Bloodshed (Cap. 11)

CAPITOLO 11

 

Tutti hanno paura di qualcosa. Cos’è che spaventa me?

 Non i ragni, o il buio, o la perdita…la perdita

…o la morte, persino. Ma i sogni.

Bruce Wayne – Batman

 

Due mesi dopo.

La casa è buia, troppo, anche se dalla strada arriva il luccichio dei lampioni. Il buio lo sente sopratutto dentro.

Aveva dormito o sognato. Non vuole saperlo, deve rilassarsi.

Gli hanno detto di comportarsi normalmente e in un modo o in un altro ci prova. In realtà è dall’inizio di quella assurda faccenda che cerca di farlo. Inutilmente. Da quando la polizia ha disperso con la forza gli ultimi irriducibili manifestanti sembra più facile. Ma non è così.

Si sente privo di qualcosa che non sa definire bene.

Il suo ego. Probabile.

Essere il centro delle attenzioni di molti non è poi così stressante, specie con un lavoro come il suo, in cui il giudizio degli altri conta. Nel bene e nel male. Già, ammette, peccato che ultimamente c’è stato molto più male che bene. I giornali e le tv, tuttavia, hanno dovuto arrendersi per mancanza di informazioni dedicandosi ad altro.

La macchina della disinformazione stava funzionando e si chiede in quel momento perché non fosse stato fatto prima. Prima della gogna.

C’era anche da ammettere che gli omicidi erano cessati. Ma era davvero così? Il dubbio che anche nei suoi confronti fosse iniziata una disinformazione mirata non gli sembra tanto illogico.

Il piano dei due gemelli, pensa Carlo, sta funzionando.

Tutto passa attraverso le loro trame e per un attimo si chiede se non debba temerli invece che fidarsi.

“Assurdo” borbotta.

Si fida. Ormai non ha scelta, bisogna aspettare. Nessun poliziotto sotto casa, nessuno fuori la sua porta, tutto come prima, come se nulla fosse accaduto. Diego gli fa visita con regolarità per tenerlo informato sugli sviluppi, ma non sempre le sue notizie sono confortanti.

È trascorso troppo tempo. Dopo la conferenza stampa c’è stato un ultimo, roboante clamore intorno alla sua persona, poi Cerbero era stato messo da parte. Resa incondizionata, nessun armistizio. Niente più disegni da pubblicare o libri da aggiornare. Il suo nome è scomparso poco per volta dai social network, pagine internet dedicate, articoli di giornali e servizi televisivi.

Bisogna solo aspettare, perché mentre il mondo lo cancella, gli occhi vigili e protettivi della giustizia continuano a vegliare su di lui.

Carlo si guarda sempre intorno con curiosità ogni volta che quel pensiero si presenta. Immagina dispositivi ultra sofisticati installati nei punti più improbabili della propria abitazione e la sua sagoma tridimensionale che danza sugli schermi di centinaia di monitor da qualche parte nei dintorni, magari nell’appartamento di fronte.

Non lo ha mai chiesto, in verità. Non lo ha mai voluto sapere, perché la certezza che la sua vita fosse diventata come quella di un protagonista di un reality show lo manda in bestia.

Era la parte più difficile del piano.

Nelle remote certezze che coltiva nella speranza di una soluzione definitiva si rivede riabilitato all’opinione pubblica, di nuovo padrone della sua vita e dell’arte che ama. Tuttavia, il pensiero di essere oggetto di uno studio minuzioso al pari di una cavia da laboratorio lo fa sentire violato. Abusato.

“Come un uomo che sconta pene per reati che non ha commesso” sentenzia a voce alta e con un tono di sfida.

Il pensiero al vecchio compagno di liceo è automatico. Finché non si fosse raggiunta una conclusione nel suo caso, l’altro restava in carcere.

Nessuno gli aveva ancora detto se c’erano i presupposti per riabilitare anche lui. Lo avrebbero fatto? Nell’ipotesi che fosse stato manipolato anche lui da Nadia, poteva un uomo a cui era stato affibbiata l’etichetta di spietato serial killer tornare a una vita normale?

Nadia. Riportarla alla mente gli procura altra rabbia. Come era prevedibile era scomparsa senza lasciare traccia. Frustrato, Carlo si ritrova tuttavia a considerare il proprio stato d’animo lontano dalla preoccupazione vera. Dopo due mesi di falsa normalità era arrivato alla conclusione di non provare nessun sentimento per se stesso o verso gli altri attori della storia di cui era protagonista.

Vittime o carnefici sullo stesso piano.

Cerbero sorride del suo cinismo seduto al buio, sicuro che fosse parte integrante del proprio essere. Era ciò che lo aveva reso famoso dopo tutto. Il migliore nel suo campo. Con orgoglio guarda la finestra della cucina e si consola del chiarore dei fari delle automobili che passano e che gli mostrano una vitalità inaspettata.

Il cd di musica classica è appena finito e non lo ha cambiato.

C’era solo da aspettare.

“Se bussa” dice sorridendo, “Non devi dargli il permesso di entrare, perché è così che si tengono fuori i vampiri”.

Si interrompe ricordando la foto che Teo gli aveva mostrato.

“Ricordi l’uomo della festa?” gli aveva detto qualche settimana prima Diego, “Il falso giornalista”.

“Certo” aveva risposto lui.

Con un cenno della testa l’amico avvocato aveva chiesto al fratello che era presente di mostrargli la foto.

“Sì” aveva aggiunto lui guardandola, “Era con Nadia. Mi ricordo di non averla riconosciuta subito”.

“La foto non è della tua festa, ma della convention di Vienna”.

Carlo aveva fissato Teo con stupore.

“Esatto, pare che questi due si conoscano molto bene, ma come per Nadia è difficile risalire alla sua vera identità”.

“A questo punto anche l’Interpol sta vagliando la mia ipotesi” aveva detto Diego, “Forse Norton è stato usato come te”.

“E Bloodshed” sussurra tornando da quel ricordo, “Con lui sembra sempre che non ci siano sconti”.

Ci teneva veramente? In cuor suo Carlo sa che deve a lui quanto a Norton gran parte della notorietà. In modo diverso, entrambi lo avevano indirizzato verso la propria natura.

Si alza dal divano e accende la luce.

L’appartamento è sempre spoglio, privo dell’ordine confuso di scatole e disegni sparsi a cui era abituato. Anche il tavolo da disegno non c’è più. Lo ha venduto a uno studente di Architettura. Fa parte del piano.

Il ragazzo si sarebbe vantato, la voce si sarebbe sparsa.

Cerbero aveva cessato di esistere.

Scuote la testa e un po’ di rabbia fa breccia nella sua apatia.

Hanno vinto, non disegna più. Per ora, si ripete, per ora.

Diego gli farà sapere a breve se lo accetteranno come decoratore in una società che si occupa di parati e decorazioni. L’amico si era fatto in quattro per trovargli un lavoro decente. Anche quello rientra nel piano.

Gli è grato nonostante tutto, perché due mesi senza far niente era stata dura. Forse un giorno sarebbe tornato un nuovo Cerbero.

Sorride. Avrebbe più usato il suo nick?

Un sms lo richiama al tavolo della cucina.

“Ho preso le pizze” legge, “Arriveranno prima loro o io? Diego”.

Pizze, non male come idea. Si chiede se gli uomini invisibili che lo sorvegliano controllano anche quello, il suo cibo.

Magari invece che provarlo a ucciderlo tenteranno di avvelenarlo.

“No” risponde a se stesso, “Lo stile è un altro”.

Va al frigo e si prende un bicchiere d’acqua. Decide di aspettare Diego e le pizze guardando la tv, qualsiasi cosa. Sta per accenderla quando bussano alla porta. Carlo va all’ingresso, guarda dallo spioncino e con un sorriso apre la porta.

“Ciao capo è un po’ che non ci si vede, eh?”.

“Marco! Entra, entra” fa Carlo stringendogli la mano libera.

Il ragazzo poggia le pizze sul tavolo della cucina e si guarda attorno.

“Me lo immaginavo diverso questo posto, sai?”.

Carlo lo fissa per un attimo interdetto.

“Che ho detto?”.

“Scusa, niente, mi sono perso per un attimo”.

“Il lavoro, eh?”.

“Sono successe un bel po’ di cose ultimamente”.

“Lo so” ribatte Marco serio, “Ma tu li stai fregando, giusto?”.

“Che vuoi dire?”.

“La storia di rinunciare a disegnare è una montatura. Non puoi mollare veramente. Abbiamo bisogno di te”.

“È bello sentirtelo dire” commenta Carlo con un sorriso, “Ma è vero”.

Marco lo fissa senza replicare.

“Che mi racconti?” chiede Carlo, “Lavori sempre nello stesso posto?”.

“Quando hanno ordinato le pizze e hanno detto di portarle a questo civico non ci credevo. È da quando lavoravi all’Astral che sapevo dove abitavi, ma non hai mai ordinato a casa, vero?”.

“Infatti. Saresti stato comunque il benvenuto, non fosse altro per tutti i fumetti che ti ho dovuto firmare”.

Carlo cerca di stemperare la tensione che sente nell’aria. Marco non ha preso bene la notizia della sua rinuncia a disegnare. Glielo si legge in faccia. E lo capisce. Da che ricordi può a ragion veduta definirlo uno dei suoi fan più accaniti. Ma deve capire. Capirà.

In quel momento la delusione che gli legge in faccia lo sprona a pensieri positivi. Finirà. Questa faccenda finirà e tu e gli altri che così tanto mi sostenete riavrete Cerbero. È una promessa.

“A dire il vero non proprio tutti”.

“Cosa?”.

“Ti perdi facilmente, eh?”.

“Scusami è questa situazione del cavolo. Ma ti garantisco che finirà. Troveremo una soluzione”.

“Ci contavo” commenta Marco con un sorriso forzato, “Comunque mi riferivo ai fumetti. Non mi hai firmato tutti i fumetti che possiedo”.

“Me lo sarei dovuto aspettare. Scommetto che in quello zaino che hai sulle spalle c’è qualcosa che vuoi mostrarmi”.

Sorridendo, il ragazzo tira fuori i fumetti da fargli firmare.

“Quindi riprenderai a disegnare, giusto?”.

Carlo lo fissa per un attimo, poi riporta l’attenzione ai fumetti.

“No, Marco, quella parte della mia vita è conclusa”.

“Sono un tuo fan. Non dovresti dirmi queste cose”.

Non può dirgli la verità. Non può dirgli ciò che spera e che ha promesso più a se stesso che a lui o ad altri sostenitori, non può…

“Queste cose?”.

Carlo alza la testa e lo guarda. Marco lo fissa senza parlare.

Gli ha fatto ricordare qualcosa. La sua mente abile a rintracciare ricordi anche confusi lo riporta a un evento chiaro e fin troppo reale. La sua festa, il falso giornalista. Gli aveva  detto le stesse identiche parole. Fissando meglio Marco cerca di immaginarselo con la barba e gli occhiali. Se era un falso giornalista, gli suggerisce una voce, poteva essere camuffato. Quel volto, tuttavia, lo stesso, compare anche a Vienna. Se usi un travestimento che funziona…

“Hai particolarmente fame stasera?”.

“Perché?” chiede lui sulla difensiva.

“Due pizze”.

“Aspetto un amico”.

Marco alza le spalle senza replicare.

Carlo torna a fissare i fumetti, ma è perso nelle sue congetture.

Marco è un ragazzo, solo un ragazzo, a meno che non camuffi bene la propria età. Era davvero l’uomo con una finta barba e gli occhiali?

Ricorda la sua voce gli suggerisce la propria voce interiore, ma non ci riesce. Possibile che la polizia non se ne sia accorta?

In quel momento Carlo registra con la coda dell’occhio un nuovo movimento da parte del ragazzo e alza nuovamente la testa.

Tra le sue mani c’è il ciondolo di Norton.

“Che c’è?” gli chiede Marco.

“Quello dove lo hai preso?”.

“Lo hai perso di nuovo, non è vero?”.

“Lei. Lei me lo ha consegnato, ma poi se l’è ripreso”.

“Parli dell’originale. Questo l’ho fatto rifare apposta. Vedo che non indossi nemmeno la tua copia. Come fai a disegnare senza?”.

“Chi sei tu?”.

“Davvero me lo chiedi?”.

Carlo non risponde.

“Non capisco” dice alzandosi lentamente dalla sedia e lasciando cadere i fumetti a terra, “Che cosa volete da me?”.

“Ho imparato a entrare nei sogni da nostra madre, sai?”.

“Nostra madre?”.

“Smettila di fare l’idiota! Sai bene che Nadia è nostra madre!”.

Carlo indietreggia mentre la paura comincia a raggelarlo. Dove sono i poliziotti? Dovrebbero intervenire a questo punto. Deve farlo forse parlare, confessare? Cazzo, pensa, queste stronzate funzionano nei film, non nella vita reale!

“Cosa vuoi da me?”.

“Ancora domande stupide?” chiede stizzito Marco facendosi sotto, “Cerchi di farmi parlare il più possibile perché i tuoi amici arrivino qui e mi prendano?” aggiunge cominciando a ridere.

Carlo si blocca. Il viso che ha di fronte è la follia in carne e ossa. Conosce quel ragazzo da tanto tempo, come era possibile che né lui ne altri si fossero accorti della sua pericolosità?

Marco lo afferra improvvisamente per il bavero sollevandolo. Solo in quel momento Carlo può vedere che indossa un ciondolo anche lui. Lo stesso identico ciondolo di Norton. Come in una rivelazione mistica il fumettista crede di aver finalmente trovato un nesso logico in quell’assurda faccenda. Il ciondolo serve a manipolare la persone. La tossina induce le persone ad agire in determinati modi.

Nadia. È Nadia a gestire quell’inquietante attività.

“Ma perché?” urla in faccia la suo aggressore, “Perché?”.

Gli occhi di Marco sono iniettati di sangue.

“Finisci la tua storia, fratello” sibila, “Disegna per me”.

“Tu sei pazzo!” replica Carlo.

“No!” gli urla in faccia il ragazzo, “Sono la vendetta! Siamo tutti vittime prima di diventare carnefici. Tu lo sai quanto me. Prestami la tua arte affinché gli ingiusti vengano puniti”.

“Di che diavolo parli?”.

Marco ricomincia a ridere tenendolo stretto e non risponde.

Carlo, ormai paralizzato, non reagisce e l’unico suo pensiero razionale va a Teo e la polizia che lo teneva sotto osservazione.

Arrivano, stanno arrivando ripete tra se come un mantra.

Marco smette di ridere all’improvviso, gli apre la mano destra e con forza gli riconsegna il ciondolo.

“Il ciclo si è spezzato” dice, “Continua il tuo lavoro o ti uccido”.

La faccia che gli sorride di nuovo è malvagia come solo lui ha potuto immaginarla per un fumetto, poi, in un attimo, è fuori dal suo campo visivo, fuori dal suo appartamento.

“Sogna” dice la voce di Marco dal pianerottolo, “Ci rincontreremo li”.

Pochi istanti dopo le sirene della polizia scuotono il suo torpore. Ansioso, si precipita alla finestra della cucina.

“Presto” mormora con voce rabbiosa.

La porta del suo appartamento è ancora aperta e gli sembra di sentire Marco per le scale, spalanca allora la finestra e urla a Teo che vede uscire dalla sua auto: “È qui, presto! Muovetevi!”.

Vede i poliziotti precipitarsi nell’androne. Il suo palazzo non ha altre uscite, lo prenderanno, ma quando si volta di nuovo verso l’ingresso è Teo che vede irrompere con due poliziotti alle calcagna.

“Lo avete mancato!” urla.

Teo lascia uno dei poliziotti con lui e si precipita di nuovo per le scale dove si ode un trambusto assordante. Carlo sente urla, forse spari, non è sicuro. Le voci che si accavallano sono quelle degli altri condomini usciti dai propri appartamenti. Voci concitate, rumori di finestre che si aprono e porte che si chiudono. Luci che si accendono, sirene.

“Tranquillo” dice il poliziotto che è rimasto, “Lo prenderanno”.

Carlo si avvicina piano alla finestra della cucina e vede altre volanti arrivare. Circondano il palazzo, forse l’intero quartiere, ma la sensazione che prova in quel momento è di sconfitta.

“Non servirà” mormora.

Apre la mano in cui stringe il ciondolo di Norton e lo fissa con occhi spenti. Si sarebbero rincontrati nei suoi sogni? La tossina stava entrando in circolo dalla sua mano in quel momento?

“Non si preoccupi” ripete il poliziotto alle sue spalle.

Carlo sorride amaramente e si mette il ciondolo al collo.

“Certo” dice al poliziotto, “Chi si preoccupa”.

 

Raffaele Scotti

 

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