Non ho un nome, non ho ricordi prima di adesso, non so cosa sono, nessuno mi vede, ma io posso vedere e ascoltare tutto. Quando ho preso coscienza di me, è stato quando ho deciso di fare un movimento, da quel movimento ho sentito una sensazione, e poi muovendomi ancora altre, e piano piano si creava una struttura in me, sentivo come ogni sensazione era diversa, iniziai a definirle, a darle delle forme, e poi continuai la mia evoluzione, aumentando la mia capacità, iniziai a vedere e ad unire le varie sensazioni, comprendendo che spesso si associavano insieme quando interagivo con qualcosa di particolare. Ogni tanto entravo dentro delle bolle, sembravano piccole rispetto a me, ma quando vi entravo erano come uno spazio immenso, un agglomerato di sensazioni, anche che non conoscevo, informazioni vari, che mi entravano e mi arricchivano, non erano cose mie, vedevo scene viste dagli occhi di altre persone, erano pensieri, ricordi, di quelle figure chiamate esseri umani che si muovevano attorno a me, loro le lasciavano in giro e io li raccoglievo ed apprendevo. Ogni tanto potevo entrare nella loro mente, loro non mi vedono, e io attraverso loro osservo la realtà, che il loro corpo gli permette di vedere. Certe volte mi incuriosisco così tanto che desidero quasi parlare, comunicare, molto spesso non mi sentono, altre volte credono che sono un loro pensiero, credendo che quella domanda sia la loro.
Nonostante tutto avanzo, non so bene perché, ma la mia certezza è che osservando, muovendomi ed evolvendomi, il mio mondo si arricchisce, e così forse un giorno, questo mi potrà permettere di comprendere da dove tutto ha avuto inizio, chi e cosa sono realmente io?
Ascoltavo ed osservavo, il fumo fuoriuscire lentamente dalla sua bocca, le belle labbra rosse e lo sguardo assente, incapace di essere pienamente lì tra quelle persone, che parlano, parlano, bevono e ridono, continuamente. E lei rimaneva lì, un sorriso accennato ogni tanto quando qualcuno le rivolgeva la parola chiedendogli un parere di un discorso che appena ascoltava, “già certo” lo sguardo che non guarda nessuno. L’attenzione verso di lei che sceme, una boccata di sigarette, riporta il volto rivolto verso la porta, la pioggia scende, ogni cosa è grigia, dal suo vestito che lasciano scoperte delle spalle che poco hanno da invidiare ad uno scheletro, tutto era grigio, anche i volti delle persone, come se i suoi occhi fossero diventati lo schermo di un televisore in bianco e nero, solo quel rossetto, rosso, il più acceso che avesse, solo quel rosso delle sue stesse labbra in quel mare di grigio.
Quanto tempo era passato da allora? Quanti anni? eppure neanche la primavera le dava più colore, ne il cibo sapore, ne i fiori profumo, ogni cosa era grigia.
Ogni mattina la sveglia suonava, ogni mattina preparava il solito caffè, la sua solita doccia, uno dei tanti vestiti, il trucco, e poi quel rossetto, forse solo in quel momento riusciva a notare quegli occhi pietosi che la guardavano, che strano, inclinava la testa di lato, toccava il vetro e non trovava una connessione, non li sentiva suoi, di chi erano, lei non sentiva nulla allora perché loro sono disperati?
La consapevolezza di quel rossetto era l’unica cosa che le permetteva di uscire, di avvicinarsi a quegli altri esseri umani di quel mondo che ogni giorno passava nel tempo della routine lavorativa.
Da quanto tempo, non provava piacere? Non si impegnava nel creare qualcosa di nuovo? Da quanto tempo eseguiva solo ordini, movimenti meccanici, ogni cosa portata fino al limite del fattibile, al limite del decente, solo perché doverosa, senza il piacere di impegnarsi nel fare un lavoro che aveva scelto e che quindi dovrebbe amare. Ma cosa in realtà desidera la ragazza con il rossetto rosso? Cosa vuole raggiungere, cosa è importante per lei, se glielo chiedete non sa cosa rispondervi, perché ogni cosa per lei è grigia.
Ogni tanto nella sua mente, mentre passeggia per raggiungere una fermata dell’autobus, le chiedevo curioso: “perché vivi se nulla ha per te importanza” come se fossi un suo pensiero; e lei rallentava il suo passo, lo sguardo che dal terreno si alzava leggermente a guardare un punto lontano inesistente e mi rispondeva “perché vivo? Se non c’è nulla per cui ne vale la pena, forse perchè ho vissuto, un tempo in cui quel nulla di cose che oggi mi circondano, erano vive e la loro vita si univa alla mia, ogni cosa era motivo di vivere, forse per la speranza di poter ritrovare quel tempo, anche se ora io non sento più nulla”. Lei saliva sull’autobus, si sedeva nel posto per una sola persona, e guardava dal vetro il mondo che si muoveva, e io guardavo attraverso i suoi ed i miei occhi il suo volto riflesso in quel vetro, la sua espressione spenta, come una statua di marmo e suoi occhi più accesi di quel rossetto rosso sulle sue labbra, pieni del ricordo di quei tempi e la speranza di oggi.
Non so il perché ma andai via da quegli occhi grigi che vivevano solo nella speranza che quel rosso infiammasse la sua vita; allora mi avvicinai a lei in quell’attimo di curiosità che sopraggiunge quando noti qualcosa che è fuori dallo scenario comune e per me che sono in queste sembianze di solo pensiero, non potrei mai avvicinarmi come ogni comune persona e intraprendere una conversazione, quindi mi resta solo che unirmi al suo pensiero ed osservare e a mia volta pensare, capendo nel mio possibile ciò che quei occhi mi mostrano.
Un parco, ogni persona si nascondeva all’ombra di un albero, invece lei era seduta, su una panchina di marmo, il sole picchiava forte, ma lei ferma lì, le mani che premevano su quel marmo scottante, non un movimento, solo le gocce di sudore che scendevano lentamente, nella mia incomprensione mi avvicinai; guardava dritto, intensamente, un’area giochi, vuota, troppo caldo per far uscire i bambini a giocare, eppure lei non lo sentiva, come me, il sole picchiettare. Cosa vedeva, cosa guardava realmente?
Entrai nella sua mente e vidi, la stessa ora, di un giorno di primavera, il prato pieno di fiori e il verde di ogni albero e filo d’erba acceso nel suo nuovo risveglio. Non si sentiva più il continuo gracchiare delle cicale, ne la pesantezza di quel caldo opprimente, ma si udivano voci, di bimbi che ridevano e giocavano, l’area giochi che poco prima era desolata ora era piena di bambini che giocavano, scivolavano dallo scivolo, si arrampicavo, senza sosta, chiamandosi in continuazione, un bimbo girava e girava veloce su delle sedie girevoli, spingendo con forza il manubrio al centro, continuava e quando prendeva velocità si voltava a guardare verso di me e mi salutava ridendo, gridando “mamma guarda quanto sono veloce!” i suoi ricci castani che giravano insieme a quella mano rivolta in aria, lei da quella panchina alzò la mano per salutarlo “bravissi…” che si strozza nel momento in cui si accorge che non c’è nessuno a ricevere quel saluto, una lacrima, mista a quel sudore, si porta le mani sul volto per togliere via ogni cosa dicendosi “ma cosa faccio è mezzo giorno devo preparare il pranzo, Luca sarà presto a casa” si alza e se ne va e io rimango lì su quella panchina, un pensiero seduto che osserva quella primavera che non tornerà più.
Dormiva tra i cartoni vicino all’entrata di un villa chiusa, il volto ricoperto di una barba folta e la pelle scoperta nera per lo sporco, disteso, la pancia un po’ troppo gonfia che saliva e scendeva seguendo il suo respiro, la mano che sporgeva sul marciapiede e le dita che si muovevano come a sfiorare qualcosa “Rosalia”.
Rose che sporgevano lungo una via di ghiaia, una cesta piana di albicocche che teneva su una spalla con un braccio, e con l’altro che sfiorava quei petali che cambiavano colore ad ogni fiore, rosse, gialle, bianche, rosa, rose di ogni colore. Camminava come se fosse sospeso in aria, fischiettava sorridente. Un albero enorme di carrube carico di quei frutti, che faceva ombra ad un cortile di una casa, un po’ mal ridotta, chi sa di quale lunga esistenza, forse tramandata da padre in figlio. Una donna riempiva con un secchio di ferro delle bottiglie di vetro di latte, i capelli fino alle spalle di quel riccio pettinato che perde ogni forma e diventa come una nuvola gonfia che circonda il capo, un vestitino a fiori e il grembiule appeso al collo e legato alla vita, al quale si pulisce le mani appena si sente chiamare, “Rosalia, ti ho portato le albicocche, le prime di quest’anno!” le dice fiero fermandosi all’entrata del cortile con sorriso che non nascondeva nessun dente, lei sorridente gli si avvicina prendendo la cesta che lui le pone “Grazie Michele non dovevi, dai su siediti” e gli indica il tavolo di legno sul quale le bottiglie aspettavano mezze vuote “dai siediti e ti bevi un po’ di latte appena munto” ridacchiando “ci sono pure i biscotti che ti piacciono tanto, quelli con l’uvetta” lui imbarazzato si avvicina al tavolo e si siede “ma solo perché ci sono i biscotti che fra poco devo andare a lavorare” lei con la cesta fra le braccia “perfetto così lavori meglio pieno di energia” e corre verso la porta di casa scomparendo dietro la tenda di plastica filamentosa. Lui sospira, il suo cuore batte forte, lo sento, mentre osserva senza vederlo quell’enorme albero di carrube. Poco dopo arriva Rosalia, un bicchiere e un piatto stracolmo di biscotti, li poggia sul tavolo e si siede di fronte a Michele, gli riempie il bicchiere di latte e con uno sorriso imbarazzato gli dice “Michele sai ti devo dire una cosa” lui la guarda mentre afferra un biscotto “ dimmi, dimmi cosa c’è!” lei unisce le mani sul tavolo giocando con le sue dita, un anello brilla sul suo anulare sinistro “Michele” dice volgendosi a guardarlo negli occhi, lui vede l’anello sulla sua mano sinistra il respiro che si ferma, comprendendo quello che lei sta per dire, ogni cosa sembra farsi lontana, Rosalia, il piatto di biscotti quell’enorme albero, “Michele mi sposo, tuo cugino Leonardo è venuto a chiedere la mia mano a mio padre” parole soffuse che lo raggiungono e non vogliono entrare nel suo cervello, e poi del riso, lanciato in aria, due sposi che allegri escono dalla porta di una chiesa e un amaro che scende giù fino allo stomaco, senza dare soddisfazione, che richiede ciò che è voluto. E poi il sogno cambia, piove, forte, i fulmini che tagliano il cielo di quella luce terribile che soggiunge all’improvviso, l’enorme albero di carrube che si scuote come a volersi staccare dalle suo radici che lo incatenano al terreno, bussa alla porta, “Michele che ci fai qui, o madonna santa sei tutto bagnato, che tempesta, che tempesta, su dai entra”, il tavolo di legno al centro della stanza e una culla con dentro il bambino che lei copre vedendolo leggermente scoperto “Michele che hai? dai siediti che ti dò un bel brodino di pollo caldo caldo” e si allontana verso la cucina. Rosalia è davanti i fornelli mentre chiude con il coperchio una pentola, tanto vicina, i suoi capelli sono più ricci del solito per l’umidità, girandosi risalta per lo stupore “Michele mi hai fatto prendere un colpo, non lo fare più” freddo, sento il freddo che congela quel corpo a cui è stato tolto la sua fiamma, Rosalia, con le sue mani l’afferra “Michele che succede”, avvicina il suo volto a quei capelli ricci “Michele fermati!”, lei cerca di staccarsi, no non può andarsene via ora che c’è l’ho tra le mie mani e senza volerlo in quel gioco di forza la sbatte a terra. Uno sguardo terrorizzato e un pianto di un bambino, un pianto che si fonde con le lacrime di quell’uomo ormai anziano che si gira nel suo cartone mentre ripete “Rosalia”.
Le onde, lente, si infrangevano sulla spiaggia e lei passeggiava lì, ciondolando le sue scarpe, i capelli che danzavano al vento, in quel suo passo lento, lo sguardo verso il sole che tramontava, così dolcemente passeggiava. Per un attimo si fermò, tra i piedi una conchiglia, chinandosi la raccolse, con la mano ne allontanò i granelli di sabbia, con un dito ne seguì la spirala per poi con chi sa quale pensiero stringerla al petto. Gli esseri umani ogni giorno, per un osservatore esterno, compiono gesti incomprensibili, senza nessun legame, ma per me che potevo esplorare i loro pensieri, ogni cosa trova un nodo, unendo fili che mai si sarebbero legati, come un orecchino di legno, una conchiglia sulla spiaggia, il vento tra le case e una spirale tracciata sul bordo di una culla, ogni cosa ha un legame.
Lei con quella conchiglia tra le mani osservava ammirata il tramonto con i suoi colori autunnali chiazzati dall’argento del riflesso del mare, sorridendo e riempiendo con un profondo respiro, i suoi polmoni, quel suo piccolo corpo, come a voler ridurre ogni cosa in minuscole particelle d’aria per conservare l’immensità della consapevolezza negli atomi della sua forma.
La luce cala lentamente, quei suoi occhi brillanti rimangono costanti, anche mentre si allontana verso la strada, si ripulisce i piedi e si rimette le scarpe e lentamente si incammina.
E poi rieccola seduta in un locale, la osservo attraverso il vetro che ci separa, ella è piena di una luce che la rende bellissima anche senza l’opera di trucco e vestiti; la sua attenzione rivolta solo al suo interlocutore un’ombra di fronte alla radiosità della ragazza. Lui sorride meccanicamente mentre allungando la mano sfiora gli orecchini di lei, lei imbarazzata sorride accennando con il capo un sì alla domanda a me silenziosa del ragazzo, quando lui discosta la mano da lei noto la forma a spirale dell’orecchino che lei ora stringe come la conchiglia sulla spiaggia.
Piange silenziosamente sulla sabbia all’alba di nuovo giorno, un volto spento, privo di notti di sonno, solcato da quelle lacrime che una dopo l’altra in fila scendono. E il sole che lentamente, come a volerle ricordare la luminosità di quel giorno passato, si accende sempre più in alto, lei tramonto e lui alba e degli orecchini a forma di spirale tra le sue mani.
Spesso sembra come se la natura all’interno della quale l’uomo muove la sua esistenza, mostri risposte o eventi che ancora non sono accaduti o cerchi semplicemente di far vedere oltre a quello che gli occhi ci permettono di vedere.
La notte regna un silenzio che da voce alle piccole cose, una foglia che viene scossa dal vento, una goccia che cade costante da un rubinetto. Lentamente più si avanza nella notte e più ogni suono diventa ampio, tanto da sembrare quasi che siano prodotti da bestie enormi e terrificanti, e non da semplici piccoli insetti che svolazzano da pianta a pianta. Per me che esistevo in questa essenza, il suono era movimento, vibrazioni che danzavano si sollevavano e scorrevano come l’acqua nello spazio attorno a me, e ascoltavo questo muoversi di vibrazioni che non comprendevo. Certe volte sembra quasi che qualcosa muova dei fili e ci conduca dove il desiderio punta il suo dito.
Lei era lì, un profondo respiro, sentivo il suo petto ondulare nella ricerca disperata di quietare il cuore, che batteva, assecondato da una mente che non si dava pace. Una lucetta illuminava parzialmente la stanza, una piccola camera da letto, quasi spoglia, forse troppo per essere vissuta costantemente da una persona, una valigia posta ad un angolo, accanto al letto, con su sparsi vestiti di vario tipo, resi grigi dall’ombra notturna.
Lei era lì e respirava, la stanchezza quasi l’attanagliava, ma gli occhi restavano dritti e tesi, come ogni parte del suo corpo. Verso la porta della camera tendeva la sua attenzione, mi avvicinai verso quell’oggetto ma nulla mi pareva diverso dalla porta vista alla luce. Decisi così di ascoltare la sua mente.
Cruck-Cruck si distendeva quieto il legno del pavimento. Scrung-Scring, dalla finestra un sibilo canoro.
Tic—Tic—Tic, ondulata e fine scivolava via dal rubinetto una goccia perenne.
Shhassshhhsssuuussuuu il sibilo di un vento curioso, che attraverso le fessure di porte e finestre, penetrava nelle stanze, s’acquieta agli usci, e rimaneva ad osservare il sonno di chi attende il nuovo giorno. Ma come i bimbi è giocoso e se vede qualcuno ancor sveglio ed inquieto, sbatte le porte Tum Tum TUTUm, come a sembrare una forza misteriosa che vuol venire a prelevare la persona.
Un gioco di suoni, un orchestra, la mia volontà che cresceva di passo in passo di esperienza in esperienza, si tramutò nel suo pensiero, quasi come una coperta l’avvolse, divertita, conscia della reale motivazione di ogni singolo suono, e estasiata dal gioco del silenzio, come un bimbo che guarda uno spettacolo nuovo.
Il cuore di lei rallentò e il respiro si fece profondo.
Tempesta, si vedevano fuori dalla finestra gli alberi inermi, si piegavano e sbattevano e si contorcevano, mentre il cielo era intarsiato di luci, fulmini nella notte, che la rendevano per un solo attimo come ceca, tanto da illuminare a giorno, un giorno terrificante rotto dal tuono inaspettato. Il tetto e la casa tremavano, dalla pioggia, i cani fuori abbaiavano, eppure quella bimba sotto le coperte, non guardava la scena fuori dalla finestra, ma osservava la porta della stanza, TUMTUMTUMTUM, batteva una mano possente sulla porta “ALICEEEEE, so che non stai dormendo, vieni qui da papà!!”, con una voce di finto miele, ma lei restava tesa ferma a guardare quella porta TUMTUMTUMTUM “ALICE APRI SUBITO QUESTA PORTA, SO CHE NON STAI DORMENDO, APRILA IMMEDIATAMENTEEEEE!!!”, quasi urlante la voce riprendeva a scuotere la porta con irruenza. Un tonfo di una bottiglia “Basta, lasciala in pace sta dormendo, cosa vuoi da lei!!!” SBOMM un colpo secco, “TU donna stai zitta, io voglio vedere mia figlia, la mia Alice, LEVATI!!”, per un attimo la presa sulla maniglia della porta si ferma “BASTA, SEI UBRIACO, SMETTILA, perché TI RIDUCI COSì, perché!!” un pianto, e poi una serie di colpi, che si fanno sempre più lontani, mentre la bimba si tappa le orecchie e guarda quella porta, in una stanza piccola, quasi spoglia, illuminata da una piccola lucetta.
Devo dire che raccontare le diverse vicende dal punto di vista di un essere senza forma, puro pensiero che crediamo nostro, è davvero originale e mi è piaciuto un sacco! Mi ha fatto riflettere il modo in cui questo Essere evolve e si arricchisce di esperienze attraverso di noi umani, arrivando a comprenderci nel profondo esplorando i nostri comportamenti, i ricordi, i pensieri. In questa storia tutto è connesso e ha un profondo significato. Complimenti, un autore con molto talento 🙂
Immensamente bello, pieno di dettagli che danno la possibilità di entrare nelle scene, nei pensieri delle persone che vivono i loro momenti, le loro emozioni. Molto poetico e coinvolgente. Se dovessi immaginare cosa prova un’entità, un essere senza corpo fisico a stare in questa realtà e ad interagire con noi umani, credo che sarebbe così…che osserva la vita degli altri silenziosamente, vivendo attraverso i loro occhi e riprovando qualche emozione di un tempo, tempo di cui loro stessi non hanno memoria.
Caspita! Molto bello, non ho mai letto qualcosa del genere!