Bloodshed (Cap. 13)

CAPITOLO 13

 

C’è chi dice che la vita di tutti è soltanto un sogno.

Dylan Dog

 

La donna attraversa il metaldetector e riprende le proprie cose. Sorride alla guardia che non nasconde il disprezzo nei suoi confronti.

La sua presenza era stata annunciata da giorni, quando il direttore aveva autorizzato la visita dopo il clamore mediatico che aveva coinvolto l’intero istituto penitenziario. L’avevano fatta entrare da un ingresso secondario, camuffata e con una settimana di anticipo rispetto alle notizie diffuse tra stampa e tv. Il suo volto lo avrebbero visto in pochi e solo coloro che l’avrebbero assistita nel giorno di visita.

Tra i dipendenti dell’istituto di correzione erano in molti a fantasticare sul suo conto, inventando storie che avrebbero venduto a una stampa troppo avida di pettegolezzi. Molti di loro non avrebbero nemmeno avuto la possibilità di vedere i filmati della sicurezza inventando così dal nulla particolari che avrebbero depistato qualsiasi indagine seria.

Compresa quella che pochi mesi dopo avrebbe visto nuovamente protagonista l’uomo che era stato definito il più spietato serial killer della storia nera d’Italia.

 

 

La procedura era stata importata dall’estero alcuni anni prima, ma  poche volte era stata impiegata in Italia. Gli istituti penitenziari europei non l’applicavano, ma la politica del recupero dei condannati al carcere duro era oggetto di sempre più politici a caccia di voti.

Con l’eterno problema del sovraffollamento, le condizioni igienico sanitarie non al meglio, la mancanza di strutture adeguate, i carceri italiani erano fonte di continue dispute. I flussi di immigranti irregolari non avevano migliorato la situazione e tra fermi temporanei, terroristi in erba e la comune criminalità c’era chi aveva pensato a delocalizzare il sistema carcerario e ad aumentare le possibilità di reintegro dei condannati nella società civile.

Tra le varie iniziative c’erano quelle di poter intrattenere un rapporto epistolare con diversi tipi di criminali, assassini compresi, nella flebile speranza di poter redimere anime che per molti erano già perse.

Non essendoci la pena capitale in Italia, l’eventualità che un pluriomicida diventasse un arguto sostenitore del mens sana in corpore sano stimolava i più fantasiosi sostenitori della politica del perdono e del recupero dei criminali ipotizzando, dopo un’attenta analisi, un suo reinserimento anche parziale nella cosiddetta vita normale.

Dopo anni di discussione in parlamenti eterogenei con governi che si succedevano con colori diversi erano arrivate le prime bozze di legge, quindi consulte, tavoli di esperti, referendum popolari, infine la legge vera e propria. Oltre alle rare visite di parenti stretti, il criminale medio poteva mantenere un contatto con il mondo con semplici quotidiani, rare sortite davanti a una tv o addirittura ascoltare radio.

Poi ci furono le mail.

L’uso di penna e carta fu vietato per motivi di sicurezza, ma nessuno protestò per l’evidente invasione della privacy dei detenuti che tramite una mail potevano essere monitorizzati più facilmente.

“C’è un codice che adottiamo” dichiarò uno dei massimi esperti e sostenitori della campagna, “Niente verrà mai divulgato se non in caso di evidenti raggiri della legge in fatto di sicurezza e ordine pubblico”.

 

 

L’iniziativa aveva pochi sostenitori nella società civile, tuttavia tra associazioni, comitati, singoli intellettuali e attivisti di ogni sorta, i comuni cittadini cominciarono poco per volta a incuriosirsi. Come sempre accadeva dall’inizio dell’era digitale fu il mondo di internet e dei social network a dare il colpo definitivo alla questione e in breve si formò un vera moda: chiunque volesse far parlare di se aveva un amico detenuto cui scriveva con regolarità.

Chi lavorava nella realtà degli istituti penitenziari, invece, la pensava diversamente. “Se chiedete a un pasticciere quanto ami il proprio lavoro” aveva dichiarato una guardia carceraria a un noto giornale che aveva pubblicato un articolo in merito, “vi risponderà certamente tanto. Come noi. Lo abbiamo scelto questo mestiere e ne siamo fieri.

Ma anche un pasticciere vi dirà che fare dolci tutti i giorni per tutto l’anno non è piacevole come mangiarli. E neanche quello potresti fare senza farti venire qualcosa. Chi si abbuffa di dolci è malato”.

 

 

“E chi si abbuffa di umanità?”.

La donna lo fissa senza capire.

Lui si volta e sorride alle due guardie presenti.

I loro volti sono impassibili. Sono stati ben istruiti e non reagiranno a provocazioni. Tutto sarà registrato.

“Hanno scritto che è da malati provare empatia verso un pluriomicida”.

La donna annuisce.

“Non è quello”.

“Davvero?”.

“Non ti considero una mia conquista. Il tuo caso, la tua storia, mi ha colpito nel profondo. Non bisogna giudicare una persona da quello che fa, ma perché lo fa”.

Lui la fissa senza replicare.

“Sai quanto mi senta vicino al tuo vissuto. Hai fatto delle scelte, ma non credo ne fossi consapevole. Non ti sto dicendo che sei pazzo. Non più di me, almeno. Io credo che ci sono cose che ci costringono ad agire in un certo modo e non possiamo essere colpevoli per questo”.

“Io credo invece che il mondo sia diviso in due: buoni e cattivi. Cosa facciano gli uni o gli altri dipende da chi li giudica”.

“Io non ti sto giudicando”.

“Però indossi una maschera, quindi non sei sincera”.

Il viso della donna tradisce per un istante un sentimento di paura, ma è lesta a farlo sparire sotto un velo di compassione che alle telecamere che registrano la scena sembrerà autentico.

“Indossiamo sempre maschere per non rivelare la nostra vera natura”.

“E quale sarebbe la tua?”

“Della persona che vuole starti affianco” risponde lei allungano una mano per toccare la sua.

“Signorina!” urla una guardia, “Nessun contatto! Sono le regole!”.

“Mi scusi”.

L’uomo abbassa appena gli occhi sul dorso della propria mano notando l’impercettibile segno rosso dell’anello della donna.

“E funziona?”.

“Se me lo permetterai, sì”.

“Ci sono persone che non capiranno. Sono in molti a vedere in questo un disegno perverso”.

“I disegni non sono perversi, tu meglio di altri lo sai” replica lei con un sorriso ironico, “Continui a disegnare anche qui?”.

“Non me lo permettono. Dovrei trovare qualcuno che lo fa per me, magari un detenuto a cui è concesso maneggiare una matita senza che la considerino un arma”.

“Un detenuto con il tuo talento, però”.

L’uomo sorride.

“Sono sicuro che esiste”.

“Nel mondo ci sono tanti disposti a farlo. Potrei sensibilizzarli”.

“Non si presterebbero. Quanti legherebbero il proprio nome al mio?”.

“Potrei stupirti”.

Lui annuisce.

“C’è malvagità nel mondo. Per molti io ne faccio parte. Non hanno capito che ho agito per uno scopo. Qualcuno doveva occuparsene”.

“Ma ci sono persone in grado di farlo. Ti avrebbero aiutato se avessi aperto loro il tuo cuore come hai fatto con me”.

L’uomo sorride nuovamente.

“Ma l’ho fatto e non mi hanno ascoltato”.

“Porterò io la tua voce fuori di qui”.

“Lo so. Spero che avrai miglior sorte della mia”.

La donna sorride soddisfatta.

“Tempo scaduto” dice una delle guardie avvicinandosi e sollevando l’uomo senza troppe cerimonie.

L’ultimo sguardo tra la coppia è d’intesa.

Quelli che avrebbero visionato le registrazioni dell’incontro non lo avrebbero notato. Non si sarebbero accorti nemmeno della parrucca, i finti occhiali e i goffi vestiti che la donna aveva indossato per dare di se un immagine completamente alterata.

La successiva indagine avrebbe stabilito le sue false generalità, il suo attuale domicilio e l’interesse sempre meno evidente per il detenuto che avrebbe deciso di non rispondere più alle mail o di riceverla in visita. Nessuno insomma avrebbe collegato Nadia all’uomo in un tempo e un luogo, né dare un nome alla loro organizzazione.

Una di quelle di cui pochi parlano e pochi conoscono.

Proprio come i sogni.

 

Raffaele Scotti

 

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