Gehenna (Cap. 6)

CAPITOLO 6

A maggio i platani dei lungofiume rinvigorivano, le betulle, sui fianchi della collina del Castello, perdevano il loro aspetto di ossa sbiancate per ammorbidirsi e gonfiarsi di nuove gemme, e l’antica lecceta che ricopriva la collina della Città Vecchia si disponeva a far posto a virgulti più teneri. Nonostante le trascorse notti d’inverno – che quassù era gelo e neve che colmava cantoni e ristava lungo i marciapiedi, divenendo lurida coltre di ghiaccio – Viktor non aveva smesso l’abitudine di avventurarsi di notte per i vicoli della Città Vecchia.

Adesso che la primavera esordiva, il tepore di giornate più miti avvolgeva la città come una carezza, le guglie della Cattedrale e le torri del Castello parevano forare lo smalto azzurro del cielo. La Storia, imprigionata nella pietra, scolpita su absidi e fiancate, tramandata da solidi torrioni, tornava a parlare a frotte di turisti, bottegai e albergatori guardavano a quelle orde pacifiche con sentimenti predatori.

Alla distilleria Kuntz l’inverno aveva assottigliato la già striminzita muta di cani – chi perché ammaliato dall’odore di femmine di passaggio, chi per una bastonata fatale. Se qualcuno, poi, si fosse dato pensiero di censire la popolazione residente – attività oziosa di per sé – ne avrebbe ricavato l’idea di una sostanziale parità di bilancio. C’era stato chi aveva deciso di migrare, e portare la propria disperazione da un’altra parte, e chi era subentrato accomodandosi in rifugi lasciati miracolosamente disponibili; qualcuno aveva solo svernato in attesa della primavera, altri erano svaniti con la morte lasciando dietro a sé niente più che un’orma impalpabile nella memoria.

Viktor e Olga – ma per lui era ancora Vanessa – avevano continuato a condividere un’intimità di sguardi, interrogativi di lei, disorientati di lui; la tana era stata attrezzata per ripararsi dal freddo tormentoso e custodire da occhi indiscreti una relazione chiacchierata. Quella convivenza era stata fatta oggetto di sarcasmi e propositi sbrigativi, si era anche pensato ad una spedizione punitiva, ma per fortuna non se ne era fatto nulla. Viktor era all’oscuro del travaglio che aveva gravato gli animi dei residenti durante le veglie invernali intorno a un fuoco, i suoi pensieri si volgevano, con la costanza dell’ossessione, a quanto di lui era perduto. E non poteva essere il presente, altrimenti non gli sarebbero sfuggiti segnali di un’ostilità che lì dentro montava giorno dopo giorno; non poteva essere nemmeno il futuro, uno qualsiasi, dal momento che gli occhi di Viktor non avevano brillato alle storie che Olga si era inventate per immaginare un futuro comune fuori della distilleria. Certo, erano soltanto storie, fantasie, ma a volte a Olga era parso che Viktor sorridesse. Lei vagheggiava che Viktor l’avrebbe salvata, l’avrebbe condotta fuori da quell’inferno, mentre lei avrebbe richiamato Viktor dall’inferno del quale sembrava prigioniero. Olga aveva cullato queste fantasie con l’ardore di un’amante.

Intanto, la ragazza aveva finito per accettare, senza più apparenti lacerazioni, l’idea di essere la compagna di un personaggio indecifrabile. Aveva imparato a tollerare la solitudine, Olga, quella delle notti interminabili e degli interminabili silenzi di Viktor. E si era spesso domandata perché mai, nei momenti di oblio, Viktor si tenesse il braccio destro con una forza innaturale, perché lo percorresse con la mano sinistra come temendo che potesse sfuggirgli, o che qualcuno potesse sottrarglielo, perché solo in quei momenti le dita della mano destra si agitavano frenetiche. Pareva che su quel braccio si accanissero in tanti, che il tormento al quale Viktor sottoponeva il braccio destro fosse una punizione, un castigo al quale si sottoponeva volontariamente, o il bisogno di tenersi aggrappato a qualcosa di solido che gli impedisse di sprofondare in un vortice di pensieri. ‘Cosa c’era nel braccio destro di Viktor che il sinistro non aveva? Cosa lo animava in quei momenti? Per quali colpe, se di questo si trattava, aveva da punirsi?’, si chiedeva spesso Olga.

Di tutto ciò, però, Olga non aveva mai parlato a Viktor, non osava. Intuiva che il mondo di Viktor doveva essere complicato e ingovernabile, un mondo nel quale si doveva parlare una lingua ostica, un mondo dove non c’era posto per la frivolezza delle parole, la superficialità dei gesti, la gratuità di sorrisi fatui; un mondo nel quale i pensieri erano partoriti e custoditi come oggetti preziosi. Era un mondo che Olga avrebbe voluto fare suo. E poi c’era la borsa, la cartella di pelle scura dalla quale Viktor non si separava mai.

Intanto, il dilemma della doppia identità si faceva per Olga sempre più lacerante.

Dopo notti inquiete, gli occhi si aprivano sul mondo di Vanessa, mentre la mente era appena emersa da un sogno che custodiva intatto e vivido quello di Olga. E il mondo di Vanessa era Viktor, Leo, Antonin, la distilleria, e sullo sfondo i viali della Città Nuova, i fuochi agli incroci, i clienti. Il mondo di Olga, invece, appariva sbiadito, relegato nella bruma opaca di un’immaginazione che stentava, a volte, a restituirne i contorni e doveva delegare al sogno il compito di vivificarlo, renderlo presente. E dopo tutto, il fatto che Leo fosse a conoscenza del suo segreto non la sollevava, poiché era a Viktor che Olga sentiva di doverlo svelare.

Per sua fortuna Olga non aveva molte occasioni di guardarsi in uno specchio, e quando le era capitato di vedersi riflessa nella vetrina di un negozio, nelle fugaci uscite con Leo, non s’era riconosciuta: i suoi lunghi capelli non c’erano più, una zazzera da maschio, arruffata e ispida, la facevano davvero sembrare tale. Perciò per Viktor era Vanessa, per Leo era Olga, per gli altri era, o avrebbe dovuto sembrare un maschio.

Adesso, dopo le sferzate dell’inverno, le passeggiate nel parco della distilleria s’erano fatte quotidiane, la vicinanza tra Leo e Olga, perciò, era oggetto di ironie e maldicenze: anche lì, tra i disperati della distilleria Kuntz, briciole di rinnovata vitalità si esprimevano con la ruvidezza del sarcasmo e la frivolezza del pettegolezzo acido. Solo con Leo Olga era capace di parlare di Viktor, solo a lui aveva confidato parole che a fatica s’erano fatte largo tra la timidezza e il pudore. “Credo di volergli bene” aveva confidato Olga a Leo ed era arrossita; ma a quale dei due, se al Viktor dei silenzi e di certe occhiate laceranti più di un grido, o a quello che in sogno invocava il nome di quella donna, Amelia, Olga non avrebbe saputo dire. Oppure al Viktor che scorreva fogli di musica con una frenesia che lo allontanava ancor più da lei e dalla distilleria. Chi meglio di Leo avrebbe saputo comprenderla, lui che era tornato a combattere con le bizzarrie di Antonin, con i sospetti di una mente di nuovo fervida di immaginazione e tormenti. Come l’ultima: catalogare tutte le bionde e gli uomini baffuti. Antonin diceva che erano emissari del “male”, propagatori di virus spirituali che avrebbero condotto l’umanità verso il baratro. “Sono tra noi” diceva, ma a Leo era chiaro che la rinnovata metamorfosi di Antonin si alimentava di una feroce gelosia, quella nei confronti di Olga.

Da quando Leo e Olga avevano preso a frequentarsi, Antonin era diventato per Leo poco più che un sostegno, e per giunta nemmeno solido, ma aveva continuato a volergli bene, a pensare ad Antonin come una sponda, se non altro perché in città non ne aveva altre. Ma nella mente di Antonin l’allontanamento di Leo aveva rinverdito quelle angosce che lo avevano condotto sulla strada, quando vedeva Leo passare il suo tempo con la ragazza, il primo abbandono, quello della sua donna, vi si rifletteva alimentando gli stessi patemi. La familiarità tra i due tormentava Antonin, allora non andavano in frantumi le certezze alle quali aveva rinunciato da un pezzo, ma l’illusione circa la possibilità che l’universo di affetti tra due persone potesse rimanere inalterato senza implodere, invece, in una catastrofe.

Perciò Antonin passava, ormai, molto del suo tempo fuori della distilleria, accompagnandosi spesso a personaggi equivoci. Da quando aveva conosciuto l’Albanese, poi, Antonin aveva preso l’abitudine di restargli attaccato come una piattola, e pur di non rimanere nella tana con Leo, a volte era rimasto in piedi tutta la notte per far compagnia all’Albanese accanto a un fuoco, agli incroci della Città Nuova. E lì, a quegli incroci, aveva avuto conferma dei suoi sospetti, di quanto, cioè, fosse estesa e capillare “l’Organizzazione” che era alle spalle dell’Albanese, il suo nuovo compagno; di come questi fosse comparso nella sua vita provvidenzialmente in tempo, e di quanto fosse grato ai compagni vetturini per averlo avvertito dello sconosciuto che lo stava cercando. Anche se lo disorientava il fatto che, nonostante lui gli avesse parlato della distilleria Kuntz come un covo di potenziali oppositori del progetto dell’Albanese, questi non si decidesse ad accettare il suo invito insistente a dare un’occhiata, ad ispezionare quel posto che, ormai, amava ripetere Antonin all’Albanese, “aveva bisogno di una ripulita”.

Che i sentimenti di Olga per Viktor fossero mutati, poi, non aveva stupito Leo, che anzi se ne era mostrato entusiasta. Fin troppo, se è vero che non la piantava di fare domande. Gliene aveva parlato? Cosa ne pensava? Come glielo aveva comunicato e quando? Come aveva reagito Viktor? Tuttavia Leo non poté nascondere la delusione quando Olga ammise che sì, voleva bene a Viktor, ma non aveva ancora trovato il coraggio per dichiararsi. Fu quella l’occasione propizia perché Leo sfoggiasse la sua esperienza di uomo di mondo. Spiegò a Olga come avrebbe dovuto comportarsi, quali atteggiamenti tenere, perfino le frasi che Olga avrebbe dovuto dire, frasi che secondo Leo avrebbero smosso il macigno più resistente e ottuso. L’entusiasmo di Leo contagiava anche Olga che, tuttavia, al pensiero di dover abbattere il muro di isolamento che proteggeva Viktor, non sapeva trovare di meglio che avvolgersi ancora di più nel suo bozzolo di timidezza, invidiando Leo per la sicurezza e l’esperienza e irritandosi per la disinvoltura con la quale Leo si figurava la situazione.

Da qualche tempo Leo sfoggiava capi di abbigliamento ricercati, a giudizio di Olga costosi e in esibito contrasto con lo squallore che li circondava, lei aveva provato a chiedergliene conto, ma Leo aveva abilmente glissato. Leo, invece, era riuscito, dopo discussioni laceranti e trattative estenuanti, a convincere Olga che il mondo fuori della distilleria non era quell’anticamera dell’inferno che lei temeva, che la città era grande e non avrebbe certo fatto caso a due come loro, e che la sopravvivenza del pianeta non avrebbe risentito della sparizione di una ragazzina, una tra le tante. Insomma Leo aveva convinto Olga a rimettere il naso fuori dalla prigione della distilleria Kuntz.

Non fu facile per Olga affrontare di nuovo la città, le strade piene di occhi che la puntavano, portava sempre degli occhiali scuri che Leo le aveva regalato e dietro i quali si sentiva protetta, nascosta dietro lenti scure si sentiva invisibile, sentiva a volte di poter affrontare il mondo con una sicurezza e una disinvoltura che facevano di lei un’adolescente come le altre, e se all’inizio certi sguardi l’avevano atterrita, col tempo se ne era sentita lusingata. Anche Leo attirava sguardi, poiché i capi che indossava erano talmente appariscenti che imbarazzavano perfino Olga.

Una mattina Leo annunciò che erano diretti alla stazione centrale.

“Non avrai intenzione di partire?”

“Non ci penso nemmeno.”

“E allora?”

“Devo incontrare una persona.”

“Un appuntamento, tu.”

“Proprio così, un appuntamento.”

“Uomo o donna?”

“E’ un segreto.”

“Ah, è così”, disse risentita Olga, “ma non eravamo amici?”

“Sì, ma questo non c’entra, è una cosa diversa, non insistere che tanto non te lo dico.”

“E io cosa ci faccio alla stazione centrale, me lo dici? Se avevi un appuntamento, me ne restavo alla distilleria.”

“E’ una cosa rapida, non prenderà più di cinque minuti, vedrai che non dovrai aspettare molto.”

Dovettero camminare per un pezzo, la stazione centrale si trovava al di là della collina della Città Vecchia. A Olga che sosteneva che avrebbero fatto prima con la metropolitana, Leo rispose che là sotto si sentiva soffocare.

“L’appuntamento è per le dieci e mezza, abbiamo tutto il tempo.”

Imboccarono Viale della Stazione. Gli ampi marciapiedi erano affollati, la compostezza dei passanti colpì Olga, non le sembravano turisti. Le parevano assenti i passanti, come segnati da una pena, o assorbiti da pensieri poco allegri, rifletté Olga; notò con raccapriccio che l’abbigliamento dei passanti era uniforme, dai colori spenti come l’espressione dei loro volti. Quei volti e quegli abiti le riportarono alla mente una vecchia foto che sua madre conservava sulla mensola del caminetto, le aveva chiesto chi fosse la gente sulla foto, sua madre le aveva risposto che non ne aveva idea, che sua nonna aveva trovato quella foto incorniciata in un mucchio di macerie subito dopo la guerra, l’aveva raccolta e portata a casa solo perché i volti della foto, una famigliola, padre madre due bambine, le avevano fatto compassione: forse non c’erano più, la guerra li aveva portati via e, chissà, non avevano parenti che potessero piangerli, e allora erano davvero soli, anche nella morte.

I passanti, pensò Olga, avevano negli occhi la stessa malinconia, la stessa rigidità dei personaggi della foto; nonostante splendesse il sole di maggio, pareva che un alone di mestizia e disincanto accompagnasse i passanti e li avvolgesse.

“Aspettami qui”, disse Leo a Olga, e la bloccò ai piedi di un pilastro che si innalzava come in una cattedrale gotica. Olga non protestò, non chiese niente, rimase immobile e vide Leo allontanarsi, inghiottito dalla fiumana di gente che si dirigeva verso i binari. Olga rimase sola, si guardò intorno e si sentì persa, era tutto così grande, il viale, la stazione, i pilastri della sala d’attesa, tutto era così fuori misura, si sentì sola e non provò neppure a chiedersi che fine avesse fatto Leo, dove si fosse cacciato, se e quando l’avrebbe rivisto e da dove sarebbe sbucato; temette che Leo non sarebbe più tornato a riprenderla e la città le appariva un’inestricabile foresta. Come le appariva diverso il mondo fuori della distilleria Kuntz, e come la spaventava la libertà, le mura della distilleria la proteggevano, la presenza di Viktor e la confidenza con Leo la proteggevano, e come avrebbe fatto volentieri a meno di tutto questo spazio aperto, come avrebbe rinunciato a tutto pur di avere la certezza che Leo sarebbe tornato, che avrebbe rivisto Viktor e potuto nuovamente rifugiarsi nei suoi silenzi. In fondo tutto questo non le piaceva. Non le piaceva la città, non le piaceva la gente, non le piacevano i loro vestiti scialbi, le espressioni cupe e malinconiche dei loro visi, non le piaceva l’insoddisfazione che leggeva tra le rughe dei volti dei passanti, non le piaceva l’andatura rigida con la quale si muovevano i viaggiatori, e non le piaceva la voce finta dell’annunciatore dei treni. Non era come al suo villaggio, non era come con le sue compagne. Era come se tutti, in questa città, fossero segnati da un marchio e gravati da un peso senza nome. Al villaggio la gente non sembrava cupa e maldisposta, i sorrisi erano franchi, leggeri, e anche quando una pena si abbatteva sulle loro vite  la gente non perdeva la voglia di parlarne e non smetteva di sorridere e sperare. In questa città la gente si sfiorava appena, sfiorava le vite degli altri senza conoscerle, si mascherava dietro sorrisi che parevano smorfie.

I viaggiatori sfilavano davanti a Olga come ombre, qualcuno, come lei, aspettava appoggiato a una colonna accanto ad una valigia e guardava nel vuoto. A Olga parve di riconoscere una figura, era di spalle, una lunga treccia bionda le cadeva lungo la schiena. E’ lei, pensò Olga, è Sveta, la mia compagna, è proprio lei. In un attimo quella treccia bionda riportò Olga alle risate, alle chiacchierate davanti al caminetto, alle compagne rimaste al villaggio; risentiva le loro voci, Olga, rivedeva il suo villaggio, l’odore dell’erba appena falciata, quello dei boschi di betulle. Si ricordò di Pavel, Olga, il vecchio scontroso che abitava fuori del villaggio, riusciva a vederlo non più cupo e silenzioso, ma sorridente.

L’immaginazione si arrestò, però, ai margini del bosco di betulle, alla passeggiata che non avrebbe dovuto fare e mai avrebbe dimenticato; si arrestò davanti al silenzio raggelante e alle braccia che l’avevano avvolta, ai corpi che l’avevano schiacciata contro la terra dura, anche le betulle avevano smesso di stormire per il terrore. No, come dimenticare. Era per quello che aveva  dovuto attraversare la metà del mondo.

Ma basta, adesso c’era Sveta, pensò Olga, c’era la sua treccia bionda, c’era la sua figura che avrebbe riconosciuto tra cento. Sveta era in città.

“Eccomi qua, come vedi ho fatto presto.”

Olga sussultò, il cuore le rimbalzò nel petto, si voltò di colpo.

Olga riconobbe Leo.

“Finalmente, sono contenta di rivederti”, disse Olga in preda a una frenesia. “Non ci crederai, non ci crederai.”

“Calmati, cosa ti succede?”

“Guarda, guarda da quella parte”, disse Olga indicando l’angolo opposto: “La vedi quella…”

Leo vide scendere di colpo sul volto di Olga la disperazione, l’entusiasmo si gelò, il sorriso si mutò in una smorfia dolente, Olga quasi si accasciò, Leo dovette sostenerla.

“No, no, non è possibile, era lì, l’ho vista! Ma dove è finita, non può essere andata lontano. Vieni, andiamo ai binari, vieni.” E Olga afferrò Leo per un braccio trascinandolo dietro di sé.

“Ti vuoi calmare e spiegarmi cosa diavolo succede?”

“Era lì, l’ho vista!”

“Chi, chi hai visto? Insomma cosa ti prende, vuoi spiegarmi?”

Olga realizzò che non i suoi occhi, ma l’immaginazione aveva visto Sveta, la compagna venuta a

riportarla a casa, finalmente a casa tra la sua gente, le sue strade, gli odori familiari, e nonostante tutto insisté.

“Se corriamo riusciamo a fermarla, lei non sa che sono qui, che siamo più vicini di quanto possa immaginare.”

“Insomma”, urlò Leo, “vuoi spiegarmi cosa ti succede?”

“Sono sicura che fosse lei, Sveta, la mia Sveta, era in quell’angolo, era di spalle, ho riconosciuto la sua treccia. Ricordi, ti ho parlato delle mie compagne Sveta Irina Oksana e Anja. Era lei. Sì. E forse era proprio qui per me.”

Leo strinse Olga tra le braccia e la cullò, fece per toglierle gli occhiali scuri.

“No, ti prego, non posso, non posso.”

“Hai idea di quanto mondo c’è tra le tue amiche e questa città?”, disse Leo con calma. A Olga parve di risentire la voce di suo nonno che, quando era piccola, le raccontava storie, e sorrideva divertito davanti alla sua delusione, quando le diceva che quelle storie erano inventate.

“Ti dico che era lei, era Sveta, io la conosco, so come è fatta, conosco bene la sua treccia e… Tu non puoi saperlo, era lei.”

“Ascolta, calmati. Prova a pensarci, guardati intorno, guarda dove siamo: è la città, ci vivi da oltre sei mesi, e questa è la stazione, e il mondo è pieno di lunghe trecce bionde.”

Leo si fermò e rimase pensieroso, poi una piega che sembrava un sorriso affiorò sulle sue labbra, Olga si staccò da Leo e lo osservò, vide che sorrideva.

“Cosa diavolo ci trovi di divertente?”

“Pensavo ad Antonin e alla sua nuova ossessione, i baffuti e le bionde, se fosse stato qui avrebbe preso nota anche della tua treccia bionda.”

“Stai forse pensando che sono pazza? Dillo se è questo che pensi.”

“Non lo penso affatto, è che mi sembra tutto piuttosto buffo, ecco tutto.”

“Brutto figlio di puttana”, disse Olga fingendo risentimento: “Sicché è questo che pensi di me, che sono una povera pazza, una che vede cose che non esistono? Beh, questa te la faccio pagare, prima o poi, lo giuro, lo giuro su… lo giuro su quant’è vero che sei un frocio, ecco, così sei sistemato.”

“Oh, come sei carina. Grazie per il complimento”, si atteggiò Leo. “lo sono e non mi vergogno, eccoti sistemata.”

Il fragore di un’improvvisa risata rimbombò contro la volta e scosse dal torpore qualche viaggiatore in attesa, qualcuno puntò Olga e Leo.

“Allora, che avete da guardare”, li aggredì Leo. “Che c’è, non avete mai visto due che ridono, in questa città del cazzo?”

“Ma che dici, sei  impazzito, vuoi che ci guardino tutti? Vieni, muoviti, andiamo via da qui” e Olga

afferrò Leo per un braccio.

“Ma che ti è venuto in mente?”, disse Olga, quando ormai erano fuori dalla stazione.

“Ma non le hai viste le facce di quei due? Erano buffe.”

“Già, perché tu non ti sei guardato, ma hai visto come sei buffo conciato così?”

“Cosa c’è che non va nella mia camicia rosa e nei sandali olandesi?”

“Sì, perché i pantaloni…”

“Li ho comprati al mercato delle pulci, e allora?”

“Ma sono viola a strisce gialle, ti rendi conto? Rischi di passare per un clown in libera uscita.”

“A me piacciono così, ecco. E tu pensa al tuo taglio da maschiaccio.”

“Spiritoso!Vorrei ricordarti che sei stato tu, proprio tu a consigliarmelo, e che mi hai detto che sarei stata bene comunque, caro… Adesso che fai, sei invidioso?”

“Oh, per carità, non ci penso nemmeno, dovrei essere invidioso delle ossa che ti porti a spasso. fammi il piacere, cara.”

“Già, ma chissà perché c’è qualcuno che si volta a guardarle, queste  ossa.”

“Qualcuno che non ci vede bene, o che non ha mai visto uno scheletro girare per strada, o una…” Leo rise di nuovo.

“Avanti, di’, cosa stavi per dire, forza, non ne hai il coraggio, di’ la verità, non ne hai il coraggio. Sta’ attento a quello che dici, sai. Allora, cosa stavi per dire?”

Leo rideva piegato in due, Olga lo aspettava al varco, ma sapeva che stavano giocando, che era così, quando per un po’ svanivano i cupi presentimenti che di solito li attanagliavano. Col sole fuori e dentro, Olga e Leo scherzavano, si punzecchiavano come vecchi compagni, si sfottevano in modo crudo, a volte, crudele, perché così era più facile dimenticare il bruciore di altri morsi, perché ridere affossava la malinconia, rendeva opachi i ricordi grigi, sbiadiva le parole amare, i gesti violenti, il riso appannava l’angoscia. Era forse la primavera, il suo esordio timido dopo un inverno tiranno, forse era la luce celestina che trapelava tra i rami di platano, era forse la brezza che spirava dal fiume.

Leo e Olga percorrevano Viale della Stazione tenendosi per mano, la loro vista irritava qualche passante, ma a loro non importava. Quello che importava era essere ancora vivi, nonostante tutto, poter camminare per strada liberamente, respirare la primavera fingendo d’essersi scrollata di dosso la vecchia pelle che l’inverno, la malinconia, la nostalgia avevano cucito loro addosso. Come parevano lontani a Olga i viali della Città Nuova, i fuochi, il fiato puzzolento del magnaccia che era lì sempre a fiutarla. E come parevano sbiaditi a Leo i giorni dei collegi, dei vagabondaggi inconcludenti, delle umiliazioni impresse sulla carne e dentro l’anima. Come era distante la distilleria Kuntz.

“Hai notato le loro facce?”, disse Olga indicando i passanti.

“Sembrano tristi, come se un incantesimo li tenesse prigionieri.”

Molti dei passanti erano intabarrati in un abbigliamento pesante, come se il tocco della primavera non ne avesse ancora sfiorato i corpi e le menti.

Olga e Leo si fermarono davanti alla bancarella di un robivecchi, Via dell’arco di S. Giorgio, la stradina che portava in Piazza dei Cavalieri, ne era ingombra su entrambi i lati. Il vicoletto era contorto e in ombra e c’erano bancarelle d’ogni tipo, frutta, verdura, roba usata, vecchi cimeli di una storia recente, libri a metà prezzo e vecchie foto formato cartolina, dietro ogni bancarella un uomo o una donna seduti immobili, pareva che nemmeno si accorgessero della gente che sfilava loro davanti.

“Sembrano proprio tristi”, ribadì Leo.

Osservando i passanti, come facevano Leo e Olga, attraverso il filtro dell’allegria, si percepiva sui loro volti un senso di estraneità, di lontananza, come se stessero vivendo una vita di seconda mano, una specie di finzione, un gioco per nulla divertente che bisognava portare avanti ma senza entusiasmo, come se dietro i paraventi della finzione quotidiana ci fosse qualcuno che muovesse i fili di quella rappresentazione opprimente. Se, poniamo, per l’Albanese sarebbe stato facile intuire dietro quella finzione la presenza vigile del Professore, che per lui era diventato ormai un’entità metafisica, per i passanti, e per il resto degli abitanti della città, la presenza di un’entità impalpabile, dotata di volontà, che li sovrastasse e li manovrasse sarebbe apparsa ridicola e assurda; che qualcuno potesse condannare il loro agire a meri conati inconcludenti era cosa indegna e intollerabile. Eppure tutti, prima o poi, avevano sussurrato a denti stretti quel nome, tutti erano a conoscenza dell’esistenza di quell’entità che l’Albanese chiamava il Professore, l’Albanese non era il solo, dunque, a sospettare una sua onnipresenza, una sua pervasiva volontà. Era capitato a tutti di dover ospitare quell’entità e quel nome nel chiuso della propria opaca coscienza, e tutti l’avevano maledetta e bestemmiata, come se nominandola se ne affievolisse la presenza o se ne stingesse l’immagine. Il Professore era diventato un’idea imprescindibile. E non era, forse, una mera questione di nomi, poiché ognuno avrebbe potuto trovarne uno diverso: malessere tedio dolore disperazione malinconia; non era solo una questione di nomi, quello del Professore era conosciuto, sussurrato, maledetto, temuto.

Leo e Olga passarono in rassegna le bancarelle, curiosarono tra la paccottiglia esposta, e davanti a quella che esponeva vecchi cimeli di regime Leo si attardò a provare cappelli militari che parevano padelle; Olga maneggiò vecchie foto in bianco e nero e libri a metà prezzo, ce ne erano in russo, in ceco, in tedesco, in polacco, e foto ingiallite di famigliole in posa, di contadini accanto ai loro arnesi, di bellezze un tempo giovani e adesso probabilmente terra nella terra; e poi cartoline da ogni parte del mondo. Dietro una si leggeva “Saluti da Lev, non vedo l’ora di essere a casa, baci”. Davanti alla bancarella della frutta Leo chiese a Olga se avesse voglia di mangiare qualcosa.

“E i soldi dove li prendiamo?”

Leo sfilò dal taschino della camicia due banconote da dieci e le sventolò sotto il naso di Olga.

“Dove le hai prese, da dove vengono?”

“Che importa! E’ un segreto.”

“Ah, oggi è la giornata dei segreti. Me lo dici da dove arrivano questi soldi?”

“Non ha importanza, ti dico, allora, vuoi qualcosa da mangiare o no?”

Comprarono due banane e due arance, Olga annusò l’arancia e la divorò dopo averne staccato la buccia a brani, poi fu la volta della banana, nella sua bocca l’afrore dell’arancia si fuse con la fragranza delicata della banana in una miscela intensa e fatata.

“Erano mesi che non mangiavo frutta, adesso mi sento un’altra, ma dove diavolo hai preso i soldi?”

“Se la pianti di chiedermelo, forse te lo dirò, ma non oggi, non adesso. E poi ti ho detto che è un segreto e… Insomma ognuno ne ha uno, questo è il mio, e piantala di farmi domande.”

“Va bene, ho capito, non te la prendere, era solo curiosità, se non vuoi dirmelo, affari tuoi, vorrà dire che non ti parlerò più di me e di Viktor, perciò, d’ora in poi, non farmi più domande in proposito, chiaro?”

“Non che ci sia molto da dire”, ridacchiò Leo, “sono solo fantasie, le tue voglio dire, fantasie e nient’altro, non fai che raccontarmi di quanto gli vuoi bene, che forse ne sei innamorata, che vorresti parlargliene ma non sai come fare e bla bla bla, fino ad ora non mi sembra granché.”

Olga non replicò, del resto Leo aveva ragione.

“Guarda che scherzavo, non prendertela. Perché non parli?”

“Non ho niente da dire, è semplice. E lasciami perdere.”

Percorsero Via dell’Arco di S. Giorgio senza parlare, Leo sentiva di aver esagerato, il silenzio di Olga lo metteva a disagio; non si diedero nemmeno la pena di dare un’occhiata a botteghe e negoziettini, di cui Via dell’Arco di S. Giorgio era stracolma.

Via dell’Arco di S. Giorgio si snodava come una S che allungava le sue spire da un capo all’altro della Città Vecchia, e sarebbe stata comunque affascinante anche senza la miriade di negozi; intersecava vicoletti stretti nei quali il sole faticava ad infiltrarsi, sicché percorrerla d’estate, Via dell’Arco di S. Giorgio, era un vero refrigerio, anche se quassù l’estate non aveva ore lunghe ed estenuanti come il Mezzogiorno, non conosceva lo stordimento dell’afa, né l’ottundimento di pomeriggi di ozio inerte. In primavera era ancora possibile percepire l’alito dell’inverno, in Via dell’Arco di S. Giorgio; a sfiorarle, infatti, le pietre delle case, squadrate e annerite dal tempo, si aveva la sensazione che imprigionassero ancora i ruggiti dell’inverno appena trascorso. Le pietre del selciato erano nere e rozzamente squadrate, appena levigate da un secolare calpestio, come certe lapidi della Cattedrale. C’erano taverne e birrerie, si serviva una birra scura, pastosa e opaca, e una chiara e trasparente che potevi bere d’un fiato. Stemmi araldici, bassorilievi e iscrizioni in latino parevano materializzarsi dalla pietra dei palazzi, stravaganti animali dall’espressione accigliata stavano a guardia di archi a ogiva e portoni sbarrati, figure svettanti dai volti giocondi o atterriti incombevano sui passanti, per lo più turisti distratti.

Mancava poco a Piazza dei Cavalieri, giusto il tempo di incrociare Via della Torre del Diavolo, che a seguirla ti portava all’altro capo della piazza. La Torre, si narrava, era stata la prigione di un famoso medico e alchimista che aveva realizzato e ottenuto la pietra filosofale, fatto imprigionare dal re al quale aveva negato la formula e il procedimento e con quello l’illusione dell’immortalità.

E fu proprio all’angolo tra Via dell’Arco di S. Giorgio e Via della Torre del Diavolo che Olga si sentì tirare da un lato senza preavviso, vide solo l’espressione allarmata di Leo, che la spostava dalla sua parte e la costringeva a rintanarsi in una botteguccia in penombra; Leo le intimò di tacere e non protestare.

Olga si ritrovò in una specie di antro, una spelonca dalle pareti spesse e una volta a crociera talmente bassa che se avesse sollevato un braccio avrebbe potuto sfiorarla; e poi c’era un terribile odore di muffa e chiuso che si mescolava ad altri indecifrabili.

Quando si acclimatò alla penombra, Olga si rese conto di trovarsi in una botteguccia, una della tante, senza riuscire a comprendere, a prima vista, cosa vi si vendesse. Le pareti della minuscola stanza erano ricoperte da scaffali di legno chiaro, forse abete, sui quali erano riposte in ordine cataste di carta ingiallita, da un lato, pile sbilenche di grossi volumi, e poi una miriade di oggetti ammassati alla rinfusa su tavoli bassi. Olga non si soffermò ad osservare la minutaglia che riempiva la stanza all’inverosimile, si preoccupò immediatamente di chiedere conto a Leo della bizzarra decisione.

“Ma che diavolo ti è preso?”

“Non hai visto?”

“Cosa?”

“Cosa? Chi! Alla fine della strada, all’angolo, era lì che parlottava con un tipo, e sono sicuro che dev’essere quello che lui chiama l’Albanese, non li hai visti?”

“Insomma, se mi dici di chi parli, forse ci capisco qualcosa.”

“Era Antonin, proprio in fondo alla strada, all’angolo della piazza, era fermo e parlava con uno.”

“E allora?”

“Non ho nessuna voglia di incontrarlo, perciò restiamo qui dentro per un po’, giusto il tempo che si decida ad andarsene.”

“E in questa specie di topaia che ci facciamo, me lo dici?”

“Ma non lo so, fai finta di guardarti intorno, fai finta che devi comprare qualcosa e…”

Una vocina interruppe Leo.

“Posso fare qualcosa per voi?”

Un signore basso e asciutto, con una folta capigliatura bianca, un paio di occhiali da miope sulla punta del naso sottile e un vecchio volume tra le mani inanellate sopraggiunse alle loro spalle, la voce era acuta ma ferma, e si era piantato al centro della stanza, osservava Leo e Olga dal basso della sua statura, specialmente Leo.

“Posso fare qualcosa per voi?”

Leo farfugliò una scusa, un pretesto che al signore non dovette sembrare convincente, il signore sospirò.

“Ho capito, fate con comodo”, disse il signore, “potete restare quanto volete e guardare se…”

sospirò di nuovo e sollevò le spalle, “se c’è qualcosa che può interessarvi,” e scrutò nuovamente Leo con un’espressione di amaro scetticismo. “Solo, vorrei pregarvi di maneggiare la carta con cura e indossare, se necessario, i guanti  che troverete su quel tavolino all’angolo.”

Olga e Leo si guardarono intorno, si mossero a piccoli passi lungo gli scaffali e si resero conto che quelli che sembravano soltanto vecchi libri ingialliti, o fogli di carta impilata, erano in realtà libri antichi e pergamene, e dovevano anche essere preziosi, se lo sguardo del signore non li abbandonava per un attimo, seguendo le loro mosse con apprensione. Leo si infilò i guanti, prese tra le mani un codice minato, doveva essere scritto in latino, per quello che ne capiva, e doveva essere una specie di trattato, o una collezione di erboristeria, ogni pagina era finemente decorata intorno a varietà di piante disegnate a mano, o così gli sembrava. Olga si avvicinò invece alle pile di fogli dopo essersi infilata i guanti; si rese conto che si trattava di vecchie copie di giornali scritti nella lingua del posto, perciò non riuscì a comprendere nemmeno una parola, però chiamò Leo con un bisbiglio.

“Che roba è?”
“Si tratta di un giornale, Narodny Listy, quelli che vedi sono tutti vecchi numeri” e ritornò allo scaffale dei libri.

Il proprietario si era sistemato su uno sgabello accanto ad una finestrella e spiava ora la strada ora i due. Soprattutto Leo, che dopo aver sfogliato il codice miniato lo posò con estrema disinvoltura sullo scaffale, disinvoltura che fece trasalire il proprietario, il quale giudicò rude il gesto; avrebbe voluto alzarsi e rimbrottare quel giovanotto stravagante, spiegargli che avrebbe dovuto fare con più garbo e delicatezza, per carità, e invece se ne rimase inchiodato allo sgabello, si accasciò, emise un sospiro di rassegnazione e tornò a sbirciare attraverso la finestrella.

Quando Olga emise un gridolino che squarciò il silenzio polveroso della botteguccia, il signore

ebbe un nuovo sobbalzo, quell’impertinenza dovette sembrargli un affronto ai secoli che riposavano indisturbati tra i codici e le pergamene; anche Leo si voltò di scatto, vide Olga che teneva tra le mani una copia di quei vecchi giornali e fissava stupefatta la prima pagina. Olga fece un cenno, Leo si avvicinò.

“Guarda, guarda qui, guarda!” Olga fremeva.

“Cosa c’è, cosa devo guardare?”

Olga non riusciva a spiegarsi, era rimasta con la bocca spalancata e le parole sembravano essersi ingolfate in gola.

“Questa foto, guarda questa foto, guarda, guarda!”

“Cos’ha di particolare, che cosa devo guardare?”

“Guarda, guarda bene. E’ lui, non lo riconosci, è proprio lui, sono sicura, sono sicura.”

“Lui chi?”, stava dicendo Leo, ma fu interrotto dalla vocina del proprietario.

“Ho notato che la signorina è particolarmente interessata a questa vecchia copia del Narodny Listy. Ha intenzione di acquistarla?”

“Non so, non lo so… Volevo sapere… Ma non importa, non importa”, farfugliò Olga.

“Come vuole.” Il proprietario tornò a sedersi allo sgabello, più che mai rassegnato.

“Hai visto questa foto? E’ lui, è Viktor. C’è la sua foto su questo giornale.”

Leo lesse il titolo dell’articolo sopra la foto: “ ‘Indimenticabile recital del pianista italo-tedesco’ ”. E poi: “ ‘Pubblico in delirio per un’interpretazione che non esitiamo a definire storica’. Mi sembra il resoconto di un concerto.”

“Sì, ma guarda la foto, è quella di Viktor. Parla di Viktor, ti rendi conto, di Viktor.”

“Purtroppo è stata l’ultima volta che si è esibito in pubblico, dopo quel concerto al Teatro Nazionale si è come eclissato, sparito, nessuno lo ha più sentito suonare, e quel che è peggio, nessuno lo ha più visto, come se fosse morto”, intervenne di nuovo il proprietario, che aveva notato l’inconsueta agitazione di Olga.

“Sa dirci il suo nome, il nome di questo signore della foto? Sa come si chiamava?”

“Ma è lui, è proprio lui, Viktor Hoffmann-de Caroli, ne sono certo, quella sera al teatro c’ero anch’io, non volevo perdermi quel concerto per nulla al mondo, è stato grandioso. Eh, ormai sono passati quasi dieci anni da quella sera, dopo quel concerto nessuno lo ha più sentito né visto, come vi dicevo, sembra si sia dissolto. Quello che tiene tra le mani, signorina, è un numero del Narodny Listy di dieci anni fa, è la recensione di quella serata memorabile al Teatro Nazionale. Io c’ero.”

“Quanto costa, quanto costa se voglio acquistarlo il giornale?”
“Allora le interessa?”

“Sì sì, ma quanto costa?”

“Sa, non saprei, è la prima volta che vendo una copia di un vecchio giornale. Io li tengo perché mi piace raccoglierli e conservarli, proprio non saprei. Se proprio le interessa, facciamo venti centesimi.”

Olga guardò Leo implorante, Leo fece un’espressione per dire ‘che ce ne facciamo di un vecchio giornale’, ma Olga lo supplicò con lo sguardo, allora Leo sfilò dal taschino della camicia una moneta da venti e la porse al proprietario.

“Volete che lo pieghi e lo avvolga in un foglio di carta, o lo portate via così?”

“Lo portiamo via così”, disse Olga impaziente, che si impossessò del giornale e lo piegò in quattro, fece per fiondarsi fuori dalla bottega ma fu placcata da Leo.

“Aspetta, vediamo se quei due sono ancora là, affacciati e dà un’occhiata”, disse Leo.

“Non c’è nessuno.”

“Guarda bene, dovrebbero essere all’angolo, sulla sinistra.”

“Non vedo nessuno, ti dico, guarda tu stesso, se non mi credi.”

In Piazza dei Cavalieri sedettero sulla panchina sbilenca sotto il platano, e mentre Leo si guardava intorno  sospettoso, Olga tirò fuori la copia del Narodny Listy e lo spiegò. La foto in bianco e nero di Viktor calamitò la sua attenzione.

“Dai, leggi e dimmi cosa dice”. Leo lesse.

“ ‘Indimenticabile recital del pianista ital…”

“No, non quello, leggi il resto.”

“Allora, vediamo… ‘Pochi recital, come quello di ieri sera al Teatro Nazionale, si può dire che si imprimano indelebilmente nella memoria di un pubblico esigente come il nostro, e quando ciò accade vuol dire che siamo in presenza di un interprete dalle doti tecniche impareggiabili, oseremmo dire sovrumane. L’evento è stato di quelli irripetibili, così come la statura dell’interprete, il giovane pianista italo-tedesco Viktor Hoffmann-de Caroli, che si sta imponendo all’attenzione del pubblico europeo e statunitense, grazie ad una serie di esibizioni che hanno toccato i maggiori teatri e sale da concerto del Vecchio e del Nuovo mondo. Il programma non era dei più semplici e agevoli per un interprete, né dei più accessibili al grande pubblico. Si trattava, infatti, dell’integrale degli Studi op. 10 e op. 25 di Frederic Ko…pin…Ciopin…’ non so come si pronuncia, insomma questo tipo dev’essere l’autore delle musiche.”

“Lo hai mai sentito nominare?”

“E’ la prima volta.”

“Vabbè, dài, continua.”

“Dunque, dove siamo arrivati. Ah, ecco, allora dice che ‘il maestro ci ha offerto un’interpretazione smagliante, meditata e intensa, come non è dato ascoltare dagli interpreti della nuova schiera di pianisti che si sono avvicendati nel nostro Teatro. Formatosi in patria alla prestigiosa Accademia Nazionale di Musica, e perfezionatosi presso la altrettanto rinomata scuola russa di Irina Vishnevskaya, ha intrapreso la carriera da giovanissimo, in recital e con l’orchestra, in un repertorio di tutto rispetto, che annovera autori quali Beethoven, Listz, Brahms, Schumann e, naturalmente quello che pare essere il suo preferito del maestro, Frederic…’. Di nuovo questo nome…cKopin, beh, insomma quello lì.”

“Non importa, continua.”

“Calma, dammi il tempo di rifiatare. Allora: ‘Sia detto per inciso, e con grande rammarico, pare che il maestro non abbia molto in simpatia le atmosfere asettiche delle sale di incisione, questo spiega perché a tutt’oggi non esistano in commercio incisioni delle sue impareggiabili interpretazioni; c’è solo da augurarsi che il maestro cambi idea in proposito e non privi, così, il suo affezionato e sempre più numeroso pubblico della sua presenza irrinunciabile attraverso le sue incisioni; la sua giovane età ci autorizza a sperare che col tempo il maestro torni sulla sua decisione, che per il momento pare irrevocabile, e non privi non solo noi, suoi contemporanei, ma anche le future generazioni e in definitiva la storia dell’interpretazione pianistica di una presenza, una traccia preziosa e indispensabile che, ne siamo certi, rimarrà a lungo come un riferimento imprescindibile.

La serata si è conclusa con due bis, il Preludio e Fuga in do maggiore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato, di J. S. Bach, e la Mazurca op. 33 n. 4 di F. Kopin Ciopin’ insomma lo stesso di prima. ‘L’entusiasmo incontenibile del pubblico ha fatto sentire al maestro Hoffman-de Caroli il suo affetto, l’ammirazione e la speranza di poterlo avere al più presto nuovamente con noi’. Beh, è finito. Mi pare una cosa grossa, che ne pensi?”

Olga rimase muta in una specie di torpore stuporoso, lo sguardo fisso all’erbetta tra i piedi e le mani giunte che si tormentavano in modo irrefrenabile. È così che stanno le cose, pensava, è proprio lui quello della foto. Era come se di colpo le si fosse spalancato uno scenario troppo grandioso per essere compreso, una prospettiva nella quale perfino nelle sue fantasie che concernevano lei e Viktor  era mai riuscita a spingersi. Lo sconosciuto incontrato per caso una sera d’autunno, quello col quale divideva la vita da qualche mese, l’unico che si era abbassato su di lei senza pretendere di succhiarle l’anima, aveva un volto definitivo, dei contorni, un nome, aveva alle spalle una vita della quale lei ignorava tutto.

Quell’articolo aveva messo dentro Olga una nuova malinconia. Adesso Olga sentiva assurde le sue aspettative, sentiva quanto sciocca fosse la sua pretesa di entrare a far parte del mondo di Viktor. Lui doveva aver vissuto giorni migliori, forse più felici, e lei come avrebbe potuto aprirsi un varco nella grandiosità di quella vita, chi era lei per poter solo pensare di trovare un posto nell’anima di Viktor. Lei, una ragazzina senza storia, senza passato e probabilmente senza futuro, lei col suo minuscolo e ridicolo universo che conteneva il villaggio e le compagne, il suo passato di pettegolezzi intorno al camino e la somma di avvenimenti insignificanti ai quali la memoria cercava ostinatamente di restare attaccata, come se fossero così preziosi da pretendere la dignità di uno spessore; quel qualcosa in più che adesso sapeva di Viktor ricacciava lei indietro. Immaginava il passato di Viktor come una fila di porte che non sarebbe mai riuscita ad aprire, la sua esistenza passata piena di avvenimenti, persone, luoghi e pensieri molto più grandi di lei, tutte cose che non avrebbero potuto trovar posto nella sua esistenza nemmeno se di vite ne avesse vissute altre cento in fila. Per questo Olga era divenuta all’improvviso molto triste. Lei che si era illusa di poter stanare Viktor, forzare la sua ritrosia, il suo silenzio, sciogliere il suo dolore, quello che si metteva tra lui e lei come un muro invisibile e invalicabile.

Adesso che Olga ne sapeva di più, si sentiva davvero triste, sconfortata, impotente. E come poteva essere accaduto, si domandava Olga, che da lì, dalle pagine dei giornali,  Viktor si era ritrovato sulla strada, a percorrere la Città Vecchia come un barbone qualsiasi? Come poteva essere accaduto che i giorni felici – perché non aveva dubbi Olga, i giorni passati di Viktor dovevano essere stati felici – si fossero mutati in un insensato pellegrinaggio? E le sue notti, quelle passate, come erano state? Quelle di adesso erano abitate dal silenzio e la solitudine. E Amelia, quella Amelia, dov’era in quei giorni, e dov’è adesso?

Olga fissava le sue dita, sottili e lunghe, e rivedeva quelle di Viktor, inspiegabilmente pulite in quel merdaio che era la distilleria Kuntz; ripensava alla mania di Viktor di toccarsi il braccio destro con la foga di chi vorrebbe distruggerlo, di chi si accanisce contro un nemico che vorrebbe vedere allontanato dalla sua vita ma che è sempre lì, davanti agli occhi e alla mente.

Come sarebbe stata la sua vita, si domandava Olga, se avesse incrociato quel di Viktor di allora? Forse lui non si sarebbe nemmeno accorto di lei, non ne avrebbe avuto il tempo, o la voglia. E poi doveva esserci stata Amelia, quella dei sogni. Forse aveva ragione Leo quando la prendeva in giro per le sue fantasie senza speranza, sì, era una sciocca. Oh, certo che era una sciocca, ora più che mai, dopo che l’articolo del giornale aveva appena sollevato un velo, lasciandole intravedere soltanto alcune pieghe della vita complicata di Viktor.

“Che ti prende? Sei diventata di colpo pensierosa? Non sarà per Viktor, per l’articolo?”

“Lasciami in pace, non ho voglia di parlare.”

“Come vuoi. Ascolta, mi è venuta un’idea, ti va di ascoltarla?”

“Sentiamo, dai.”

“Stavo pensando… beh, per la verità ci avevo pensato stamattina, insomma, pensavo che potremmo prendere un battello e fare un giro fuori città.”
“Dove pensavi di andare?”

“Non so, pensavo di andare dalle parti del Parco dei Cigni Neri, dicono che sia molto bello, c’è un bosco, un castello. Potremmo restare lì per il resto della giornata, che ne pensi?”
“Non so, non ho molta voglia di muovermi.”
“E cosa intendi  fare, startene seduta su questa panchina tutto il tempo? O pensi che sia già ora di tornare alla distilleria? Sai che divertimento! Ah, ma scusami, adesso capisco, non vedi l’ora di tornare da Viktor, il tuo Viktor.”

Olga volse verso Leo uno sguardo feroce, cattivo, Leo vide Olga impallidire, vide le sue labbra diventare livide e tremare, e temette che lo avrebbe aggredito.

“Perdonami”, si affrettò a dire Leo, “davvero, ti chiedo scusa, ho detto una cosa stupida, perdonami.”

Leo fece per mettere un braccio intorno alla spalla di Olga, ma lei lo respinse, lo allontanò e gli sferrò una manata nello stomaco, lui si piegò in due, si contrasse su se stesso e gemette.

“Ben mi sta”, disse Leo, “così imparo a tenere la bocca chiusa.”

Quando il dolore allo stomaco si fu sedato, Leo si risollevò.

“Facciamo pace, ti va?”

“Non ci penso nemmeno, va’ all’inferno.”

“D’accordo, ci vado, ma mi farebbe piacere che mi facessi compagnia, hai visto mai che anche da quelle parti fosse uguale a qui, almeno avrei qualcuno con cui chiacchierare. No, sul serio, cosa ne pensi se andassimo fuori città?”

“Ci servono i soldi per il battello. Oh, dimenticavo, i soldi ce li abbiamo, chissà come e perché, ma stamattina siamo ricchi, possiamo permetterci follie: la frutta, il giornale, adesso il battello, e non mi hai ancora detto come te li sei procurati.”

Olga fissò Leo negli occhi, lo scrutò profondamente come se volesse denudargli l’anima poi, d’un tratto, rimase sorpresa davanti all’imbarazzo di Leo, come se un pensiero appena affacciatosi alla mente prendesse corpo, un’intuizione fulminante la fece sorridere.

“No, non mi dire che… No, non è possibile. Le banconote, la stazione… Non posso crederci. Ecco qual era l’appuntamento, ecco dove sei andato quando mi hai lasciata sola; brutto figlio di puttana, sei andato… Sei un marchettaro, ti fai pagare per…”

Olga scoppiò in una risata incontenibile, liberatoria, rinfrancante.

“Sei un marchettaro, ti fai pagare per prenderlo nel culo, è così, dimmi, è così?”

“Non sempre, qualche volta, quando ho bisogno di… Quando mi capita di incontrare qualcuno che mi piace. Non lo faccio per lavoro, lo faccio perché mi va e perché è l’unica maniera… Non so fare altro, non potrei fare altro, in questa città. Capisci? Non giudicarmi male, ti prego.”

“Non ti giudico affatto, solo potevi dirmelo subito che fai il marchettaro.”

“E poi non è come pensi tu, non lo prendo nel culo, non sempre, faccio…altro, ecco.”

“Resti sempre un fottuto marchettaro, ecco.”

“Va bene, d’accordo, pensala come ti pare, ma non era di questo che stavamo parlando, se non sbaglio; si stava decidendo se andare fuori città, e la signorina non si è ancora degnata di dare una risposta, se vuole essere così gentile da dirci cosa ne pensa.”

“Non parlare come un marchettaro, brutto marchettaro. Ma sì, perché no, andiamoci, andiamo a visitare questo parco, tanto siamo ricchi, abbiamo i soldi, possiamo permetterci follie, d’ora in avanti. Adesso capisco i vestiti, il profumo… Deve renderti bene eh, marchettaro?”
“Piantala e pensa per te.”

Sul battello ‘Aurora’ Olga e Leo si sistemarono a poppa dopo aver superato una corta passerella. Un signore anziano con cappello da marinaio e il viso infestato da rughe li squadrò, fece una leggera smorfia quando i suoi vecchi occhi rimasero abbacinati dai colori smaglianti dei pantaloni di Leo, e chiese loro i biglietti, indicò un posto sul fondo del battello e rimase ad osservarli fin quando non si furono seduti. Il battello si mosse borbottando, non prima di aver emesso un grido lancinante che spaventò uno stuolo di gabbiani che poltriva lungo la banchina del molo. Il battello scivolò sul fiume, si mosse lento accompagnato da un brontolio e seguito da una scia giallastra che ristagnava a lungo sulla superficie dell’acqua, gorgogliava prima di dissolversi in bolle minuscole che dopo un po’ esplodevano; qualche gabbiano pensò bene di seguire il battello per un tratto, poi tornò ad appollaiarsi sulla più sicura passerella del molo.

Leo osservava con soggezione gli antichi palazzi che fiancheggiavano le sponde, fantasticando sulla vita che un tempo doveva essere stata vissuta tra quelle mura; adesso parevano disabitati, lasciati lì apposta per fare da quinte maestose al fiume, al suo corpo che veniva da lontano e andava ancora più lontano, a perdersi nelle acque di un mare così distante da sembrare fiabesco, dopo aver vagato per mezzo continente, aver ascoltato le parlate più strane e bagnato sponde di ogni colore.

Olga teneva tra le mani il vecchio giornale e sfiorava appena con la punta delle dita l’immagine sbiadita di Viktor, quando ancora era giovane, ben vestito, quando doveva apparire bello come un eroe e avere davanti una vita che scivolava senza sforzo. Percorreva i caratteri incomprensibili, soffermandosi con le dita su parole che schiudevano scenari di un’esistenza che oramai apparteneva a un altro.

Non parlavano, Leo e Olga. Di tanto in tanto Leo incrociava lo sguardo di Olga; non parlavano ma si tenevano vicini, e questo dava loro una serenità che pareva non poter essere scalfita da nulla. Erano vicini, come le loro volontà, i loro mondi precari fatti di paure, speranze appena immaginate dentro ma non dette, per timore che un sortilegio potesse avvelenarle. Seduti sul fondo del battello che li cullava Leo e Olga sentivano per una volta di non doversi guardare le spalle, sentivano che l’angoscia di dover sopravvivere non poteva toccarli, raggiungerli su quel battello che si teneva distante dal mondo, in quella terra di nessuno fatta di acqua, di schiuma, di borbottii, di voci ovattate che a tratti arrivavano dalle sponde lontane. Si sentivano al sicuro. Non avevano certo voglia di preoccuparsi che qualcuno potesse seguirli, che qualcuno li stesse cercando, spiando, non avevano bisogno di guardarsi le spalle.

Non immaginavano, Leo e Olga, che Antonin fosse sulle loro tracce, non li avesse mai persi di vista da quando erano usciti dal negozietto polveroso. Antonin li pedinava da quando era tornato a concedersi a un suo rinato delirio.

Da quando poi Antonin aveva conosciuto l’Albanese, le sue speranze di redimere l’umanità erano diventate qualcosa di più di una mera promessa, era sua intima e ferma convinzione che il nuovo compagno doveva essere in contatto con qualcuno molto in alto, uno che vedeva e conosceva, che aveva sotto di sé i destini dell’umanità e aveva mandato lui, l’Albanese, a preparare la nuova epifania. E da quando le bionde e i baffuti avevano preso a dare corpo al suo delirio, Olga e Leo erano divenuti, nella sua immaginazione, i primi da tenere d’occhio, benché Leo fosse sfornito di baffi. Ma Olga era bionda, e lui l’aveva detestata fin dal primo momento. Aveva cercato in tutti i modi di fare intendere a Leo che l’amicizia con quella ragazza gli avrebbe procurato solo guai; aveva presentito, Antonin, che il potere ammagliante di quella ragazza avrebbe indotto Leo a passare dalla parte del nemico. Era probabile che al momento giusto, quando le cose si sarebbero rimesse a scorrere nel verso desiderato, quando il mondo si sarebbe incamminato nella direzione da Antonin sempre auspicata, e che adesso il nuovo compagno, l’Albanese, gli lasciava intravedere come qualcosa di più di un’aspirazione, Leo sarebbe stato tra il novero di coloro che avrebbero pagato per non aver voluto dare ascolto ai suoi ammonimenti, e lui non avrebbe potuto far nulla per salvarlo.

Il nuovo compagno di Antonin, l’Albanese, glielo faceva intendere senza dubbio, e lui sapeva come il mondo doveva girare, aveva le idee molto chiare, e aveva dalla sua il misterioso personaggio che chiamava ‘il Professore’.

Antonin aveva seguito Leo e Olga su un altro battello, e non aveva dubbi che li avrebbe ritrovati, li percepiva come un animale fiuta una preda a grande distanza, e se ne stava acquattato a poppa, a veder scorrere sotto di sé l’acqua del fiume.

 

Francesco De Nigris

 

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