sorbire le prediche sconclusionate di un tale menagramo. Perciò Antonin, che stupido non era, aveva correttamente interpretato i malumori e aveva dovuto modificare le sue abitudini, tanto costoro non meritavano le sue parole, non le comprendevano, e sarebbero rimasti dei reietti in eterno

Perfino i vecchi compagni di strada, i vetturini, se potevano scansavano Antonin, altrimenti ne tolleravano la presenza con fastidio e imbarazzo poiché, dicevano, la sua vista turbava i clienti. Ad Antonin non restavano, perciò, che i fuochi agli incroci della Città Nuova, la compagnia dell’Albanese che gli era ormai diventata indispensabile, e quella di Nicoleta, che gli confessò che sul lavoro doveva farsi chiamare Deborah; c’erano poi le altre ragazze, ma anche loro guardavano Antonin con sospetto.

Perciò Antonin trascorreva sempre più tempo con Nicoleta – “ma quando c’è lui devi chiamarmi Deborah” – e questo alla ragazza non dispiaceva, aveva bisogno di qualcuno che la stesse ad ascoltare e non le facesse troppe domande, anche se la sua vicinanza con Antonin non piaceva per nulla all’Albanese. Anzi, da quando aveva notato l’insolita frequentazione, l’Albanese s’era fatto più assillante, le stava dietro come un’ombra sinistra, nemmeno temesse che la ragazza potesse sfuggirgli. E anche nei confronti di Antonin la tolleranza dell’Albanese si stava trasformando in un sentimento di malcelata sopportazione. L’Albanese rimproverava ad Antonin di intralciare il lavoro delle ragazze, di intimidirle con la sua presenza, di creare imbarazzo nei clienti, che vedendolo si allontanavano, e infine di stargli continuamente tra i piedi come una zecca fastidiosa.

“Cosa tu fa sempre qui, tu va a tua casa e no te avvicinare alle ragazze. Tu te ne va via!”, gli urlò una notte a muso duro l’Albanese, e ad Antonin non sembrò vero che lo si stesse cacciando in quel modo.

“Scusami, scusami, ti prometto che mi farò vedere il meno possibile”, implorò Antonin piagnucolando, “non ti darò più disturbo, né a te né alle ragazze, te lo prometto, ma non cacciarmi, ti prego.”

L’Albanese sferrò un calcio al bidone del fuoco e si allontanò imprecando nella sua lingua.

Antonin chiese a Nicoleta se la sua presenza la infastidisse e la ragazza si strinse nelle spalle, intimorita dal gesto dell’Albanese. Prima di allontanarsi, Antonin chiese a Nicoleta di promettergli che avrebbero continuato a vedersi, lei gli aveva risposto che non sapeva proprio come fare, con l’Albanese che le stava più che mai alle calcagna; e poi, quando avrebbero potuto incontrarsi, se di notte lei lavorava e di giorno aveva bisogno di riposare?

“Non so, non so cosa dirti, vedremo”. E invitò Antonin ad allontanarsi poiché l’Albanese stava tornando.

Solo alcuni giorni dopo l’Albanese si rese conto di aver commesso un errore imperdonabile ad allontanare quel rompicoglioni di Antonin. Infatti, riconsiderò che, nei rari momenti nei quali Antonin riusciva a dare una regolata al cervello, gli aveva parlato, con la sua solita petulanza, di una certa Vanessa che viveva nella distilleria Kuntz, lo aveva assillato ché andasse a dare un’occhiata, che era bionda e che, secondo lui, si nascondeva proprio nella distilleria, secondo quanto gli suggeriva il suo fiuto. Diceva che fin dal primo momento non aveva tollerato la presenza di quella ragazza nella distilleria, che la sua presenza gli era parsa sospetta, e non solo perché femmina, ma perché aveva cercato di farsi passare per un maschio, cosa che aveva potuto ingannare gli altri, ma non lui, Antonin; ma nonostante tutto, l’Albanese non riusciva a prendere una decisione. E se tutto fosse solo frutto della sua immaginazione malata? E se fosse tutto vero? In entrambi i casi, l’Albanese dovette ammettere, nella sua lingua, che allontanare quel rompicoglioni era stato uno sbaglio.

Scovare Antonin non fu difficile, trascorreva infatti le mattinate nella Città Vecchia. L’Albanese trovò Antonin in uno di quei vicoli, era ai piedi di una statua equestre e si rivolgeva ai turisti di passaggio presso i quali, per la verità, non trovava molto credito, infatti la gente sfilava davanti ad Antonin, lo osservava incuriosita, ma quando si rendeva conto che non aveva nulla da vendere se non un po’ di delirio, per giunta in una lingua che molti di loro ignoravano, e soprattutto quando i segni sul corpo dicevano che si trattava di una specie di esaltato, si ritirava delusa.

Quando scorse l’Albanese Antonin si illuminò, si sciolse dalla sua posa ieratica e gli andò incontro saltellando come un bambino.

“Sapevo che non eri cattivo, lo sapevo”, e fece per abbracciarlo, “sono contento, sono molto contento di rivederti; sapessi quanto ti ho pensato, quanto ho pensato alle ragazze, al nostro progetto, sì, sapevo che ti avrei rivisto.”

“No toccare me, e abbassa voce”, disse l’Albanese infastidito.

“Oh, sì, sì, hai ragione, perdonami, ma è che sono felice di rivederti”, bisbigliò Antonin.

“Se tu vuole…può tornare” tagliò corto l’Albanese.

Per Antonin non ci fu bisogno di altre parole, per l’Albanese fu una fortuna, poiché non era tipo da spendere parole in convenevoli. Per giunta l’Albanese non ritenne opportuno far sapere ad Antonin che la ragione del riavvicinamento era quella tale Vanessa che viveva nella distilleria, e che di lui, dei suoi discorsi, dei segni sulla fronte e sulle mani non gli importava un bel nulla, per quanto riguardava Antonin, poteva credersi quello che voleva, poteva aspettare quello che gli suggeriva l’immaginazione, a lui non importava niente; a lui importava quello che importava al Professore, e se al Professore importava questa Vanessa del cazzo, che sembrava che se la fosse portata il diavolo in persona, bene!, a lui questo doveva importare. E se per ritrovare la ragazza doveva sopportare questa specie di svitato, era un prezzo che riteneva opportuno pagare; dopo, alla fine di tutto, avrebbe dato un calcio in culo ad Antonin e alle sue manie e lo avrebbe liquidato senza fare complimenti, come faceva con le ragazze.

Insomma l’Albanese proprio non riusciva a capire cosa Antonin si fosse messo in testa, non capiva i suoi discorsi, né dove volesse arrivare; non lo seguiva quando parlava del Professore come qualcuno che stava aspettando chissà da quando. Certo, per lui il Professore era una specie di entità superiore e non disperava, un giorno o l’altro, di poterlo incontrare, di potergli parlare, di poterlo avere davanti a sé in carne e ossa. Invece, nella mente di quello sfasato di Antonin, il Professore era diventato un’altra cosa, qualcosa che lui proprio non comprendeva, uno che sarebbe arrivato e fatto chissà cosa. Lui non aspettava la venuta di nessuno, meno che mai del Professore. Il Professore c’era già, era presente benché assente, era vivo nella sua mente come è vero che lui era vivo, e gli aveva assegnato un compito, il Professore in persona, pensava l’Albanese. Perciò il Professore c’era già, non bisognava aspettarlo, come diceva di fare quella testa da manicomio, altrimenti non sarebbe stata in piedi tutta l’organizzazione, che era frutto della volontà del Professore.

Antonin, dunque, riprese a  frequentare gli incroci della Città Nuova, le ragazze a diffidare di lui, i clienti a sentirsi infastiditi dalla sua presenza bizzarra. Nicoleta si sentì rassicurata quando Antonin le confidò che l’Albanese in persona lo aveva autorizzato a tornare, perciò la presenza di Antonin divenne quotidiana e Nicoleta non temette più le reazioni dell’Albanese, che comunque era sempre lì a due passi.

Tra un cliente e l’altro Antonin e Nicoleta chiacchieravano amabilmente, per quanto potesse sentirsi amabile una ragazzina costretta a soddisfare oltre quindici clienti per notte. Anche se dopo ogni rientro il trucco pesante di Nicoleta appariva sempre più sfatto e il suo volto sempre più disgustato, Antonin la accoglieva col sorriso sulle labbra, come se la ragazza fosse appena tornata da una commissione, senza riuscire ad interpretare nella giusta maniera i segni sul viso, la malinconia e la stanchezza.

Nicoleta si era domandata spesso chi fosse quello spilungone vestito sempre di scuro, con quegli strani segni sul corpo, e cosa ci faceva dalle sue parti, come mai conosceva e frequentava uno come l’Albanese, non le sembrava uno di loro, uno della stessa specie dell’Albanese. Da come parlava e si muoveva, Nicoleta giudicava che Antonin doveva essere fatto di una pasta diversa, se poi doveva stare alle cose che diceva, beh, non c’era nulla che lo legava all’Albanese, eppure si frequentavano. Non le era mai passato per la mente di approfondire la cosa, Nicoleta si limitava ad ascoltare Antonin e i suoi discorsi a volte senza criterio, a lei bastava qualcuno che le stesse vicino, le facesse credere di essere ancora una persona, una che aveva ancora un’anima, un cuore, dei pensieri, dei sentimenti, cose che non interessavano agli uomini che era costretta a frequentare.

Una cosa però aveva incuriosito Nicoleta. Antonin non amava parlare di sé, del suo passato, della sua storia, del perché vivesse come viveva. Tutte le volte che lei aveva provato a saperne di più, Antonin si era ritratto, si era difeso dietro la vaghezza di parole e gesti che lo avvolgevano di mistero. Di lei, invece, Nicoleta aveva raccontato quasi tutto ad Antonin. A volte Nicoleta si era domandata se Antonin non fosse lì perché voleva scoparsela ma non aveva trovato il coraggio di proporglielo, anche se era arrivata alla conclusione che per quanto riguardava quella roba lì, Antonin pareva del tutto indifferente. Ma allora cosa spingeva Antonin a starle accanto tutte le notti, quando avrebbe potuto, come diceva l’Albanese “portare la sua faccia da cavallo da qualche altra parte”?

Se avessero posto la stessa domanda ad Antonin, non avrebbero ottenuto una risposta convincente, poiché lui per primo non se l’era posta, lo faceva e basta, lo faceva, avrebbe detto, perché gli andava, come con la fronte e le mani imbrattate, lo faceva e basta.

In realtà, la lacuna che l’allontanamento di Leo aveva scavato andava colmata, anche se Antonin non lo avrebbe mai ammesso per orgoglio, o perché la piega delirante del suo temperamento, avvolgendo la realtà di connotati solo immaginati e quindi inesistenti, glielo avrebbe impedito. L’allontanamento di  Leo, e prima ancora il suo sodalizio con Olga – che Antonin conosceva come Vanessa – avevano ravvivato in Antonin i fantasmi laceranti dell’abbandono, tuttavia è probabile che quegli spettri fossero più antichi e misconosciuti di quanto Antonin stesso potesse intuire, e tutto ciò proprio quando nella sua mente si era determinato uno spiraglio che gli aveva permesso di scongelare sentimenti ed emozioni che l’angoscia, e il terrore di un rinnovato trauma, avevano sepolto sotto il gelo dell’indifferenza, del cinismo, di una presunta superiorità nei confronti dell’intero genere umano.

Da parte sua, Leo aveva presentito la catastrofe, ma aveva potuto far poco per trattenere Antonin al di qua di un confine che, per quanto vago, avrebbe forse legato Antonin ad un barlume di lucidità, all’interno di quel recinto di per sé sfuggente che chiamiamo realtà.

A Nicoleta non dispiaceva la vicinanza di Antonin, né che di tanto in tanto le portasse qualcosa di caldo da bere, o dei dolcetti da dividere con lui, che era goloso come un bambino; non la infastidiva se, a volte, lui la guardava con un sorriso vago, che più che malizia esprimeva ingenuità e tenerezza. Antonin era premuroso, le diceva  di indossare qualcosa di più pesante per le notti di maggio, ancora piuttosto fredde, le consigliava di essere prudente con le persone che incontrava, delle quali non dubitava che fossero fornite delle migliori intenzioni, ma non si sapeva mai; le diceva anche di non temere l’Albanese, che in fondo era buono, glielo aveva dimostrato permettendogli di tornare sulla strada, che se non fosse stato per lui, diceva Antonin a Nicoleta, non si sarebbero nemmeno conosciuti. La giovane età di Nicoleta avrebbe dovuto indurla a sorridere delle stramberie di Antonin, come avrebbe fatto qualunque adolescente al suo posto, invece Nicoleta rispettava Antonin e stava ad ascoltarlo, e se a volte sorrideva, era per la assoluta mancanza di senso pratico che Antonin dimostrava.

Una notte Nicoleta era tornata all’incrocio, dove Antonin la aspettava, col sangue che le colava da una narice e che cercava di tamponare con un fazzolettino di carta, di quelli che portava sempre con sé per ogni necessità, e Antonin si era agitato tantissimo, si dimenava in preda all’ansia e avrebbe voluto portare Nicoleta al più vicino ospedale, ma lei aveva  cercato di calmarlo, di rassicurarlo che, in fondo, non era niente di grave; fino a quando non era intervenuto l’Albanese che aveva notato il trambusto, e aveva decretato che non se ne parlava nemmeno di portare la ragazza all’ospedale per qualche goccia di sangue. L’Albanese aveva dato a Nicoleta una bottiglia di acqua e le aveva intimato di pulirsi il sangue, che c’era già un’altra auto ferma che l’aspettava. Tutto ciò aveva turbato ancor più Antonin, che però non aveva osato affrontare l’Albanese; Nicoleta si era allontanata e lui era rimasto ad attenderla pieno di angoscia.

Un’altra notte Antonin trovò finalmente il coraggio di chiedere a Nicoleta se le sarebbe piaciuto incontrarsi con lui anche di giorno, lontano dall’incrocio e dal fuoco, e andare a trovarlo alla distilleria, così le avrebbe mostrato dove viveva; le prospettò la possibilità di fare passeggiate lungo il fiume, di mostrarle la città e farle vedere i posti che frequentava abitualmente; le avrebbe fatto conoscere i suoi amici e Nicoleta si entusiasmò, ma subito dopo si intristì.

“Chi glielo dice all’Albanese.”

Antonin assicurò Nicoleta che gliene avrebbe parlato lui, che l’Albanese era buono, ed era sicuro che non avrebbe trovato nulla da ridire.

“Vedrai che dirà di sì.”

Per quella e altre notti Antonin mostrò a Nicoleta, sullo schermo dell’immaginazione, tutto quello che avrebbero potuto fare insieme, “come padre e figlia”, si lasciò sfuggire una volta, e Nicoleta rise e l’abbracciò.

Poi accadde che per qualche notte Antonin non si vide, e questo impensierì Nicoleta, ma fece tirare un sospiro di sollievo all’Albanese, che detestava Antonin sinceramente. Tuttavia l’assenza di Antonin finì per allarmare anche l’Albanese, sebbene per ragioni diverse da quelle di Nicoleta.

Quando Antonin tornò, dopo tre notti, dovette far fronte alla curiosità impaziente di Nicoleta, che gli chiedeva di giustificare quel suo comportamento; Antonin le parve turbato, incomprensibilmente taciturno.

“Come mai non ti sei fatto vivo queste sere?”

Antonin si accomodò davanti al fuoco su una cassetta di legno sgangherata e tese una mano per arginare l’impazienza di Nicoleta, ma anche per prepararla alla gravità di quanto aveva da riferirle, la ragazza era turbata e non poté che pensare al peggio. E il peggio, per  lei, era che Antonin le dicesse che non lo avrebbe mai più rivisto, che da quella sera si scordasse di lui, del suo nome e della sua faccia, che i progetti che avevano fatto insieme non erano stati che sogni ad occhi aperti, che la lasciava di nuovo sola nelle mani dell’Albanese; temette che fosse subentrata un’altra, una conosciuta nei suoi giri per i vicoli della Città Vecchia, e dunque non le avrebbe più portato cose calde da bere e dolcetti da dividere con lui. E già Nicoleta vedeva sbiadire i luoghi che avrebbero dovuto vistare insieme, li vedeva dissolversi sullo schermo dell’immaginazione che lui aveva alimentato tutto quel tempo in lei, e si vedeva triste, di nuovo sola e senza più un’anima.

“Una voce mi ha parlato”, esordì solenne Antonin.

Nicoleta fissò Antonin perplessa; parlava sul serio, o quello era solo l’inizio di uno dei suoi discorsi sconclusionati?

“Una voce mi ha parlato e io sono rimasto ad ascoltarla. Mi ha turbato.Tre giorni e tre notti in silenzio, disteso sul letto a ripensare a quello che la voce mi aveva riferito.”

“Mi prendi in giro, è vero che mi prendi in giro?”

Antonin scosse lentamente la testa e pregò Nicoleta di accomodarsi di fronte a lui.

“Non l’avevo mai sentita prima d’ora. Era solenne. Tragica. Si è fissata nella mente come un chiodo che non riesco a togliere… Mi è rimasta dentro e non so.”

“Era di un uomo o di una donna?”
“Non scherzare, non è il momento.”

“Non scherzo, dico sul serio.”

“Non saprei dirlo, e comunque non avrebbe importanza, le sue parole mi hanno turbato, e lo avrebbero fatto comunque, sia se la voce fosse stata di uomo, sia di donna. Ma non ha nessuna importanza.”

“E cosa ti diceva?”

Antonin esitò, guardò a lungo Nicoleta, poi abbassò lo sguardo e fissò i tizzoni che si consumavano nel bidone, emise un lungo sospiro e tornò a fissare Nicoleta.

“Allora?”

“ ‘Quello che verrà sarà dolore’, mi diceva, ‘e sarai tu.’ ”. Antonin si fermò, come se risentisse l’eco di quella voce.

“Sarai tu cosa?”

“ ‘Sarai tu che gli aprirai la porta’, così diceva la voce.”

“Che vuol dire?”

“Non lo capisci?”

“No davvero, non lo capisco.”

Antonin scosse a lungo la testa, si torse le mani, appoggiò i gomiti sulle ginocchia reggendosi la testa.

“Non c’è da sperare niente di buono per il futuro, ecco cosa significa. Forse vuol dire che dobbiamo essere pronti al peggio.”

“D’accordo, ma tu cosa c’entri?”

“Forse la mia condotta è stata notata… è stata notata e non è piaciuta.”

“A chi?”

“A qualcuno molto in alto. Ah, tu non hai idea di quello che ci circonda, non hai idea di quanti occhi e orecchie sono intorno a noi e ci spiano. Vedono tutto”, bisbigliò Antonin, “sentono tutto, sanno tutto.”

“Ma chi diavolo sa tutto?”

“Povera ingenua che sei, ragazza mia. Ci sono cose che non sai, molte cose, cose che non vedi e nemmeno immagini. La voce parlava di dolore che verrà e di porte che si apriranno, dunque è tutto chiaro: è arrivato il momento di rendere conto all’Organizzazione, e nessuno si salverà, nessuno potrà giustificarsi, nessuno potrà dire ‘io non sapevo’, e non servirà nascondersi. Loro sanno tutto, è tutto sotto i loro occhi.”

“Davvero non capisco di cosa parli, e mi fai anche paura.”

“Oh, tu non hai niente da temere, per  ora. In questi giorni ho riflettuto a lungo, ho pensato all’Albanese, a quello che mi ha raccontato di lui, e ho capito. Quando le porte si spalancheranno, sarà lui che porterà dolore, il Professore. Non sarà il liberatore, non sarà l’apportatore di pace e giustizia, non cambierà il mondo: lo sommergerà sotto una colata di dolore. Adesso ho capito che è davvero il Professore il capo dell’Organizzazione, quello di cui parla l’Albanese. Quando le porte si spalancheranno, diceva la voce. L’Albanese non se ne rende conto, ma credo che sia proprio così. Quando si manifesterà non ci sarà scampo per nessuno, l’Albanese non lo sa, non lo ha ancora capito; e sarò proprio io ad aprirgli le porte, ad aprire le porte al Professore. E’ stato come un lampo. Un lampo. E ho capito. Dovrò parlarne all’Albanese.

“Ti consiglio di non provarci, non ti starà ad ascoltare, ha altro per la testa ultimamente. Non fa che lagnarsi che il tempo passa, dice di non avere in mano che un pugno di mosche, e maledice tutto e tutti in continuazione, ti conviene stargli alla larga. Ora devo lasciarti, mi aspettano, ma torno presto, resta qui.”

Nelle notti seguenti Nicoleta dovette faticare molto per distogliere Antonin dai suoi nefasti presagi,

cercò di distrarlo, di rinverdire i progetti momentaneamente oscurati da pensieri più cupi. Nicoleta riuscì con pazienza, con dolcezza ed entusiasmo a far promettere ad Antonin che l’avrebbe condotta con sé alla distilleria Kuntz.

Antonin riuscì di nuovo a sorridere, senza tuttavia potersi liberare del tutto dal velo di amarezza con il quale la voce gli aveva appannato i pensieri; quanto alle uscite ci avrebbe pensato, disse.

Che l’Albanese fosse davvero intrattabile, Antonin dovette sperimentarlo su di sé. Una notte Antonin chiamò l’Albanese in disparte per parlargli della sua idea di condurre Nicoleta alla distilleria, e come suo solito l’Albanese liquidò la questione a modo suo.

“Tu me rotto coglioni, tu pazzo se pensa che io fa portare ragazza con te, se ragazza scappare io nei guai, nella merda, capisce tu questo?”

Antonin dovette supplicare l’Albanese e assicuragli che si sarebbe ritenuto personalmente responsabile, che non doveva temere, che si rendeva benissimo conto dell’importanza che poteva avere anche una persona in più, e lo rassicurò che avrebbe riportato indietro la ragazza sana e salva. L’Albanese si lasciò stranamente convincere ma a malincuore, quando intuì che Nicoleta poteva costituire un vantaggioso tramite tra sé e la distilleria Kuntz, tra sé e quella tale Vanessa di cui Antonin vagheggiava. L’Albanese disse ad Antonin che ci avrebbe pensato, che aveva bisogno di tempo, e intanto prese Nicoleta in disparte, catechizzandola a dovere; sarebbe andata con Antonin, d’accordo, ma doveva fare in modo d avvicinarla, di conoscerla, di sapere tutto su quella tale Vanessa che viveva nella distilleria.

“Per me importante molto, molto, capisce tu?”

In realtà, l’Albanese aveva altri motivi per essere irritato con Antonin, oltre la sua insolita richiesta. Da qualche notte Antonin faceva discorsi più strampalati del solito, per esempio circa quello che, secondo lui, stava per manifestarsi. Antonin aveva cercato di rifilare anche all’Albanese la storia della voce, ma l’Albanese, che non era per nulla incline ad andare dietro non dico ai deliri di Antonin, ma a tutto quanto aveva un sentore di mistero, soprannaturalità, o oscurità non immediatamente decifrabile, aveva trovato l’occasione propizia per vomitare addosso ad Antonin la sua rabbia, la frustrazione e l’umiliazione che Stefan gli aveva inflitto l’ultima volta che si erano incontrati.

“Sto seriamente pensando di toglierti l’incarico”, aveva detto Stefan, “e non  credo sia necessario che il Professore venga a saperlo da me, suppongo sia già informato, questo vuol dire che sei fuori, non servi più, non sappiamo che farcene di uno inaffidabile e incapace come te.”

Nonostante Stefan gli avesse offerto la cena, lo stomaco dell’Albanese si era rattrappito in uno spasmo doloroso che gli aveva procurato nausea.

“Anche stavolta fai il difficile? Non hai toccato niente.”

“Grazie, signor. Grazie, no fame”, aveva risposto l’Albanese.

“Non si sa mai come prendervi, voi pezzenti”, aveva obiettato Stefan. Anche questa volta Stefan aveva lasciato l’Albanese da solo e se ne era andato.

La domenica le ragazze riposavano, perciò l’ultimo sabato di maggio l’Albanese comunicò a Nicoleta e Antonin che l’indomani avevano il permesso di trascorrerlo insieme; con Antonin si era raccomandato di riportargli la ragazza, con Nicoleta di portargli le informazioni che sapeva.

“Tu tranquilla, chiede suo nome ma come se tu amica, tranquilla, e tu vede se bionda.”

Antonin si presentò a casa di Nicoleta con un mazzolino di camomilla selvatica raccolta tra le erbacce della distilleria.

La casa di Nicoleta era in realtà una costruzione cadente di mattoni rossi che ospitava altre cinque ragazze, tutte dell’età di Nicoleta, arrivate in città, nel cuore d’Europa, dai quattro angoli.

Mentre attendeva, Antonin rigirava tra le mani il mazzolino di camomilla che stava lentamente perdendo il suo turgore, in tasca aveva delle caramelle e non vedeva l’ora di veder uscire Nicoleta per regalargliele. Quando Nicoleta si affacciò sulla porta Antonin quasi non la riconobbe. Lui era abituato a vederla pesantemente truccata, con dei vestitini corti che lasciavano le gambe completamente nude e delle maglie scollate sulle quali di solito indossava uno scialle, che immancabilmente l’Albanese le sfilava di dosso; i capelli rossi e crespi erano legati dietro la nuca da un laccetto rosa e indossava dei pantaloni di tela piuttosto ampi e un maglioncino dello stesso colore del laccetto; Nicoleta salutò Antonin con un bacio sulla guancia e lui non fece in tempo a ritrarsi.

“Siamo fortunati”, disse Nicoleta, “ci è capitata una bellissima giornata.”

A quell’ora la città appariva spopolata, i viali della Città Nuova deserti e silenziosi, tranne che per lo scampanio di rare biciclette che si tenevano al centro della carreggiata. Antonin e Nicoleta percorsero i viali frequentati di notte come se li vedessero per la prima volta, di giorno apparivano tetri e spaziosi, la notte parevano tracce in un labirinto inestricabile. Da lontano giunsero i rintocchi del campanone della Cattedrale che segnavano le nove di una mattina di primavera ormai matura. Antonin e Nicoleta si tenevano per mano, e si diressero in direzione dei rintocchi, Nicoleta stringeva in una mano la camomilla selvatica, che al ritorno aveva deciso di conservare in un quadernetto che l’Albanese non era riuscito a confiscarle, perché lo teneva nascosto sotto il materasso, e tirava fuori quando lui non c’era.

“Mi piace che mi tieni per mano.”

“Come un padre con sua figlia” e Antonin guardò Nicoleta che sorrideva.

“E’ lontana la distilleria?”

“Dobbiamo arrivare alla collina del Castello e poi girare a destra.”

“Sei mai stato al Castello?”

“Tante volte.”

“Cosa c’è dentro?”

“I fantasmi del passato.”

“Che vuoi dire?”

“Che è vuoto, con tanti saloni deserti.”

“E la gente ci sale al Castello?”

“Continuamente, vengono da tutte le parti per visitarlo. Poi c’è la Cattedrale, c’è un parco e vecchi vicoli tutto intono al Castello; c’è Via dell’Oro, quello delle botteghe degli alchimisti.”

“Chi erano?”

“Gli alchimisti? Mah, dicevano di essere capaci di trasformare la materia in oro, facevano intrugli, esperimenti per creare quella che chiamavano la pietra filosofale, o l’elisir di lunga vita, insomma l’immortalità.”

“E ci sono riusciti?”

“Sarebbero ancora vivi, che ne dici?”

“Erano degli imbroglioni, allora?”

“Qualcuno, forse, ma non tutti.”

“La conosci bene la città?”

“E’ la mia città.”

Al Ponte dell’Angelo Antonin invitò Nicoleta ad attraversare la strada; costeggiarono la collina del Castello, oltrepassarono le viuzze ai suoi piedi e si diressero verso la distilleria Kuntz; i soliti tre cani li seguirono per un tratto, poi li abbandonarono per tornare sui loro passi.

“E’ grande la distilleria?”

“Lo vedrai da te, e ricorda: è un posto pericoloso.”

“Mi metti paura.”

“Devi fare attenzione a dove vai e a chi incontri, non devi farti ingannare da sorrisi o parole gentili, è un covo di sabotatori, e soprattutto stai alla larga da quelli coi baffi. Poi naturalmente c’è quella… quella che… insomma, hai capito a chi mi riferisco, c’è n’è una sola, perciò!”

Che avrà mai di tanto speciale questa ragazza per essere temuta da Antonin e cercata dall’Albanese, pensò Nicoleta, quando ormai stavano per svoltare l’angolo, ma non ebbe il coraggio di domandarlo; Antonin le indicò la distilleria.

“E’ lì che abito.”

Antonin portò Nicoleta a visitare le rovine della casa padronale, le mostrò il parco di cedri e rare betulle, le additò i posti occupati e i nomi degli occupanti e di ciascuno il grado di pericolosità; omise di menzionare la tana di Leo, al cui ricordo fremeva di rabbia, e davanti a quella del ‘signorino’ si limitò ad accennare che “lì dentro c’è lei”.

Da quando aveva messo piede nella distilleria Nicoleta non aveva fatto che chiedersi chi potesse aver scelto quel posto per viverci, dal momento che perfino la stanza che occupava con le altre, per quanto disadorna e modesta , le appariva meno tetra di quegli ambienti. Dappertutto vedeva rovine, umidità, muffa, erbacce, intonaci che si staccavano dai muri come pelle morta. Fino ad allora Nicoleta aveva conosciuto la distilleria Kuntz dai racconti di Antonin, ma quello che l’immaginazione aveva fabbricato attraverso le parole di lui non prevedeva lo sfacelo e la desolazione, la distilleria le pareva un luogo morto. Nicoleta guardava Antonin con aria afflitta.

“Allora è qui che vivi?”

Antonin non colse nelle parole di Nicoleta la delusione, l’amarezza e la pietà che non aveva il coraggio di dirgli.

“Dov’è la tua casa?”

A quella seguirono altre domeniche. Insieme, Nicoleta e Antonin scalarono la collina del Castello e visitarono la Cattedrale, dall’alto della torre campanaria Nicoleta aveva la città ai suoi piedi, percorsero i vicoli e si fermarono a sedere nel parco. Di solito, dopo le passeggiate trascorrevano il resto della giornata in riva al fiume, dove mangiavano dei panini che Antonin portava sempre con sé.

“Dove li trovi i soldi per questi?”

“Ho amici che mi aiutano”, glissò Antonin.

“Ho sentito dire dall’Albanese che un giorno di questi farà una scappata alla distilleria, è molto arrabbiato perché non sono riuscita ancora a conoscere la ragazza che gli interessa, ma io che ci posso fare, non è colpa mia se non la incontro mai.”

“Lo dice sempre ma non si è mai degnato di venire.”

“Come mai ci tiene tanto a questa ragazza?”

“Pare che c’entri il Professore.”

“Insomma, chi è questo Professore?”

“Credevo di saperlo, ma adesso, dopo la voce.”

Nicoleta preferì non indagare, non aveva voglia di ascoltare una delle tirate di Antonin senza né capo né coda.

“La prossima volta mi piacerebbe mettere un po’ di ordine a casa tua, anziché uscire, che ne pensi?”

“Se ci tieni.”

“E’ molto disordinata e, scusami, anche sporca.”

“Ci sono abituato, e comunque io bado alla pulizia di dentro.”

“Non volevo mica offenderti, era così, solo per sentirmi utile, ma se ti da fastidio…”

“No, non mi da fastidio, fai pure, vuol dire che la prossima domenica si fanno le pulizie di primavera.”

Quando rimise piede nella tana di Antonin, Nicoleta non sapeva proprio da che parte cominciare, così intimò ad Antonin di non starle tra i piedi e lo invitò a farsi un giro nel parco.

“Ti chiamerò quando sarà tutto finito.”

Antonin si allontanò controvoglia in preda ad una sottile apprensione, Nicoleta si guardò intorno e sospirò. Intanto fece spazio, spostò la brandina e le due sedie nell’anticamera del gabbiotto, vi posò sopra un tavolo di assi di abete e svuotò recipienti colmi della cenere dell’inverno appena trascorso; lavò le superfici di vetro del gabbiotto col detersivo che aveva portato con sé da casa, e per l’acqua dovette recarsi qualche fabbricato più in là, presso una fontanella sgangherata dalla quale scorreva acqua in continuazione. Nicoleta dovette fare su e giù diverse volte, con l’acqua che sciabordava in un recipiente di coccio e le bagnava piedi e caviglie; nonostante la distilleria sembrasse deserta, ogni volta Nicoleta sentiva addosso occhi che la spiavano.

Anche Olga, a quell’ora di domenica, si dedicava alle pulizie e al bucato, e dopo aver steso i panni si recò alla fontanella, e di certo non si aspettava di trovare un’estranea; la colse il panico e si precipitò verso casa con un groppo in gola; la assalirono fantasmi minacciosi: Chi era quella sconosciuta? Da dove era spuntata? Come mai non l’aveva notata prima? Con chi era? Chi la mandava? Cosa voleva? E dov’era Leo, adesso che aveva bisogno di lui? Olga rivide d’un tratto gli incroci della Città Nuova, i fuochi, il suo guardiano e l’ultimo cliente dal quale ea scappata la sera che aveva incontrato Viktor. Gli ultimi cinque minuti trascorsi furono i più drammatici della vita di Olga, senza più riferimenti, con un passato riemerso da un fondo melmoso, un futuro senza più contorni e un presente dissolto dalla difficoltà di respirare; poi le passò.

Olga tornò fuori, sulle tracce della sconosciuta, seguendo la scia di acqua che portava dritto alla tana di Antonin, entrò in punta di piedi nel deposito delle vinacce e scorse la sconosciuta che si chinava sul pavimento, restò a spiarla senza che Nicoleta si accorgesse della sua presenza. Quando alla fine Nicoleta scorse Olga, mollò lo straccio e venne fuori dal gabbiotto; si diresse verso il vascone dietro il quale Olga tentava di nascondersi e quando fu a pochi passi si arrestò di colpo. Nicoleta rimase a fissare Olga come se quel volto le evocasse qualcosa di terribile e noto, studiò i suoi occhi, le labbra, il naso, i capelli, il lungo collo, e poi di nuovo gli occhi e il mento, le labbra e le piccole rughe che si erano intanto formate sulla fronte; non riusciva a parlarle, fissava Olga come se chiedesse a lei di farlo. Olga si sentì scrutata, il silenzio prolungato della sconosciuta la faceva sentire colpevole, non riusciva a scacciare l’assurda sensazione che quella ragazza le somigliasse, avesse molto in comune con lei. Quando, alla fine, Olga accennò un sorriso, Nicoleta le si avvicinò.

“Antonin non c’è, credo che sia in giro, mi dispiace se sei venuta qui per lui.”

“Non importa, non ti preoccupare. E’ molto che stai con lui?”

“Con chi, con Antonin? No, no, non è come pensi, ci conosciamo soltanto, ma non chiedermi come ci siamo conosciuti, è una storia complicata.”

“Come Antonin.”

“Sì, Antonin è strano, ma è gentile.”

Nicoleta fissava Olga e Olga aveva la sensazione che lei la stesse studiando, e poi sentiva nella voce della sconosciuta un’ansia strana, come se volesse interrogarla. Non poteva certo immaginare, Olga, che tra lei e la sconosciuta il destino avesse determinato un incrocio scellerato che aveva portato entrambe nella stessa città. Era Olga, infatti, la ragazza che Nicoleta aveva fissato tutto il tempo, in quella baracca di legno alla periferia della città, la notte in cui le fu chiaro che quello che le stavano facendo era solo un inizio. I contorni del volto di Olga  si illuminarono di colpo nella mente di Nicoleta, le ritornarono chiari, come la luna piena in quella notte scellerata, ma questo Olga non poteva sospettarlo.

“Come ti chiami?”, domandò Nicoleta.

“Mi chiamo… Il mio nome è Vanessa. E il tuo?”

“Deborah, cioè, no, non mi chiamo Deborah, il mio vero nome è Nicoleta. Ci stai da molto in questa città?”

“Saranno sei mesi.”

“Lo stesso per me. Anche il tuo nome è falso?”

“Perché me lo chiedi?”

“Perché credo di averti già vista, una notte, in quella baracca, è così?”

“Anche tu?”, disse stupita Olga, e allora le fu chiaro il presentimento.

 

Francesco De Nigris

 

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