Gehenna (Cap. 1)

Se poi infine si volessero mettere sotto gli occhi di ognuno gli orribili dolori e tormenti, a cui la vita di tutti è costantemente esposta, si sarebbe colti da raccapriccio; e se si volesse condurre il più impenitente ottimista per gli ospedali, i lazzaretti e le camere di martirio chirurgiche, per le carceri, le camere di tortura e le stalle degli schiavi, sui campi di battaglia e nei tribunali, e aprirgli poi tutti i tenebrosi alloggi della miseria, dove essa si rincantuccia per sfuggire agli sguardi della fredda curiosità, e fargli gettare uno sguardo a conclusione nella torre della fame di Ugolino; anch’egli finirebbe sicuramente col capire di che specie sia questo meilleur des mondes possibles. Da dov’altro mai ha preso Dante la materia per il suo inferno, se non da questo nostro mondo reale? E tuttavia ne è venuto fuori un inferno in piena regola.

(A. Schopenhauer, da Il mondo come volontà e rappresentazione, BUR CLASSICI)

 

CAPITOLO I

A quell’ora della notte un silenzio severo spadroneggiava per i vicoli della Città Vecchia e i rari passanti erano per Viktor solo ombre che incrociavano il suo cammino. Del resto, Viktor non era che un’ombra tra altre ombre, un viandante, un viaggiatore salito per caso, senza bagagli e senza mèta, sul treno della notte. Qualcuno lo avrebbe detto un barbone, e se si fosse preso la briga di chiedergli perché, Viktor gli avrebbe risposto per allontanarmi dal presente, ma non era mai accaduto in dieci anni, e poi Viktor non amava parlare. La ragazza, invece, era lì come le altre sere, in lingerie tutta fiori e trasparenze, un’aureola di sottili bagliori al neon la avvolgeva e la staccava dalla opprimente presenza della città. A quell’ora della notte, Viktor non temeva contendenti che potessero spartire con lui la disperante bellezza di quel corpo, dimenticava la città e i passanti, le loro espressioni di disgusto, diffidenza, di franca ostilità, con loro non avrebbe condiviso nemmeno la miseria, e allora che lo ignorassero, facessero come se non avesse un volto, né un corpo.

Viktor alzò lo sguardo al tabellone, fissò la ragazza negli occhi e credé di scorgervi un cruccio, una penombra, l’avanguardia della solitudine. Un ghigno gli si disegnò sulle labbra. Pensò che non le bastava più obbligare i passanti a sollevare lo sguardo per ammirarne l’inarrivabile bellezza; che i desideri di quanti incrociavano il suo sguardo corressero alle pieghe del suo corpo perfetto nel facile esercizio di concupirla per poi dimenticarla un attimo dopo. La ragazza sembrava triste.

“Ognuno ha il destino che si merita”, mormorò Viktor, e ritrasse lo sguardo irritato. Lo snervava quell’eccesso di grazia, lo sfibrava l’aura  semidivina che quel corpo emanava.

“Hai voluto farti crocifiggere così in alto… di te resterà soltanto il sorriso di plastica. Le cose cambiano… per tutti, anche per te”, urlò Viktor. “Ti sei fatta triste… cominci a capire qual è il prezzo. Si paga”, mormorò Viktor. E la voce gli si incrinò: “Io non ho ancora finito… Del resto, anche gli dèi sono caduti. Parrebbe che ora tocchi a te.”

Viktor accennò un vago cenno di commiato senza sollevare lo sguardo, e si allontanò.

“Io davo del tu a un dio”, andava dicendo: “Io e i miei fratelli… tutti noi davamo del tu a un dio. Io sapevo quel che facevo: attraverso le mie mani passava la volontà di un dio. Sapevo quel che facevo. Era la volontà di un dio quella che mi muoveva, di un dèmone che mi amava… mi voleva…  mi ha scelto perché attraverso di me passasse la sua voce, mi ha scelto perché prestassi il mio corpo… le mani le braccia i nervi… la mia sostanza all’espressione della sua volontà… Cosa ne sai tu, dimmi”, urlò Viktor rivolto a un passante, che arretrò davanti alla minaccia del suo braccio destro sollevato.

“Questo braccio era quello di un dio… il suo braccio destro.”

Il passante impietrì al cospetto della mole stravagante di Viktor, accresciuta da un cappotto posato sulle spalle come un sinistro mantello; Viktor gli stava di fronte come un simulacro animato da volontà devastatrice, pronto a lanciarsi dal suo piedistallo. Quando però il passante vide Viktor rannicchiarsi fino a toccare terra, quando vide la sua mole raccolta sussultare, allungò una mano senza capire se piangesse o sghignazzasse, senza sapere se rivolgergli un invito o un richiamo, allontanarlo con un calcio come un animale molesto, o lasciarlo perdere. In fondo cos’era, pensò il passante, un barbone, uno dei tanti, per giunta più invelenito, a giudicare da quello che andava blaterando, e lui non poteva star dietro ai deliri di un disgraziato. Ritirò la mano, che un conato di compassione aveva diretto verso il dorso di Viktor, si staccò dal tiglio al quale il terrore lo aveva incollato e senza dir nulla si affrettò verso il marciapiede opposto, dopo essersi riassestato il cappotto e sollevato il bavero.

Viktor si era rialzato e con lo sguardo seguiva il passante, lo vide svanire come una falena oltre la luce smorta di un lampione e rise. Rise forte. La sua voce risuonò come un insulto alla notte e al suo silenzio, come una sfida ai vicoli della Città Vecchia e ai tonfi di passi frettolosi, come un monito per chi dormiva e sognava, o era piegato da un dolore, o tormentato da un’ossessione, come uno sberleffo per quanti non lo conoscevano e ne ignoravano l’esistenza; infine rise di sé, della sua vita storta, del piccolo pugno di cenere al quale s’erano ridotte le ambizioni d’un tempo, e sputò forte contro un dio che non conosceva e del quale voleva  fare a meno.

Si chinò, raccolse da terra la cartella di cuoio dalla quale non si separava mai e la strinse sotto il braccio, si guardò intorno e si sentì appellato da imposte sbarrate e finestre buie dietro le quali indovinava sguardi che lo seguivano e voci che sussurravano il suo nome.

Il viale che Viktor percorreva portava al Ponte delle Spade e legava la Città Vecchia alla collina del Castello, al di là del ponte; da qui si scorgevano i bastioni, la torre della Cattedrale, il profilo illuminato di Vicolo degli Orafi e la mole austera del monastero dei Benedettini, tutti addossati, accalcati in uno spazio conteso nei secoli da principi e prelati. A mano a mano che avanzava, cresceva in Viktor la sensazione che la collina oltre il ponte si allontanasse, che lo sfondo rimpicciolisse in una fuga in avanti e che lo spazio si dilatasse a dismisura e il tempo fosse una gigantesca bolla che lo imprigionava, sicché temette di dover rincorrere il ponte all’infinito come un miraggio che svaniva all’orizzonte. Tese un braccio e socchiuse gli occhi e attraverso le dita gli parve di poter sfiorare le creste dei torrioni, le guglie della Cattedrale che foravano la notte coi loro pinnacoli e sentirne la scabrosità sotto le dita; lasciò scorrere sotto i polpastrelli il profilo illuminato di Vicolo degli Orafi, le case che da qui parevano un orlo frastagliato, un inadeguato contrafforte alla mole sontuosa e cupa del Castello che incombeva. La luce dei lampioni pulsava di bagliori intollerabili e lo scintillio di quei piccoli soli a portata di mano feriva Viktor. Fu allora che un suono nitido, teso come un sibilo gli trafisse la mente, gli squassò i pensieri e si moltiplicò, si scompose in aggregati che gli cozzavano dentro come se reclamassero un senso. Non era la prima volta. Quando  accadeva, Viktor si sentiva braccato, sentiva intorno a sé presenze invisibili, minacciose, invincibili, e cercava di correre, di allontanarsi, come per sottrarsi ad una maledizione, a un sortilegio, ad una congiura che vedeva alleati case, alberi, semafori, passanti, auto in sosta, e perfino i suoi stessi pensieri; si guardava intorno e fiutava l’aria come un animale prossimo al sacrificio. E i pensieri erano assalti di una memoria che si affacciava a tradimento, non invitata, che cercava di ricacciarlo al fondo di un passato al quale credeva di essere scampato e verso il quale non poteva fare a meno di volgersi, incapace di ripercorrerlo, e tuttavia riluttante a lasciar andare; e la memoria si imponeva coll’impalpabile leggerezza del delirio.

“Ce l’hai qualche centesimo, amico”, disse una voce roca  alle sue spalle. Viktor si voltò furente, l’impeto del gesto fece arretrare lo sconosciuto, il suo ghigno lo gelò; Viktor temeva di essere stato seguito, spiato, snidato.

“Non… non ho… niente, non ho niente… niente di cui tu possa fare buon uso.”

Era un vecchio. Tese la mano in un gesto per lui consueto.

“Qualche soldo… qualcosa”, disse il vecchio, e allungò il braccio fin quasi a sfiorare Viktor.

“Di quello che possiedo… non… non sapresti che fare.”

“Non voglio altro… qualche spicciolo”, ribatté il vecchio. “Ho la gola che mi brucia. E’ lì che tieni i soldi?”. E indicò la borsa.

Viktor fremette di rabbia e serrò la cartella al petto.

“Niente… non ho niente, non ho più niente.”

Il vecchio ridacchiò e sputò di lato.

“Non occorre che ti agiti”, disse, e sorrideva. “Da dove diavolo sei saltato fuori… mi sembri matto.”

Viktor era immobile, le braccia serrate intorno alla cartella, il vecchio gli si avvicinò, gli toccò un braccio, Viktor indietreggiò.

“Cos’hai di così prezioso? È lì che nascondi i soldi, dì la verità.” E ridacchiava.

Viktor fissava atterrito il vecchio, fece di no col capo; serrava la cartella tra le braccia, implorava con gli occhi lo sconosciuto e fremeva di rabbia; il vecchio sorrideva e guardava Viktor con feroce soddisfazione.

“Dài, caccia fuori i soldi, andiamo a bere, ti offro una birra, una bella birra scura”. E si leccò la saliva che stava per colargli da un angolo della bocca; “a due passi c’è Il Gallo d’Oro, è ancora aperto e il padrone mi conosce, ti posso presentare, così quando ne avrai voglia ci potrai andare, ti farà entrare senza fare storie… dài, cammina, andiamo.” Afferrò Viktor per un braccio ma questi non si mosse, resisteva piantato sui piedi, rigido, fermo.

“Beh, che cazzo ti prende… andiamo.”

Sul volto di Viktor ricomparve la stessa espressione gelida e spietata che poc’anzi aveva atterrito il vecchio, che indietreggiò di nuovo: qualcosa in quello sguardo gli sfuggiva, sentiva una forza animale, come una furia pronta ad esplodere, e ne ebbe davvero paura.

“Non mi toccare”, sibilò Viktor, e le parole furono per il vecchio una scudisciata; poi Viktor infilò una mano nella tasca dei calzoni e scagliò sul viso del vecchio una manciata di monetine.

“Prendi, se è questo che vuoi… quanto al resto sarebbe per te un peso intollerabile.” Fece per andarsene. Poi si voltò: il vecchio era chino sulle monete e le osservava alla luce d’un lampione.

“La notte è mia, ricordalo”, urlò Viktor: “non farti più vedere a profanarla”, e si riavviò verso il Ponte delle Spade. Teneva la cartella serrata sotto un braccio e la chiudeva con una mano e pareva che avanzasse a tentoni, come un cieco che si tiene aggrappato al tonfo dei suoi passi.

E come un cieco, avrebbe riconosciuto ogni angolo, ogni androne, ogni vicolo che tagliava il viale dalla differente densità, dallo spessore di suono dei passi sul selciato. E fu proprio un suono differente, inatteso e insolito, che lo fece trasalire, come se il buio del vicolo inghiottisse il tonfo dei passi e il silenzio glielo restituisse trasformato in qualcosa d’altro. Si arrestò, rimase in ascolto, temette d’essersi ingannato; dal buio del vicolo alla sua destra, non gli arrivava che un silenzio più denso, e sorrise d’indulgenza. Il silenzio della notte lo conosceva, sapeva a memoria la muta e indecifrabile nenia che gli occupava la mente, insieme allo stridore dei ricordi. No, quella non era la voce del silenzio, non era quello il lamento della notte, non poteva essere la curva che il tonfo dei suoi passi seguiva prima di colpirlo come un rimprovero infinito. Era qualcosa d’altro, un lamento sommesso e incerto, assomigliava a un pianto, ma non  il suo.

Svoltò nel vicolo, afferrò un mugolio come di gattino perso e affamato e lo seguì, davanti ad una nicchia colma di buio si arrestò. Gli ci volle del tempo prima che riuscisse a scorgere in quel buio di pece un fagotto che sussultava e gemeva, quella voce aveva un andamento cullante, il ritmo elementare di una ninnananna.

“Sparisci, cazzo!”

Il fagotto si stava sciogliendo, teneva la testa appoggiata alle ginocchia e tirava su col naso, e parlava una lingua che non era quella di Viktor, ma gli era familiare.

“Posso aiutarti?”, disse Viktor nella lingua del fagotto.

“Va’ all’inferno…”

Era una voce di donna, il suo pianto.

“Posso aiutarti”, ripeté Viktor, scandendo le parole, temendo che gli anni trascorsi dal tempo in cui aveva dovuto servirsi di quella lingua gliela avessero resa incerta, e aggiunse: “Se hai bisogno di qualcosa…”

Dal buio di pece emerse la figura di una giovane donna, alta, magrissima, i lunghi capelli sciolti sulle spalle. La luce d’un lampione a pochi passi rivelò che indossava un pantalone aderente e una camicetta leggera; e al collo un collarino di cuoio dal quale pendeva una croce. La ragazza tremava, e non solo per il freddo: un rivoletto di sangue colava da una narice macchiandole la camicetta.

“Chi sei?”, domandò sospettosa: “e com’è che parli la mia lingua?”

Viktor esitò, accennò un sorriso amaro.

“Non lo so… non so più chi sono… conosco la notte e…”

“Ne ho abbastanza della notte e di quei bastardi…”, s’interruppe la ragazza. “Dove hai imparato la mia lingua?”

“Oh… ho vissuto da quelle parti.”

“E cosa sei, un barbone, un pazzo, un altro figlio di puttana?”

Viktor si accorse della chiazza di sangue sulla camicia della ragazza.

“Cos’è stato?”, chiese indicando il sangue.

“Di notte può succedere… cosa credi… non è niente.”

Viktor aveva estratto un fazzoletto dalla tasca del cappotto.

“Posso tenerlo?”

“Puoi e… se hai bisogno non ti fare scrupolo a domandare, per quello che posso, sono a tua disposizione.”

“Parli come un libro stampato”, replicò la ragazza, “e non trattarmi come una specie di bambola… non me lo merito.”

“Come ti chiami?”

“Il mio nome è… Vanessa.”

“Viktor”.

La ragazza s’era voltata per raccogliere da terra una borsa di tela rigida che mise a tracolla, a giudicare dalla leggerezza più un ornamento, come di chi stia attraversando la notte per svago o per necessità, che il naturale complemento di chi si appresti ad affrontare un viaggio.

“Nemmeno tu sei messo bene. A vederti metti paura, e avresti bisogno di pettinarti… La barba, poi! Cosa ci fai in giro a quest’ora?”

“La notte è la mia casa e il cielo il mio tetto.”

“E questo che vuol dire, mi prendi per il culo? So anch’io cos’è la notte, cosa credi, e non ci vedo tutta questa… poesia.”

“Le stelle su nel cielo mi fanno capolino/ Afferra della notte il suo respiro quieto/ Indossa del silenzio la sua veste leggera/ E va’ senza contare le orme dei tuoi passi’”, declamò Viktor.

“Mi prendi per il culo?”, ripeté urlando la ragazza, dopodiché sorrise. “Ho capito, sei completamente andato… vaffanculo.”

Sorrise anche Viktor, ma si allarmò quando la ragazza si piegò in due tenendosi la pancia, tossendo e sputando, le si avvicinò, la invitò a seguirlo.

“Ti ho detto di lasciarmi perdere, togliti dai piedi, sparisci, hai capito? Non ho bisogno di te, non ho bisogno di niente… non ho bisogno di nessuno… ah, Cristo.”

Viktor non insistette, rimase a fissare la ragazza.

“Lasciami sola”, urlò la ragazza, e poi sottovoce: “Vattene per la tua strada e dimenticami, lasciami perdere… con me ti metti soltanto nei guai… vattene.”

Viktor si arrese a malincuore, aveva gli occhi umidi e non si preoccupò di nasconderlo alla ragazza, che intanto era andata di nuovo a rintanarsi nella nicchia nera di pece senza neanche salutarlo. Si rimise in cammino, ma il filtro acquoso sugli occhi distorceva i contorni dei palazzi e il ponte sembrava un tappeto tremolante sospeso sul nastro scuro del fiume sottostante. Si appoggiò al parapetto del ponte, i riflessi multicolori sull’acqua gli ricordarono fuochi di artificio, quelli dell’infanzia, dei quali aveva sempre avuto un indicibile terrore: aveva sempre temuto che quelle schegge impazzite, che coloravano il fondale della notte di arabeschi fantastici, potessero investirlo e incenerirlo, e poi i boati, amplificati mille volte nella mente, e allora correva a rintanarsi nei luoghi della casa più impensati, pregando che quella pioggia di stelle infuocate che incombeva sulla terra non lo investisse.

Un lieve tocco sulla spalla riportò Viktor al presente, al ponte, allo sciabordio dell’acqua che gli scorreva sotto i piedi. Viktor si voltò di soprassalto e sorrise, come se dalla lontananza del ricordo si fosse materializzata un’immagine familiare, amata, attesa e finalmente tornata da un innaturale esilio; si asciugò le lacrime e rimase a fissare la ragazza senza parlare.

“Non so dove andare, non ho un posto… in questa città di merda non conosco nessuno.”

Viktor allora posò la borsa di cuoio sul parapetto e tese una mano alla ragazza, anche lei allungò la sua e tenne quella di Viktor, la strinse, sentì che finalmente poteva fidarsi, che la mano di quello sconosciuto aveva una forza buona, e sentì che era liscia e morbida, era calda, nonostante la sferza del freddo. Lei non era abituata a strette di mano così disponibili, disarmate, franche, le mani che aveva toccato e che l’avevano toccata erano fredde, nervose, prepotenti e violente, a volte solo impronte senza vita né calore; al buio non sentiva che mani, erano loro che parlavano, dalla loro ruvidezza, dalla consistenza, dal modo febbrile di frugarla si era esercitata ad immaginare i volti che al buio l’avvicinavano, ed era da quelle mani che, alla fine, dipendeva la sua sopravvivenza. Da un paio di mani aveva dovuto difendersi quella notte, ed era scappata a nascondersi nel posto più buio, in questa città buia ma non abbastanza, quando due mani ti rincorrono e non hai fiato nemmeno per un grido, un’invocazione, una preghiera qualsiasi a un dio qualsiasi che non ti conosce, che non sa niente di te e che ignora la tua esistenza. La stretta di mano di Viktor era innocente, le ricordava quella di un bambino, un bambino triste, ferito, che porgeva la mano perché qualcuno gliela tenesse, perché aveva paura, paura di perdersi, di non essere cercato.

“Però devi promettermi di chiamarmi per nome, quando ti rivolgerai a me, hai capito?”, lo avvertì la ragazza puntando un dito verso Viktor, il quale corrugò la fronte e indietreggiò balbettando qualcosa.

“Sto scherzando”, sorrise la ragazza. “Non devi aver paura di me.”

“Ci proverò.”

In realtà, la ragazza intimidiva Viktor e la sua richiesta lo imbarazzava. Non osò domandarle l’età, ma gli sembrava molto giovane, nonostante una ruga profonda le attraversasse la fronte e un alone scuro le incavasse gli occhi. Era di una magrezza allarmante, questo Viktor lo notò, e a dispetto della durezza dietro la quale si barricava, era terrorizzata.

Si affacciarono al parapetto a fissare la corrente, Viktor fu ipnotizzato dai gorghi e dai riflessi sull’acqua, assorbito al punto di dimenticarsi la ragazza. Aveva sempre immaginato che le voci del giorno, quelle che riempivano i vicoli della Città Vecchia, di notte andassero a morire sul fondo del fiume, e che il fondo limaccioso custodisse e celasse le voci e l’anima delle cose; nei riflessi sull’acqua indovinava primitivi abitatori che affioravano, mescolandosi a Ondine ammaliatrici, e che queste li invitassero a seguirle, a unirsi a loro in una danza incessante e  frenetica che andava avanti per la notte intera senza tregua; irresistibile era per Viktor l’impulso di saltare, di unirsi a quegli esseri che indovinava felici, di una felicità barbarica dalla quale si sentiva estromesso. La fissità con la quale Viktor osservava l’acqua incuriosì la ragazza.

“Che guardi?”

“Oh… niente.”

“Cosa c’è nell’acqua? Da che parte hai la testa?”

Viktor farfugliò. Con nessuno, prima di quella notte, avrebbe condiviso i suoi pensieri, ad una domanda diretta si chiudeva in un silenzio ermetico, si barricava all’interno d’un invisibile torrione che lo proteggeva dalla curiosità molesta.

“Ero con i miei fratelli e sorelle.”

“Mi prendi in giro, vero?”

“Li vedi? Sono laggiù che continuano senza di me… andranno avanti tutta la notte, fino a quando la luce del giorno non li spodesterà, allora si rintaneranno sul fondo e aspetteranno di nuovo la notte.

Sono miei fratelli e sorelle, sono gli ultimi dèi… Io davo del tu a un dio con queste mani”. E sollevando il braccio destro: “Questa era la mano di dio.”

“Quand’è così, scusami, non volevo disturbarti, non immaginavo che stessi facendo visita ai parenti”, rise la ragazza, e aggiunse: “mi stai prendendo in giro, non è vero?”

“Sei una dea anche tu, ma non lo sai.”

“Hai ragione, non lo so e non me ne sono accorta, ma se è come dici allora cosa cazzo ci faccio in questa città di merda, perché non sono a casa, al mio villaggio, al caldo? In questa città mi sento persa, non so da che parte andare, non è la mia città, non la conosco… mi sembra una prigione.”

La ragazza fece per cercare conforto tra le braccia di Viktor, ma lui si ritrasse con le braccia tese per evitare che il corpo della ragazza aderisse al suo, quando la ragazza si calmò disse: “Andiamo!” E la ragazza non chiese spiegazioni.

Al di là del ponte c’era la collina del Castello, dai suoi piedi si snodava una fitta rete di viuzze, alcune risalivano la collina, altre la aggiravano sul fianco destro.

“Aspetta” disse la ragazza, e sparì lungo una scaletta che portava al fiume. Viktor pensò che non l’avrebbe più rivisto la ragazza e che sarebbe stato inutile fermarla; del resto era un’ombra come le altre. Non la aspettò, ma attraversò la strada. Si fermò sotto i portici di un antico palazzo – la città ne era piena – si affiancò a una colonna e sedette. Forse torna, pensò Viktor, ed era inquieto, la testa tra le mani: non riusciva a governare i pensieri, ad addomesticare i volti e le voci che gli giungevano da una lontananza ovattata, come se dal fiume salissero insieme alla nebbia che lentamente cominciava ad avvolgere i profili dei palazzi dall’altro lato del ponte. Una voce gli parlò.

‘Venga, la stanno aspettando… vuole avere la bontà di seguirmi…’

La voce lo guidava attraverso un ampio cortile porticato, alte colonne pareva salissero senza fine. Imboccavano uno scalone sfarzosamente illuminato e deserto, la voce lo precedeva; Viktor era certo di non essere mai stato prima in quel posto. Salivano, e la salita pareva non dover avere fine, Viktor aveva perso il conto delle rampe. Quando si guardò indietro, Viktor vide il cortile ormai al fondo di un baratro, inghiottito da un fitto banco di nebbia. Provò a chiedere alla voce che lo precedeva dove fossero diretti ma non ottenne risposta, anzi, gli parve che la voce che fino ad allora lo aveva guidato non lo precedesse più. Viktor si sentì sperduto. Voleva fermarsi, porre fine a quella salita insensata che andava trasformandosi in una pena, ma non ci riusciva; del resto, temeva il baratro che si era lasciato alle spalle.

Saliva e ansimava e temeva di essersi perso.

Finalmente gli giunse un brusio dall’ultimo pianerottolo, accompagnato dalle note d’un violino, una melodia languida che guidò Viktor nel tratto finale. La riconobbe la melodia, sì, la conosceva, suo padre amava strimpellarla su un vecchio violino acquistato da un rigattiere. Ormai esausto, Viktor si arrestò davanti a un corridoio illuminato che si perdeva in una prospettiva interminabile.

Lungo il corridoio c’era gente, tanta gente, e lui era fermo sulla soglia, non aveva alcuna intenzione di percorrerlo, ma la voce, garbatamente: ‘Questa gente è qui per lei, la sta aspettando… aspetta da molto tempo… La prego, si accomodi… è tutta gente che è qui per congratularsi, vada, la prego.’

Viktor si avviò riluttante, quegli sconosciuti lo infastidivano, la loro presenza lo irritava, non aveva mai tollerato dover stringere mani che non conosceva, né ne sopportava i sorrisi, aveva sempre odiato apparire affabile e disinvolto. Cosa cercava questa gente? cosa si aspettava? cosa voleva sentirgli dire? No, non voleva, era ancora in tempo. Ma la voce, ferma: ‘L’aspettano, prego.’

La volta del corridoio era illuminata da sfarzosi lampadari di cristallo. Viktor avanzava cauto, lo sguardo basso, fisso alle geometrie del pavimento; non osava incrociare gli sguardi di quanti, supponeva, lo stessero seguendo. Un afrore penetrante aveva saturato l’ambiente. Viktor detestava quella miscela umida di profumo, sudore e aria consumata che gli rendeva difficoltoso respirare, temeva di svenire; doveva raggiungere quanto prima il salone che adesso scorgeva in fondo al corridoio. Si concentrò sui mosaici del pavimento e sui riflessi di scarpe nere da uomo per non perdere coscienza; le scarpe delle signore erano celate da lunghi orli che sfioravano il pavimento. Il violino aveva smesso di suonare, al suo posto aveva attaccato un pianoforte. Viktor non fece caso a quello che suonavano: gli premeva soltanto uscire al più presto da quella sfarzosa e abbagliante prigione.

Non aveva un camerino, però, venne da pensare a Viktor, la voce non glielo aveva indicato. Allora cos’era questo posto? dov’era? e in quale città si trovava?

Ormai mancava poco al salone.

Ad un tratto Viktor si rese conto che, nonostante la calca, da quei corpi, da tutte quelle labbra non veniva alcun brusio, non un bisbiglio o un colpetto di tosse, né una risata, nulla, allora staccò lo sguardo dal pavimento, lo sollevò, ed era come se quei mille occhi non lo vedessero, quella gente era immobile e silenziosa, come congelata da un bizzarro sortilegio; ma il pianoforte andava avanti e la voce sembrava averlo di nuovo abbandonato.

Il salone era gremito, Viktor riusciva ad avanzare a fatica tra quelle sagome impietrite che aveva paura di sfiorare. Nonostante la fissità, gli sembrava che da quelle labbra si levasse una riprovazione, un ammonimento e la minaccia di un castigo, Viktor sentiva di doversi giustificare, e lo avrebbe fatto se le parole e il respiro non gli si fossero congelati in gola; Viktor sudava. Il pianoforte, intanto, andava avanti, ma i suoni giungevano alle orecchie di Viktor distorti, irriconoscibili, e gli premevano al petto e al ventre come palpiti. Inutile chiamare in soccorso la voce, era solo e doveva avanzare; gli era impedito fermarsi, o immaginare una fuga, e le pareti del salone sembravano chiudersi su Viktor come una tomba. Era il pianoforte a guidarlo, ma Viktor non aveva potuto fare a meno di constatare che chi suonava doveva essere un dilettante; il tocco pesante, legnoso… copiosi gli errori di lettura inanellati senza imbarazzo, molti i passaggi incerti. Sì, doveva proprio trattarsi di un dilettante. L’ultima barriera di corpi stava per essere superata e finalmente Viktor riusciva a scorgere la sagoma del pianista. I capelli, la fronte, la postura perfino, tutto nel pianista ricordava a Viktor un personaggio noto. Fu assalito dall’ansia: il sudore gli inondava la nuca. Portò le mani agli occhi. Non voleva vedere, non poteva essere possibile, non aveva alcun senso, doveva trattarsi di uno scherzo crudele… Il pianista sollevò lo sguardo, lo lasciò vagare, poi si fermò, e si fissò su Viktor. Sembrò riconoscerlo nella calca di spettri e gli inviò un sorriso amaro, una specie di smorfia… e  poi la voce: “Ehi… ehi!”

Viktor sollevò la testa, e rivide la ragazza. Gli teneva una mano sulla spalla. Lo scuoteva. Alla ragazza sembrò che lui non la riconoscesse.

“Sono io… ma che ti succede?”

“Allora… allora sono qui”, balbettò Viktor stringendo al petto la cartella di cuoio: “Eri tu dunque… la tua voce?”

“Chi credevi che fosse? Mi dici che ti succede?”

“Niente… ero… sono stato lontano.”

“Ma se non ti sei mai mosso.”

“Credi che sia necessario?”

“Cosa?”

“Credi che sia necessario muoversi, per essere altrove?”

“Non lo so… non ti capisco.”

“Oh, non importa… La vedi questa mano?”

“La vedo, e allora?”

“Era la mano di un dio.”

La ragazza davvero non capiva, ma notò con quanta forza Viktor stringesse a sé la cartella.

“E lì cosa ci tieni?”, indicando la cartella.

Viktor non rispose subito, abbassò lo sguardo, poi lo rialzò e fissò la ragazza; a lei sembrò che sorridesse.

“Quel che resta della mia vita da dio.”

La ragazza ebbe un moto di irritazione, voltò le spalle a Viktor come se volesse piantarlo lì e andarsene. Davvero non capiva, non sapeva cosa pensare.

“Hai proprio deciso di trattarmi come una… una stupida?”, urlò. La voce della ragazza lacerò la cortina di nebbia che si era alzata dal fiume, andò a infrangersi contro i palazzi sull’altra sponda e ritornò attutita. Pareva che fossero soli, che al di là della nebbia la città fosse svanita. Viktor continuava a tenersi aggrappato alla cartella come se stringesse tra le braccia un bambino.

“Dobbiamo andarcene” disse allora la ragazza. “Presto, dobbiamo fare presto, non possiamo rimanere qui, dobbiamo muoverci… adesso, subito!”, urlò la ragazza, e intanto non smetteva di tenere d’occhio l’altro capo del ponte, ormai avvolto dalla nebbia. Era tornata la paura, che la compagnia di Viktor aveva in parte fugato, era tornata prepotente a ricordarle che non era lì per accompagnare Viktor in quella stravagante passeggiata notturna; che non le importava girare a vuoto, e anche se la presenza dell’uomo poteva averla momentaneamente rincuorata, non aveva dimenticato perché adesso era lì, perché aveva dovuto nascondersi e da cosa stava scappando, anche se questo a lui non lo avrebbe rivelato.

“Dài, andiamo, muoviamoci… andiamo via da qui, ho un presentimento.”

Viktor non disse nulla. Si rialzò. Camminare era per lui una consuetudine che non aveva bisogno di essere incoraggiata. Il campanone della Cattedrale batté le quattro. Viktor indicò alla ragazza la strada.

La ragazza, che aveva detto di chiamarsi Vanessa, precedeva Viktor di qualche passo, voltandosi di continuo e sollecitandolo a fare presto.

“Non puoi andare più veloce?”, disse a Viktor, che procedeva con la consueta andatura dondolante, pigra, costeggiando il parapetto del lungofiume e sfiorando con le dita i poderosi tronchi dei platani distanziati con regolarità lungo il marciapiede. Vanessa non si era nemmeno chiesta dove fossero diretti, non le importava e non lo chiese, quello che per lei contava era allontanarsi in fretta e il più possibile dal quartiere, non riusciva a pensare ad altro. Perciò quando Viktor le si rivolse, lei non lo stava ad ascoltare. E poi non era facile star dietro a uno come lui, non sapevi mai di cosa parlasse, né se si stesse rivolgendo a te o a chissà chi altro nella sua memoria; doveva essere uno svitato, questo Vanessa cominciava a comprenderlo, uno spostato che quando parlava con te pareva che ce l’avesse con un altro. Ma per ora le stava bene così, in fondo questo Viktor sembrava innocuo, per ora.

La ragazza camminava tre passi avanti a Viktor e lo sentiva borbottare, ne sentiva il passo pesante, il frusciare del cappotto, e il picchiettio delle sue dita sui tronchi. Doveva proprio essere annacquato, pensava Vanessa. Non aveva fatto altro che parlare di mani e ripetere che erano quelle di un dio; e poi questa mania di battere sui tronchi la snervava. Sì, doveva proprio essere fuori di testa; ma di lui non aveva paura. E poi beato lui, che diceva di essere stato un dio, lei, al contrario, si sentiva una merda, questo era quello che tutti si erano dati da fare per ficcarle in testa da quando era arrivata in questa città e allora, pensava, meglio lui che dice di sentirsi un dio e non quegli altri, che con lei si erano comportati come padreterni e che pensavano di avere su di lei, sul suo corpo tutti i diritti, quello di umiliarlo, di sporcarlo, e senza nemmeno chiederle il permesso.

Vanessa si voltò. Viktor andava svolgendo un suo ragionamento, come se conversasse pacatamente con un passante.

“Per piacere… più in fretta.”

Viktor continuava a camminare col passo regolare di sempre, ma ad un tratto si fermò, si appoggiò al parapetto del lungofiume e rimase a fissare in basso.

“Ascolta.”

“Cosa?”

“Non la senti?”

“Cosa dovrei sentire, cosa, maledizione… andiamo”, implorò la ragazza. “Non ti fermare.”

“Come fai a non sentirla?”

“Dimmi almeno cosa dovrei sentire, cazzo.”

“Questa voce.” E Viktor s’immobilizzò tendendo l’orecchio: “questa è la voce che le contiene tutte, la voce del fiume… puoi sentirlo solo di notte, quando le altre tacciono… Lo sai perché tacciono?”

“Non lo so e non me ne importa niente. Lo capisci che dobbiamo allontanarci, che devo…”

“Il fiume le porta con sé… porta tutto con sé… Quante parole… Parole gettate via… senza pudore, senza rimpianto, senza misura… Parole che feriscono, che lusingano, che mentono, che implorano, che ricattano, parole che fingono felicità… parole che provano a dire il dolore, ma non ne sono capaci… Parole dette e subito dimenticate… Ma le parole non muoiono, no, e sai perché? Perché il fiume le raccoglie e le porta con sé, le porta lontano, in un posto dove incontrano altre parole portate da altri fiumi, e tutte insieme si uniscono, si raccolgono per significare un mondo diverso, di parole e idee che non muoiono ma tornano da dove sono arrivate, nella mente del dio che le ha create… Oh, sono fragili le parole, sono leggere, senza sostanza: suoni, musica, melodia, e la musica è il respiro di dio.”

Vanessa avrebbe voluto urlare, scuotere Viktor, colpirlo, ma quando Viktor aveva cominciato a parlare lei era rimasta incantata; non aveva badato a ciò che Viktor diceva, tanto erano comunque le parole di uno svitato. No, si era lasciata ammaliare dal suono della sua voce, l’aveva sentita come una carezza in grado di farle dimenticare perché era lì a quell’ora di notte, e allora non aveva più messo fretta a Viktor, nemmeno lo aveva colpito, ma si era lasciata avvolgere dal velo di quella voce. Vanessa si avvicinò a Viktor, gli pose una mano sul braccio e strinse, sotto il tessuto ruvido sentì il turgore di un braccio muscoloso, forte e teso. Viktor trasalì. Ritrasse il braccio e fissò la ragazza come chi teme quel che non comprende. Vanessa sorrise del suo sgomento, sorrise e continuò a tenere il braccio di Viktor come se tra loro, ormai, ci fosse una lunga consuetudine; allora Viktor indietreggiò, sottraendo il braccio alla presa amichevole della ragazza.

“No, non farlo.”

“Come vuoi.”

Vanessa smise di sorridere, s’era sbagliata a credere d’aver finalmente trovato uno su cui contare, pensò, uno che la proteggesse davvero. Temette, allora, che la bizzarria di quell’uomo, la sua instabilità le avrebbe creato altri guai e che forse aveva fatto male a seguirlo, che avrebbe anzi fatto meglio a mollarlo subito, qui, adesso e senza tante storie né spiegazioni. Ma dove andava, altrimenti? Vanessa si guardò intorno, allungò lo sguardo al di là del fiume, all’inferno al quale le sembrava di essere scampata, poi fissò Viktor: non doveva essere l’angelo che aveva creduto di trovare. Il campanone della Cattedrale batté le cinque e i rintocchi le parvero una risata sguaiata e feroce. Vanessa piangeva. Viktor la sentiva; avrebbe voluto consolarla, sorriderle, tenerle la mano, ma non osava, non ci riusciva. Rimase immobile.

“Ancora un po’ e siamo a casa.”

Vanessa guardò Viktor negli occhi senza parlare. Del resto, come avrebbe potuto fargli capire che aveva bisogno di stringersi al suo corpo possente? Come chiedergli di non abbandonarla in questa città che odiava, che le era ostile? Come spiegargli che aveva paura, molta paura, e che non riusciva a immaginare che ne sarebbe stato di lei? Avrebbe voluto dire a quest’uomo che si sentiva perduta e che mai e poi mai sarebbe tornata indietro: non era quello che voleva, non avrebbe riattraversato il ponte per rimettersi nelle mani di chi l’aveva venduta già una volta, no, non era quello che voleva.

“Facciamo presto”, riuscì a dire soltanto, con rassegnazione, Vanessa.

Percorsero il tratto di lungofiume tra il Ponte delle Spade e il Ponte dell’Angelo senza parlare, senza guardarsi, solo che adesso Viktor e Vanessa procedevano appaiati, lui rasente il parapetto, lei che sfiorava i platani. Sulle facciate dei palazzi adesso spiccava qualche rara finestra illuminata e al di là del fiume si percepiva un indistinto brusio metallico e ovattato dal quale a tratti emergeva il rombo di un motore o il cigolare di una bicicletta. A Vanessa sembrò perfino di percepire il tonfo smorzato di passi che percorrevano il lungofiume opposto. Nei pressi del Ponte dell’Angelo, Viktor invitò con un gesto Vanessa ad attraversare la strada. Si infilarono in un dedalo di viuzze anguste e buie che si allargava ai piedi della collina del Castello, sul fianco destro: da qui si staccavano sentieri in terra battuta che portavano in alto, mentre la stradina che stavano percorrendo tagliava a metà l’intrico e sbucava oltre la collina, in un quartiere di periferia distante dalla Città Vecchia. Le ampie strade ancora deserte erano percorse da cani solitari, che alla vista dei due fuggivano, o esitavano e azzardavano un timido approccio e poi si allontanavano; uno li seguì per un pezzo di strada senza convinzione, poi li abbandonò e riprese la sua strada. Viktor e Vanessa percorsero cinque isolati di palazzoni uniformi, grigi, squadrati e tozzi, triste eredità del regime che li aveva concepiti e che si era estinto da non molti anni, con le stesse sei betulle disposte in ordine su una striscia di terra antistante l’ingresso, in una prospettiva annullata dalla prevedibile serialità di incroci alberi e costruzioni. Viktor procedeva a capo chino, Vanessa, invece, che percorreva quelle strade per la prima volta, aveva la sgradevole sensazione di ritrovarsi ad ogni isolato all’inizio di una prospettiva senza fine. Solo quando Viktor la precedette svoltando a destra, le apparve uno slargo dai confini incerti segnati dalla falsa luce dell’aurora, che lì pareva ancora più incerta, e dalla luce gialla di rari lampioni che ne tracciavano il perimetro; lì, la geometria degli isolati si frantumava.

“Siamo arrivati.”

“Dove siamo?”

Costeggiarono un muro di mattoni sovrastato da resti di un’inferriata, aggirandola verso sinistra, in più punti il muro era sbrecciato o crollato, dall’esterno Vanessa non riusciva a scorgere che buio e profili incerti di costruzioni addossate le une alle altre.

“Stammi dietro”, la esortò Viktor.

A mano a mano che si inoltravano lungo un camminamento infestato da erbacce tra le quali Viktor si muoveva a suo agio, Vanessa riusciva a distinguere sagome di costruzioni allineate sui lati e sul fondo, alcune molto alte e lunghe, altre parevano torri, altre ancora disposte a formare un agglomerato di case basse, un piccolo quartiere sovrastato da un’opprimente corona di padiglioni. Viktor si fermò davanti a una di quelle casette, una sorta di guardiola affiancata da quella che pareva una ciminiera o un faro.

“Aspetta.”

Vanessa rimase sola, dopo che Viktor entrò nella guardiola. Nel silenzio che avvolgeva quel posto, la ragazza riusciva a distinguere fruscii, crepitii, un tramestio soffocato che proveniva dal basso, dall’erba alta che assediava la guardiola. Viktor tornò.

“Avvicinati.”

Vanessa fece due passi alla cieca in direzione della voce di Viktor e quando gli fu vicino disse:

“Ma dove siamo?”

“A casa.”

All’improvviso il volto di Viktor si illuminò, investito dal  breve sfolgorio di un fiammifero; la ragazza aveva sentito uno sfrigolio, e prima ancora che la fiammella si animasse aveva sentito odore di zolfo.

 

Francesco De Nigris

 

4 Commenti

  1. L’inizio è promettente, mi piacciono molto le descrizioni, mi piacerebbe vedere come evolverà la storia 🙂

  2. Sono due personaggi davvero molto particolari, mi sono già fatta un’idea su di loro, chissà se ho ragione. Sicuramente sarà interessante scoprire cosa c’è nella busta! Le descrizioni sono davvero belle, anche a me ha incantato la parte in cui Viktor parla delle voci nell’acqua. Grazie per questo racconto!

  3. Davvero molto interessante! Mi ha incantata leggere la parte delle voci del fiume! Non vedo l’ ora di leggere il seguito!

  4. questo racconto è stupendo! Mi sono piaciuti molto i personaggi, le descrizioni, le atmosfere e il modo di parlare del protagonista. Non vedo l’ora di sapere il seguito, alla fine si è creata una bellissima suspance!grazie!


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