Bloodshed (Cap. 12)

CAPITOLO 12

 

Forse non possiamo morire. Non potremo mai liberarci…del mostro.

Bruce Banner – Hulk

 

La giornata non è cominciata bene, quindi non vede l’ora di tornare a casa. Ultima consegna, poi a letto. Forse esagera, ma il martellare continuo tra occhi e nuca lo sta uccidendo. Quante pillole aveva ingoiato nemmeno lo ricorda e il buon senso gli suggerisce di fermarsi prima di peggiorare la situazione. La festa, la dannata festa.

Si è divertito anche se non ne è proprio sicuro e la cosa un po’ lo turba. Non gli capita mai di sballarsi in quel modo. Non si è mai ubriacato, non ha storie da dimenticare, non gli piace bere.

“Come diavolo mi sono ridotto in questo stato?”.

Sin dal risveglio, la sensazione di essere stato drogato lo aveva stuzzicato abbastanza da fargli chiamare l’amico con cui era uscito per farsi raccontare come era andata.

“Mi prendi in giro?” aveva detto l’altro ridendo, “Mi hai mollato e sei andato via con la milf e chiedi a me come è andata?”.

La donna. Lei non l’aveva dimenticata.

“Non ci sono andato a letto” aveva risposto.

“Certo” aveva ribattuto l’amico, “Ne riparliamo. A dopo”.

Il fastidio che aveva provato quando aveva riattaccato non si attenua in quel momento. Al contrario aumenta. Come si fa a pensare una cosa del genere della donna che ti ha…

Cresciuto. Era quello che stava pensando.

Scuotendo la testa cerca di bloccare l’ennesima emicrania.

È sbagliato, si ripete. È sbagliato, ma non capisce perché.

Aprendo gli occhi dopo averli inutilmente torturati con le mani afferra il ciondolo che ha al collo.

“Devo metterlo via”.

Il pensiero è spontaneo e non si chiede perché sia privo di razionalità.

Slaccia la catenina e si mette il ciondolo in tasca.

“Cos’è?”.

Dalla stessa tasca tira fuori il biglietto con l’indirizzo di consegna.

Sorride. Preso dai dolori aveva dimenticato dove stava andando.

 

 

Quando aveva messo piede in pizzeria, Marco si era preparato a una giornataccia: pulizie del locale e via per le consegne delle otto.

Con la testa pulsante aveva pensato di mollare verso le undici e chiedere un permesso. Il suo umore e la sua salute fisica erano tuttavia migliorati con la consegna di mezzogiorno.

“Credi di farcela o devo mandare qualcun altro?”.

Non ci aveva nemmeno pensato.

Piove e se non si è bagnato anche le mutande nel tragitto da casa alla pizzeria è stato solo grazie all’intuito. La sua naturale negazione agli ombrelli si tramuta in amore per l’impermeabile preso durante la Naja, uno dei pochi capi d’abbigliamento che vale la pena portarsi a casa una volta in congedo. Il problema in giornate come quelle è il vento.

Non dava tregua sin dal mattino e abbinato alla pioggia rischia di essere letale. La sua fortuna però era stata nei pochi metri da percorrere allo scoperto dopo aver cambiato due autobus.

Almeno quello.

 

 

Avviandosi all’Astral, Marco riflette sulla tristezza dei volti delle persone che incrocia per strada. Guarda ora uno, ora un altro, tutti i  pedoni che gli corrono affianco per sfuggire al maltempo.

Meteoropatici o meno, pensa che si facciano condizionare troppo da giornate come quelle. In pizzeria il tepore del forno lo aveva rincuorato. Il bello del suo lavoro sta proprio nell’avvantaggiarsene in giornate umide e fredde.

C’è calore quando fuori è freddo, calore quando fuori è caldo.

“In effetti questo è poco vantaggioso” riflette ad alta voce facendo girare una ragazza che porta il proprio cane a fare i suoi bisogni.

Sorridendo, Marco prosegue verso la meta non potendo fare a meno di pensare che la sua necessità di calore è comunque continua.

Cerca nel lavoro ciò che gli manca fra le quattro mura domestiche.

Non ha conosciuto il padre, né sua madre gli ha mai raccontato di lui.

Lei si occupa di sicurezza e per questo è sotto pressione continua.

Giornalmente incontra persone e ci discute. Non lo tiene in disparte in quei casi, rendendolo invece partecipe di strategie e azioni. Forse perché lui rincasa spesso, non ha una sua casa o un lavoro decente. Ha in ogni caso ascoltato o gli avevano fatto ascoltare tanto.

Più di una volta si era chiesto fin dove potevano spingersi lei e i suoi collaboratori nel fidarsi di un ragazzo come lui. Della sua presenza.

Non aveva abbastanza fantasia da ritenerli agenti segreti, ma non era tanto stupido da non capire che girare armati con auricolari significava svolgere una mansione seria.

In quel momento una forte pressione alla testa lo fa barcollare e per poco i cartoni con la pizza dentro i contenitori ermetici che porta a mano rischiano di cadere. Fermandosi sotto un androne di un palazzo scuote la testa energicamente nella speranza di attenuare il dolore.

Tua madre è morta da anni per un cancro e tuo padre è a lavoro nella sua officina.

Quel pensiero lo fa tremare tanto da attirare l’attenzione di un uomo.

“Tutto bene figliolo?”.

Lui non risponde. Ha il volto bianco e gli occhi fissi nel vuoto.

“Ehi!”.

L’uomo lo scuote piano. Preoccupato, sta per prendere il cellulare quando il volto di Marco si rianima.

“Che succede?”.

“Hai avuto una specie di collasso. Stai bene? Chiamo un’ambulanza”.

“No, No” si affretta a rispondere lui, “Sto bene”.

“Sicuro?”.

“Consegno le pizze di fronte e me ne torno a casa, la ringrazio”.

“Va bene” replica l’altro poco convinto.

“Sarà un po’ di influenza. Grazie”.

Allontanandosi Marco si volta una sola volta indietro per osservare l’uomo che riprende la propria strada.

“Che diavolo voleva quello?”.

Non lo ricorda più.

 

 

“Ehi!” dice la segretaria che gli apre, “Finalmente!”.

“Sono in ritardo?” chiede allarmato lui guardando l’orologio.

“Per me sempre” risponde lei sorridendo e si fa da parte.

Marco attraversa un lungo corridoio salutando distrattamente quelli che incontra prima di arrivare a una grande stanza dove Cerbero lo sta aspettando con i collaboratori per festeggiare la fine di un altro albo.

“Ecco il nostro socio onorario” commenta senza entusiasmo uno di loro quando fa il suo ingresso.

Marco appoggia le pizze su un tavolo all’ingresso e porge lo scontrino alla segretaria che senza nemmeno guadarlo lo ripone dopo avergli dato i soldi che lui distrattamente intasca.

È nel Santuario. È il luogo dove non sono esposte reliquie, bensì tavole disegnate. Sono lì per lui. Certo, anche altri potevano goderne, ma tra i lettori di quei fumetti è convinto di essere un privilegiato.

Non ha bisogno di contare i soldi delle pizze per lo stesso motivo per cui loro non controllano mai lo scontrino. Fa parte del gruppo e questo va oltre un privilegio. Quelle erano le persone che lo intrattengono nelle ore di solitudine. Il fumetto, i fumetti sono diventati il suo salvavita, il modo più sicuro per uscire dal sovraccarico dei giorni.

Non veniva spesso, perché non sempre i ragazzi dell’Astral ordinavano pizze, ma quando vi metteva piede sapeva che era nel momento più importante. Glielo avevano detto loro e farne parte lo rendeva orgoglioso. Il rito delle pizze si attua solo alla fine di un albo.

Marco, tuttavia, guardandosi intorno percepisce un atmosfera grave e pesante. Solitamente il rito è un momento di soddisfazione perché si porta a termine un ciclo narrativo che a breve sarebbe stato pubblicato.

Cerbero è ancora seduto al suo tavolo a ritoccare una delle tavole finite e gli da le spalle. L’ultima sua creazione si sviluppa su una serie di tavoli posti per tutta la stanza nella loro sequenza temporale.

“Ti fai precedere dall’odore” dice all’improvviso voltandosi.

All’inizio non capisce e si guarda addosso per vedere se si è sporcato con il sugo delle pizze, poi sente l’odore provenire da dietro e sorride. Ha il tempo di registrare ancora una volta la muta presenza anche degli altri fumettisti quando Cerbero si avvicina e gli stringe la mano.

“Certamente avrai un fumetto da farmi firmare”.

Marco arrossisce e dice di sì con la testa.

“Prevedibile” sorride l’altro, “Coraggio” aggiunge allungando la mano e abbozzando un sorriso che gli sembra sincero.

Lui tira via dalle spalle lo zaino che si è portato e lo apre prendendo un paio di copie degli ultimi numeri di Astral Root.

“Senti” dice porgendogli i fumetti, “Nel frattempo potrei…”.

Cerbero annuisce sorridendo e lui si avvia subito ai tavoli.

 

 

Ricorda poco quello che succede, ma una cosa non la dimenticata, il silenzio: ci sono almeno altre tre persone con Cerbero nella stanza, ma nessuno fiata neanche quando sviene. Ripensandoci dopo, quando si riprende, si chiede se non lo avessero previsto.

Il mal di testa lo aveva artigliato non appena si era messo davanti alla prima tavola e lui lo aveva ignorato. Non era così dolorante come era stato tutto il giorno. Se avesse dovuto trovare una similitudine per descriverlo in quell’istante avrebbe detto che gli sembrava come se qualcuno stesse frugando nella scatola cranica. Un lavoro non doloroso, ma di fino. Un aprire e chiudere cassetti non per rovistare, ma per riporre. Tuttavia, non aveva potuto fare a meno di massaggiarsi una tempia in un gesto spontaneo e meccanico.

Nessuno gli chiede come sta o se ha bisogno di aiuto. Non sarebbe stato naturale? Marco pensa di sì, anche se in quel momento la sua attenzione è tutta per il nuovo fumetto e non gli importa.

Mentre scorre con gli occhi le immagini della storia cogliendo solo poche delle parole dei dialoghi, la voce di sua madre si sovrappone al tema causandogli un momentaneo blocco. Doveva fare qualcosa, ma cosa? Sembra quasi che la donna sia lì presente e gli stesse leggendo il fumetto. Le scene sono diverse, almeno nella descrizione orale, ma è sicuro che a sbagliarsi è stato Cerbero.

È evidente, come ha fatto a non capirlo?

I nomi dei protagonisti non sono quelli, la mancanza degli indirizzi sui fondali dove sono ritratte le strade non rappresentano il reale. Tutto è così vago e senza particolari che gli indichino dove veramente l’azione si sta svolgendo. Sta per voltarsi verso il fumettista per farglielo notare quando la prima scena cruenta gli si para davanti agli occhi in tutta la sua brutalità. Istintivamente ne è colpito così tanto da indietreggiare. Poi vede. È diversa.

La tavola, nella sua meticolosa brutalità gli racconta perfettamente ciò che si deve fare in quei casi. Ripercorre allora velocemente con gli occhi le vignette precedenti e nota che il diverso è qualcosa che comprende tutto il fumetto.

“Sembra vivo” borbotta, ma nessuno lo sente.

Cerbero ha cambiato stile. O è il colore.

Marco continua la sua anteprima privilegiata in un sogno a occhi aperti. Tavola dopo tavola ascolta le istruzioni di sua madre sul da farsi. È tutto disegnato davanti agli occhi. Il mal di testa cresce d’intensità all’improvviso e ha un leggero capogiro. Chiude gli occhi e si massaggia di nuovo una tempia. Dove sono gli altri?

In un attimo di lucidità intuisce che gli sta succedendo qualcosa di strano. Brutto. Possibile che nessuno se ne sia accorto?

Marco sente la voglia di richiamare la loro attenzione, ma più forte è l’eco della voce nella sua testa. Sua madre. No è la donna, la donna della festa. Scuote il capo, ma è attratto ancora una volta dai disegni che ha di fronte. È tutto lì, che c’è da capire?

Sente il pavimento scivolare sotto i piedi, lo stomaco aggrovigliarsi e la voce di sua madre ora più intensa. È una litania quella che sente, mentre la testa gli gira in un vortice furibondo.

Quando cade a terra vede il volto di uno dei collaboratori di Cerbero su di lui. Lo sta soccorrendo e gli parla. Marco sorride. L’uomo è uguale a una delle vittime sul fumetto.

Dopo è buio.

 

Raffaele Scotti

 

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