Gehenna (Cap. 2)

CAPITOLO 2

Alle nove di sera, Stefan e l’Albanese si trovarono al Cigno Nero. L’Albanese aveva in mano una copia de La Gazzetta letteraria. La mattina, al telefono, Stefan s’era raccomandato coll’Albanese di portare quel giornale e di tenerlo ben in vista, perché così gli avevano ordinato. L’Albanese i giornali non li leggeva, li utilizzava per avviare i fuochi delle ragazze che controllava nella sua zona, o per ripulirsi le scarpe inzaccherate, quando aveva dovuto rincorrere quelle che avevano provato a svignarsela e si erano rifugiate nei boschi intorno alla città. L’Albanese era molto convincente e le ragazze lo temevano. Si muoveva in città con disinvoltura, nonostante non fosse la sua città, e nel giro di pochi mesi da che era arrivato s’era infilato nei giri giusti, aveva conosciuto le persone che contavano e s’era guadagnato la rispettabilità di quanti sopravvivevano all’ombra del Professore. L’Albanese era conosciuto soprattutto per la sua crudeltà.

Quanto al Professore, non lo aveva mai visto, e del resto pochi potevano dire di conoscerlo, a lui questa fortuna non era ancora capitata. Tuttavia, nei confronti del Professore l’Albanese aveva sviluppato un complesso sentimento di affetto-riconoscenza-idealizzazione, e una sottomissione fondata più sull’aura che il nome evocava che sulla constatazione di dati oggettivi; ne ignorava perfino il vero nome, e quando aveva provato a domandare in giro lo avevano raggelato con sguardi arcigni – per giunta faceva fatica a pronunciare quell’appellativo in una lingua che non era la sua. L’unico contatto che per ora lo legava al Professore era Stefan.

Era la prima volta che l’Albanese e Stefan si incontravano, e mentre lo attendeva sotto l’insegna del Cigno Nero, l’Albanese si esercitava nell’immaginarne i tratti del volto. Non era  un vano esercizio che lo aiutava nell’attesa, di Stefan l’Albanese conosceva solo la voce al telefono e da quella aveva cercato di risalire ai suoi lineamenti, ma aveva dovuto arrendersi all’indeterminatezza. Per esempio: era biondo – qui molti lo erano – o scuro di capelli? Gli occhi erano chiari o come i suoi? Era alto magro grasso giovane vecchio…?

Dai toni della voce, l’Albanese immaginava Stefan maturo, gentile, ma più di questo non sapeva, perciò l’attesa rendeva l’Albanese impaziente e apprensivo e il freddo che gli falciava il viso lo metteva di cattivo umore.

Quando Stefan arrivò nei pressi della taverna attraversò la strada e passeggiò per qualche minuto senza distogliere lo sguardo dall’ingresso del Cigno Nero, scorse una sagoma minuta, un uomo avvolto in una giacca grossolana sbottonata che ostentava il petto come un bersaglio, in una mano un giornale arrotolato e platealmente appoggiato su una spalla come una carabina. Stefan sorrise all’idea grottesca che quell’uomo tenesse la posizione con zelo ritto sull’attenti, e gli venne da pensare che se gli uomini sui quali il Professore faceva affidamento avessero avuto tutti la sciocca solerzia di quel tipo, l’organizzazione della quale manovrava i fili dall’isolamento della sua casa in periferia correva seri pericoli. Per un momento Stefan pensò di andarsene, di lasciare quell’imbecille impalato per il resto della serata davanti alla sua fortezza immaginaria, magari a beccarsi un malanno con quel petto ostentatamente esposto, poi ci ripensò: era tornato del suo solito umore cupo, e attraversò la strada. A pochi passi dall’Albanese, Stefan riconobbe la testata ed ebbe la certezza di trovarsi di fronte all’uomo giusto. Provò anche un moto di disprezzo di fronte all’abbigliamento trasandato dell’Albanese, al colore brunastro della sua pelle che la scarsa illuminazione rendeva ancor più scura, gli sembrava che puzzasse, lo trovava volgare, come volgari trovava l’insieme dei tratti del viso, eccessivamente pronunciati, senza tacere delle folte sopracciglia che coprivano quasi per intero la fronte dalla quale spioveva una zazzera disordinata. Stefan non poté fare a meno di pensare che con tipi di quel genere non avrebbe voluto avere nulla a che fare, e che se era lì era solo perché glielo aveva ordinato il Professore, solo per quello. Con gente venuta da Sud a ingrossare le fila dei pezzenti, a intrufolarsi per sopravvivere negli interstizi più infetti della società non bisognava mostrare condiscendenza, bisognava ricacciarli fuori dai confini, o tenerli ben chiusi da qualche parte, lontano dalla città, pensava Stefan. Senza dire che non erano in grado di farsi capire, storpiavano in maniera indecente la lingua, gente sporca infida violenta, senza principi, pronta a vendersi pur di trovare una nicchia nella quale prosperare sguazzando nella melma dei bisogni più turpi.

A un passo dall’Albanese Stefan sentì venire dal suo corpo un afrore aspro di vino e sudore, la pelle del viso pareva ricoperta da una pellicola opaca, e non poté fare a meno di chiedersi da quanto quel tipo non si lavasse.

“Vienimi dietro.”

L’Albanese riconobbe la voce e seguì Stefan senza esitare.

“Ho detto dietro”, sottolineò Stefan, e allungò un braccio per mettere distanza tra sé e l’Albanese.

“Entro prima io, mi siedo e ordino, non voglio che ci vedano insieme.”

L’Albanese annuì, ma era deluso. Era rimasto immobile davanti all’ingresso, non s’era mosso come gli era stato ordinato, aveva tenuto il giornale alto sulla spalla, aveva fatto il suo dovere e si aspettava che per quello l’uomo gli dicesse bravo, non pretendeva che gli sorridesse o che altro, e invece lo trattava come un cane rognoso.

“Sì… signor”, rispose l’Albanese, e abbandonando la sua fiduciosa baldanza e la postura marziale, si appoggiò allo stipite dell’ingresso e attese.

L’Albanese non aveva un orologio, non ancora, ma prima o dopo ne avrebbe avuto uno, pensò, magari lo avrebbe preso a una delle ragazze, che tanto a loro cosa poteva servire, per quello che avevano da fare non ce n’era bisogno e per una sveltina bastavano pochi minuti, e loro quelle dovevano contare, un tot a notte. Non gli era piaciuto come lo aveva trattato Stefan, e comunque non gli piaceva per niente come tutti lo trattavano in questa città. E poi perché lo chiamano Albanese, aveva un nome, lui, come tutti gli altri, come dappertutto, con quel soprannome si sentiva un cane, specie quando si rivolgevano a lui per qualsiasi cosa: ‘Ehi, Albanese, vieni qui’, oppure ‘Corri, Albanese’, o ‘Sta’ buono, Albanese’. No, lui non era un cane e prima o dopo glielo avrebbe fatto vedere. Non fosse che era stato costretto a lasciare il suo Paese e arrivare fin quassù per sopravvivere. Certo, a casa sua era un’altra cosa, era rispettato, lo temevano: era a lui che si rivolgevano quando c’era da organizzare un trasporto, da trovare un gommone, da prendere ragazze e portarle dall’altra parte del mare, al suo paese era qualcuno, e quante ne aveva preso e spedito di ragazze, con le buone o con l’inganno, quante se ne era fatte sotto gli occhi dei suoi compari meravigliati, quando si era trattato di ammorbidire qualcuna delle più toste, di quelle che non ne volevano sapere. Giù al paese aveva i contatti giusti, il giro che rendeva, qui, invece, doveva fare il cagnolino e scodinzolare ogni volta che gli ordinavano di fare qualcosa, e doveva rispondere sempre sì, e far finta di fare le feste come un cane contento. Cazzo, un giorno di questi avrebbe mandato ‘affanculo tutti e si sarebbe organizzato per conto suo, senza  più leccare e scodinzolare, e nessuno più si sarebbe permesso di tenerlo a distanza, niente più ‘Albanese’, niente più ordini, gli ordini li avrebbe dati lui, era solo una questione di tempo.

Quando ritenne che i cinque minuti imposti da Stefan fossero trascorsi, l’Albanese si affacciò all’interno della locanda e si guardò intorno, c’era poca gente, una coppia al tavolo sotto la finestra a sinistra, due donne al capo opposto; sul fondo, in disparte, oltre un tramezzo di legno massiccio decorato, scorse Stefan. Si avviò spedito verso il tramezzo e lo superò. L’Albanese si ritrovò in uno spazio angusto, in penombra, notò che non c’era altra gente, sopra l’unico tavolo c’era un grosso boccale di birra e un posacenere sul quale Stefan aveva appena posato una sigaretta accesa.

L’Albanese rimase in piedi, curvo davanti a Stefan che per dei lunghi secondi lo ignorò. Stefan sorseggiava la birra e tirava boccate e distrattamente sbirciava in tralice l’Albanese, alla fine, con un gesto della mano gli intimò di sedere. L’Albanese provò a sedere accanto a Stefan.

“Non qui… di fronte.”

L’Albanese sedette rigido osservando Stefan sorseggiare la birra e aspirare ampie boccate di fumo da una sigaretta senza filtro che poi soffiava sul suo volto; in pochi secondi l’Albanese fu avvolto da una cortina acre e densa che gli tolse il respiro, tossì e si fece aria con la mano; non avrebbe voluto tossire per non dare a Stefan una soddisfazione, lo spettacolo di una ennesima umiliazione.

Stefan non parlava, lasciava correre lo sguardo dal boccale al posacenere all’espressione sottomessa dell’Albanese.

“Hai fame?”, s’informò Stefan, mentre schiacciava la cicca, senza guardare l’Albanese.

L’Albanese non rispose, fissò Stefan come se non avesse compreso.

“Allora?”

“No capito, Signor.”

“Ti ho chiesto se hai fame… vuoi qualcosa da mangiare?”

“Oh sì Signor… grazie tanto Signor, molto gentile Signor.”

Stefan squadrò l’Albanese con un’espressione tediata. Gli ripugnava trovarsi a tu per tu con un individuo che non conosceva e che avrebbe fatto a meno di incontrare, era a disagio e faceva fatica a contenere l’ostilità che l’Albanese gli suscitava; se era lì, era solo perché il Professore glielo aveva ordinato, e se aveva chiesto a questo tale se avesse fame, era solo perché pensava che fosse l’unica maniera per evitare di intavolare con lui una conversazione. Sperava di sbrigare la faccenda in poco tempo, gli avrebbe spiegato il da farsi mentre l’Albanese mangiava e se ne sarebbe andato: non c’era motivo di aspettare che avesse finito. Stefan accese un’altra sigaretta e fece cenno in direzione del bancone.

Si presentò un ometto tarchiato e completamente calvo, con un paio di occhialini posati su un naso rubizzo contornato da guance cascanti. L’ometto si avvicinò a Stefan e lo salutò con un accenno di inchino, attese di essersi adattato alla penombra e gli sorrise.

“Sei tu, come va?”, domandò premuroso l’ometto.

Il volto di Stefan si trasfigurò, si accese di un sorriso che parve portare chiarore nella penombra dello stanzino.

“Caro il nostro Jan, come stai?”

“Oh, io bene, tu piuttosto, è da tanto che non ci si vede.”

“Tutto bene. Come vanno gli affari, il locale?”

“Non mi lamento, grazie a Dio”, sbottò l’ometto in tono lamentoso.

“Qualcosa ti preoccupa?”

“Mah, cosa vuoi… Di certo non il locale… E’ Katia…”

L’ometto si fermò per dare a Stefan  il tempo di mettere i pensieri nel giusto ordine e permettergli di pescare nel mucchio quel nome che, temeva, a Stefan avrebbe detto poco, ormai. L’ometto lo incoraggiò.

“Mia figlia…”

“Oh, sì, certo, Katia, come no!”

L’ometto era indeciso se essere contento o rammaricarsi per dover affrontare con Stefan una conversazione dolorosa concernente sua figlia.

“Mi dà di che preoccuparmi.”

“Se non ricordo male, tua figlia dovrebbe essere ormai in grado di badare a se stessa…non è grandicella?”

“E’ così?”

“E dunque?”

“Oh, cosa vuoi! Viene e va quando le pare, non mi sta più ad ascoltare… ha scambiato la casa per un albergo. E questo è il meno. Ho sentito dire che frequenta delle brutte compagnie, che si è messa con uno… un tipo equivoco, quelli che l’hanno visto nel quartiere, mi hanno riferito che è uno di quelli che… insomma, pare che sia uno che vende… schifezze, non so bene cosa, l’hanno chiamato ‘fumo’, o qualcosa del genere, io non so.”

L’ometto si fermò a spiare le reazioni di Stefan, ma Stefan non mosse un muscolo, continuò a fissare l’ometto con la stessa espressione incoraggiante.

“All’inizio ci ho riso sopra, avevo creduto che ‘venditore di fumo’ volesse dire che il ragazzo era un poco di buono, davvero, ci avevo creduto… che imbecille che sono stato.”

“Tutto qui?”, sorrise Stefan.

“E’ un drogato, uno che vende droga per vivere, capisci, uno senza futuro.”

L’ometto si affannò a spiegare, irritato dal candore col quale Stefan aveva accolto le sue rivelazioni.

“E’ solo fumo, niente più che una sigaretta con qualcosa dentro, non stare ad affliggerti la vita per una sciocchezza come questa, sono i diciotto anni, niente più di questo.”

“Già, diciotto anni. Il fatto è che sono molto preoccupato, non ci dormo la notte, non so come finirà questa storia… Ci fosse una madre, almeno lei avrebbe  potuto starle più vicino, avrebbe potuto consigliarla, sai com’è, tra donne… io non lo so, non so cosa fare.”

Solo allora l’ometto si accorse della presenza di un’ombra alla sua sinistra, sobbalzò, si confuse e guardò Stefan con tono di rimprovero.

“Potevi dirmi che non eri solo.”

“Chi, lui? Non ci fare caso, è solo di passaggio e dubito che abbia capito di cosa stessimo parlando. Portagli qualcosa  da mangiare.”

L’ometto si allontanò scuotendo la testa, borbottando si diresse verso il bancone e sparì dietro una porticina a molle che dava sul retro del locale.

Per tutto il tempo la sagoma dell’ometto aveva fatto ombra al viso di Stefan, adesso l’Albanese riusciva a scorgerne la metà in luce: l’espressione era cupa e indifferente, gli occhi bassi rivolti al boccale di birra. L’Albanese avrebbe voluto parlare, ma temeva Stefan, al quale non sfuggì il suo disagio.

“Che c’è, hai le spine sotto il culo?”

L’Albanese tentò di abbozzare una risposta ma fu stoppato.

“Ascolta, non sono qui perché mi fa piacere, e non mi mancava certo la tua bella faccia. Del resto, mi sembra che voialtri siate tutti uguali. Sono qui per comunicarti quello che devi fare per conto del Professore.”

“Scusa signor, no capito.”

L’Albanese si batté la fronte col palmo della mano, sorrise e dalla fessura tra le labbra sfuggì un riflesso che incuriosì Stefan. In quel momento tornò l’ometto, con un lume a petrolio in una mano e nell’altra un piatto, posò il lume al centro del tavolo e sistemò il piatto davanti all’Albanese che sorrise, mosse il capo per ringraziare e allora Stefan si accorse che l’Albanese aveva due denti d’oro. L’Albanese fissava il fondo del piatto con un’attenzione scrupolosa che all’ometto parve eccessiva: lo avvicinava, lo annusava, lo rigirava, alla fine lo depose sul tavolo e rimase interdetto.

“C’è qualcosa che non va?”

“Cosa ci essere in piatto?”

“Polpette di carne e patate”, rispose l’ometto e fece per allontanarsi.

“Quale polpette di animale?”

“Sono polpette di maiale con contorno di patate”, illustrò l’ometto, come se annunciasse la cosa più ovvia dell’intera giornata.

“No, no signor, io no può, no… no può”, disse l’Albanese e fece l’atto di restituire il piatto.

“Perché mai, è ottima roba, non sono mica avanzi, diglielo tu, Stefan, che nel mio locale si serve solo roba di prima qualità, diglielo al tuo amico, qui.”

“Non è mio amico”, disse Stefan, e all’Albanese: “Si può sapere perché non puoi mangiare questa roba?”

“Io muslimano, no potere, no grazie signor”, e l’Albanese porse il piatto scuotendo vigorosamente la testa. L’ometto non capì.

“Portagli dell’anatra, se c’è”, ordinò allora Stefan.

“D’accordo, come volete. Da bere porto una birra?”

“No signor… acqua.”

Quando l’ometto tornò, sembrava ancora disorientato, non capiva come si potesse rinunciare a un piatto come quello, lo chiedevano tutti. E poi l’acqua, con la carne! Proprio non lo capiva. Intanto notò che Stefan aveva smesso di colpo di parlare, si era irrigidito sulla sedia e fissava il posacenere a occhi bassi.

Il silenzio tra Stefan e l’Albanese era un muro di vetro. Stefan ringraziò sbrigativamente l’ometto senza dargli il tempo di finire di servire, l’ometto attese qualche secondo, sospettando che il compagno di Stefan gli chiedesse cosa ci fosse nel piatto, ma l’Albanese rimase muto, allora l’ometto si allontanò indispettito. L’Albanese ispezionò il fondo del piatto ma con meno apprensione, non annusò ma si limitò a rivoltare con la forchetta e a separare le due fette di carne, disponendole una da un lato e una dall’altra del piatto, spezzò in due un panino e ne intinse una parte nel sugo. Le operazioni si svolgevano con una lentezza e una minuziosità esasperanti, Stefan osservava l’Albanese e trovava ogni suo gesto irritante. L’Albanese non osava alzare lo sguardo, sentiva su di sé  il peso di una colpa senza nome che lo pressava, masticava lentamente e deglutiva a fatica, tratteneva ogni boccone come se ogni volta dovesse attendere l’autorizzazione di Stefan per ingoiarlo. L’Albanese si pulì le labbra con la manica della giacca e si versò dell’acqua, la sorseggiò, depose il bicchiere accanto alla bottiglia e si asciugò col dorso della mano. Quando finì di consumare il pasto, l’Albanese non aveva l’espressione soddisfatta di chi ha appena messo a tacere la fame e guarda il mondo con più benevolenza, ma rimase a testa bassa.

“Dove stai di casa?”

“Dove capita signor… dove trovo.”

“La città la conosci bene?”

“Sono capace di… non mi perde.”

“Già, ne sono convinto, perché il lavoro che dovrai fare per conto del Professore ti toccherà farlo da solo, e dovrai girare molto, suppongo.”

“Quale è lavoro?”

“Si tratta di ritrovare una ragazza.”

“No lei riesce trovare strada di casa?”, ridacchiò l’Albanese.

“C’è poco da ridere, devi trovarla. Al Professore non piacciono gli sprechi, e la ragazza è stata comprata.”

“Ma io no sa come fare, no conosce lei, no mai vista.”

“Sono in pochi ad averla vista, purtroppo, è arrivata in città da poco insieme a un gruppo di ragazze arrivate con l’ultimo carico. Posso dirti solo il suo nome, Vanessa, ma non credo sia il suo vero nome, dovrebbe avere intorno ai sedici anni.”

“Perché dice scappata, forse cambiato casa, forse vivere con sua amica, forse si essere persa in questa città.”

“Nessuno l’ha più vista, e pare che non ne sappiano niente neanche quelle che lavorano con lei… è scappata, è certo, nessuno l’ha più vista da oltre due settimane. Devi trovarla. Se non riuscissi a riportargliela, il Professore non te lo perdonerebbe.”

“Uhm… no sa, io no sa se può trovare lei, no conosce bene città e…”

“Hai appena detto che sei capace di non perderti, perciò datti da fare. Ricorda, il falso nome è Vanessa, ha quasi sedici anni, capelli biondi lunghi e lisci, è alta e magra, indossa un paio di jeans e una maglia di lana, è tutto quello che posso dirti, per il resto, il Professore la rivuole. Chiamami al numero che sai, se ci sono novità.”

L’Albanese si strinse nelle spalle, portò una mano alla bocca e rimase a fissare il piatto vuoto, quando provò ad obiettare che forse avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse, sollevò la testa e si accorse che il posto di Stefan era vuoto. L’ometto trovò  l’Albanese che fissava il lume, ritirò dunque piatto posate e bottiglia e raccolse le due banconote che Stefan aveva lasciato accartocciate sul tavolo. Se l’Albanese avesse avuto il tempo di incrociare lo sguardo dell’ometto, vi avrebbe letto del risentimento, un’insofferenza che era la stessa sui volti di quanti incrociava lungo le strade della città, un fastidio che indovinava nel suono di parole incomprensibili, aspre nella pronuncia ma inequivocabilmente chiare se accompagnate da gesti che gli dicevano di tenersi alla larga. Peggiore era solo il silenzio di gelo che lo avvolgeva quando metteva piede in un locale, o in un negozio, allora gli sembrava di muoversi in un mondo di fantasmi, di ombre che si irrigidivano, ammutolivano e lo fissavano dalla lontananza sospettosa dietro la quale erano barricate, e sulla pelle quel gelo era più freddo degli inverni del suo Paese, e non c’era madre o fratello, non c’era amico o donna, non c’era vino o fuoco che potessero sciogliere l’orizzonte gelato nel quale si sentiva rinchiuso.

L’Albanese uscì per strada e rabbrividì quando una folata di vento gli soffiò in faccia l’indifferenza della città, della strada deserta e della notte, che intanto si era impossessata di vicoli palazzi ponti e piazze. Vagò senza una mèta con in testa parole che gli ordinavano di cercare una ragazza che non conosceva. Camminava, ma in testa aveva le cime aspre della sua terra, che certe volte gli sembrava di ritrovare nelle facciate di alcune chiese che sembravano allungarsi all’infinito, ruvide e fitte di decorazioni fragili come i merletti che le donne del suo Paese ricamavano sui panni da portare in dote. Aveva sentito dire che erano chiese molto vecchie, che erano importanti, che gente arrivava da tutto il mondo per visitarle, e per visitare la città, che di chiese, di palazzi e castelli e piazze era piena.

Quello che l’Albanese riusciva a cogliere di questo splendore, della Storia che era passata per le stradine della Città Vecchia, erano solo pietre, per giunta consumate dal tempo, messe una sull’altra con la fatica di braccia che nessuno avrebbe mai ringraziato, ammassate in ordine e lasciate in balìa della curiosità di quanti pagavano per venire a vedere. A lui non importava che il Castello stesse in cima alla collina, accanto a una di quelle chiese che dal basso gli ricordavano le cime dei suoi monti, se poi in basso, per le strade si sentiva un cane rognoso; non aveva voglia di fermarsi a magnificare palazzi strade e ponti che tutti magnificavano, se per vivere era costretto a star dietro a un pugno di ragazze delle quali doveva portare il conto. Adesso, poi, che gli toccava girare come un bastardo e fiutare le tracce di questa Vanessa, gli sarebbe toccato vedere una città triste, attraversare vicoli lasciati sporchi dai turisti e odorare la merda lasciata dai cavalli lungo i percorsi più trafficati.

Bella storia, pensò l’Albanese nella sua lingua, inoltrandosi per i vicoli della Città Vecchia. Comunque, se voleva trovare quella ragazza non erano certo queste le strade che doveva percorrere, non era tra i tavoli di caffè deserti intorno a Piazza delle Due Corone che doveva cercare.

In inverno la città si spopolava e un velo di mestizia vestiva le facciate di chiese e palazzi e trasformava le viuzze intorno alla piazza principale in un territorio dal quale pareva che la presenza umana fosse stata bandita, sicché l’andirivieni frenetico, il brulichio che animava i vicoli d’estate, e dava da vivere a bottegai e negozianti di ogni sorta, ai numerosissimi locali che offrivano menù turistici, si spegneva di colpo, costringendo la Città Vecchia a un letargo forzato, tutti coloro che prosperavano sulle tasche dei turisti si assoggettavano al volgere del tempo e attendevano con perseveranza il ritorno di una nuova stagione di guadagni.

L’Albanese sapeva che aveva preso una direzione sbagliata, sapeva che i passi lo stavano portando lontano dai quartieri solitamente battuti dalle ragazze, chi meglio di lui poteva sapere da che parte cercare. Tuttavia, lasciò che i passi lo guidassero sempre più dentro il labirinto, tra viuzze dai nomi impronunciabili, scritti in un alfabeto per lui barbarico, per ricordargli ad ogni passo che tra quelle vie era un intruso che nessuno aveva invitato, era uno straniero. Nessuno gli avrebbe rivolto la parola e gli sguardi che avrebbe incrociato non sarebbero stati certo amichevoli. Se fosse entrato in un locale, gli sarebbe toccato scavalcare il muro invisibile della diffidenza, della curiosità ostile, ma sentiva il bisogno di sedersi per non sentirsi solo, e per una sera almeno preferiva stare alla larga dalle ragazze. E poi lo intrigava il pensiero del Professore.

Lui non lo conosceva il Professore, no, ne aveva solo sentito parlare, se lo avesse incrociato per strada gli sarebbe tranquillamente sfilato sotto il naso, eppure già sentiva di portarselo addosso, dentro, come una seconda anima. Certe volte era un pensiero assillante che non lo abbandonava intere giornate, altre volte era come una voce. E la voce prendeva forma di pensieri e lo incitava a darsi da fare, per esempio ad essere duro con le ragazze, spietato, a non lasciarsi impressionare dalle loro lagne, a non farsi incantare dalle suppliche e a non farsi infinocchiare dalle lacrime, che tanto loro ci provavano in tutti i modi. Per quanto riusciva a ricordare, la voce e tutto il resto erano iniziati da che aveva accettato di lavorare per il Professore.

Piazza dei Cavalieri era deserta, l’Albanese si diresse verso una panchina divelta e adagiata al tronco di un robusto cedro del Libano e sedette; dei tanti lampioni che la contornavano solo alcuni erano illuminati, gli altri pareva fossero stati accecati, sicché la scarsissima luce giallognola lasciava la piazza in una penombra impenetrabile. C’era però la luce dei locali, c’era il frastuono di voci che foravano le vetrine colorate e giungevano fino in piazza. Davanti a sé l’Albanese aveva lo scenario della collina, al di là del fiume, illuminata dal basso, sulla quale troneggiava il Castello, che pareva galleggiare su quella luce come una nave pronta a salpare col suo carico di torri, camminamenti, cuspidi e merli. L’Albanese fissava la collina, esplorava da lontano il Castello avvolto da una nebbiolina che saliva dal fiume e pareva tremolasse nella luce verdastra che lo avvolgeva, mentre la cupa e affilata sagoma della Cattedrale gli si opponeva.

La Città Nuova non si vedeva da quassù, non si scorgevano i viali alberati disegnati con mano ferma come un reticolo che assecondava il corso del fiume e lo tagliava a fette; non si scorgeva lo sfavillio di luci che ricopriva fittamente i viali e del quale, dal basso, saliva un pulviscolo luminescente, una gigantesca bolla d’aria luminescente che li avvolgeva. Nemmeno arrivava quassù l’ininterrotto bordone di auto che si muovevano veloci, disegnando sul fondale della notte un formicaio fitto e luminoso. Da quassù la Città Nuova pareva sprofondata, inghiottita dalla voragine scura che la collina del Castello e quella della Città Vecchia parevano arginare e piantonare con piglio severo, dopo aver visto la Città Nuova dilagare ai loro piedi. Era quassù che i turisti si arrampicavano per ammirare il corso del fiume che attraversava la città come un serpente sonnacchioso, e poi i ponti e i grandi palazzi che lo costeggiavano rimarcandone il corso da entrambi i lati. Quassù si arrivava per strade strette e tortuose per respirare un’aria antica, per attraversare massicci porticati e sentir traspirare dalle pietre umori di Medioevo e fantasie gotiche dalle facciate delle case. Quassù salivano anche gli abitanti della città a bere birra scura e a  respirare l’odore di una Storia che, nonostante l’oblio, si portavano addosso. Tutto ciò per l’Albanese non aveva alcun senso, il Castello la Cattedrale  il fiume la Città Vecchia non erano che elementi di un paesaggio che fingeva di osservare, che erano lì perché non potevano essere da un’altra parte, e dei quali ignorava tutto. Quello che lo sconcertava, semmai, erano le dimensioni, le proporzioni, la città tutta intera pareva non finisse mai, non avesse orizzonti, non ci era abituato, lui. I suoi occhi si trovavano a loro agio entro spazi imprigionati da cime alte e tormentate, sapevano riconoscere e nominare distese brulle, la sua memoria ricordava nomi di villaggi, il suo e di quelli sparsi lungo i pendii della montagna. E non comprendeva perché in tanti venissero da lontano per gironzolare tra queste strade, dalle sue parti non era mai venuto nessuno, e non usava spostarsi se non per andare a far visita ad amici e parenti dello stesso clan.

Davanti a strade e piazze affollate di turisti, l’Albanese si stupiva sempre della meraviglia che quelli mostravano al cospetto di un vecchio orologio o una torre che ai suoi occhi non aveva altro merito se non quello di aver resistito in piedi per troppi anni, alcuni dicevano secoli. Li vedeva a testa in su, i turisti, la bocca spalancata e gli occhi dilatati dallo stupore, e allora gli capitava di pensare che non avevano mai visto la sua Terra: come avrebbero reagito di fronte allo spettacolo di gole così profonde che pareva volessero raschiare la montagna fin dentro le viscere, o di boschi così fitti che facevano paura soltanto a guardarli, figuriamoci ad attraversarli?

No, tutta quella smania l’Albanese non la capiva. Non capiva perché la gente rimanesse estasiata di fronte a un mucchio di pietre messe una sull’altra.

Quando pensava così, però,  l’Albanese sentiva che la distanza che lo separava da tutta quella gente era la stessa che separava lui dalla sua Terra, e quella distanza si sommava alle altre: la lingua, che si rifiutava di imparare, tranne le poche parole per sopravvivere, le abitudini, il cibo, il modo di pensare e vestirsi, e allora si sentiva un fantasma che nessuno vedeva, un cane rognoso. E cosa può fare un fantasma? Adattarsi all’idea che nessuno lo veda. Cosa può fare un cane rognoso? Nascondersi per evitare di essere preso a calci. Cosa può fare un verme per sopravvivere? Scavarsi un buco nella melma, trovare confortevole la merda nella quale è costretto a vivere, che è sempre meglio di niente. Per questo sentiva di essere in debito di gratitudine verso il Professore per avergli dato la possibilità di lavorare, alla fine fare il guardiano alle pecore a casa sua e farlo qui alle ragazze non era così diverso…

L’Albanese fissava il pulviscolo di luce che saliva dal basso e sentiva sulla pelle quella nebbiolina opaca che intanto aveva invaso Piazza dei Cavalieri, si abbottonò la giacca e sollevò il bavero, tirò su le ginocchia e si rannicchiò per opporre resistenza al freddo. I confini della piazza, i portici e i lampioni erano sfumati da una sottile lanugine bianca che si sfaldava e ricompattava veloce, la nebbia smussava gli spigoli delle colonne e rendeva smorte le luci colorate delle vetrine, solo le voci nei locali avevano la stessa squillante intensità, ma parevano arrivare da un altrove invisibile, al di là dei confini incerti disegnati dalla nebbia. Non sapeva cosa fare, l’Albanese, se rimanere seduto a inzupparsi di nebbia e malinconia, o tornarsene nel suo buco e rimandare a domani la ricerca della ragazza, che tanto non gli sembrava un affare urgente e una notte in più non avrebbe fatto differenza. Alla notte lui era abituato, era di notte che cominciava la sua giornata, e a quest’ora avrebbe dovuto essere laggiù a tenere il conto dei capi che gli erano stati assegnati, ma l’indecisione di questa sera lo disorientava. Non era il tipo da star dietro ai tentennamenti, lui, da dare spazio ai dubbi, le sfumature dei sentimenti, i propri e quelli degli altri, lo irritavano, figuriamoci poi star dietro a voci che venivano da dentro: l’unica alla quale dava credito era la voce del Professore, le altre le considerava fastidio, e la voce del Professore non gli sembrava così risoluta, stasera.

 

 

 

Viktor e Vanessa camminavano appaiati, come facevano quando lei decideva di seguirlo nelle sue camminate inconcludenti. Non che a lei facesse piacere camminare con Viktor, o lo facesse per la smania di salire quassù alla Città Vecchia, ma certe notti l’idea di restare sola nel tugurio che divideva con Viktor la opprimeva; non tollerava il buio che incombeva sulle rovine della distilleria, temeva le ombre che si aggiravano tra i vialetti invasi da erbacce, che si muovevano a tentoni, certe volte barcollando sotto il peso dell’alcool.

E poi certi sguardi, certe occhiate di traverso le conosceva bene, ormai. Quando l’angoscia l’assaliva, si accodava a Viktor.

I due non parlavano, né si guardavano, semplicemente mettevano un passo dopo l’altro e pareva che questa operazione costasse loro fatica. La ragazza non dondolava nemmeno le braccia, le lasciava penzolare lungo i fianchi senza coordinazione, come fossero estranee al corpo cui appartenevano. Viktor pareva scivolare sulle pietre del selciato come sospeso da terra, giacché il lungo cappotto che sfiorava le caviglie gli nascondeva completamente le gambe, e teneva stretta sotto un braccio la cartella di cuoio scuro.

La coppia percorse il portico che si affacciava sulla valletta sottostante e svoltò su quello ad angolo, il più lungo, quello dove le vetrine dei locali disegnavano sul pavimento mosaici di luce sfocata.

I due si fermarono davanti alla prima vetrina e rimasero uno di fronte all’altra senza parlare, come se gesti e movimenti fossero stati precedentemente studiati. La ragazza si immobilizzò a un lato della vetrina e Viktor entrò nel locale. I minuti che trascorsero sembrarono alla ragazza interminabili, ogni secondo scandito da un tonfo in mezzo al petto, gli occhi che vagavano inquieti a scandagliare la nebbia. Poi Viktor uscì dal locale e porse alla ragazza un sacchetto di plastica che lei raccolse senza domandare. Avanzarono lungo il portico, di nuovo appaiati, e si fermarono davanti a ogni vetrina, lei sempre fuori a contare i tonfi e Viktor che entrava e usciva, e ogni volta le restituiva il sacchetto.

Davanti all’ultima vetrina Viktor e Vanessa si separarono, ma prima che lei si allontanasse restarono a lungo uno di fronte all’altra. La ragazza aveva un’espressione di supplica, le labbra contratte dicevano che aveva paura, che non avrebbe voluto attraversare da sola la distanza infinita che la separava dalla tana nella quale andava a nascondersi, perché sarebbe stato come attraversare una foresta senza alberi, né sentiero, né cielo, ma soltanto occhi che la scrutavano, la seguivano, le leggevano dentro, o la additavano e la chiamavano per nome – col suo vero nome; temeva che cento voci si sarebbero messe a bisbigliare il suo nome ad ogni angolo, e che il bisbiglio sarebbe diventato un mormorio e poi frastuono, un grido, e che il boato di quelle voci si sarebbe sparso per tutta la città. Avrebbe voluto dirlo a Viktor che aveva paura, gli avrebbe voluto urlare il suo vero nome, lì, adesso, ma la disperazione, che doveva nascondere come un segreto vergognoso, si infrangeva sull’espressione cupa di Viktor. I due si guardavano senza parlare, e allora Vanessa si arrese, non provò a protestare, soltanto indugiava come se aspettasse una parola di conforto, un viatico per la strada che aveva da percorrere, ma Viktor non parlò, fece ciò che da quando vivevano insieme non aveva osato fare: sfiorò con due dita la guancia della ragazza, e allora lei sorrise e sentì che i tonfi al centro del petto si placavano, scavavano con meno forza e insistenza, e per la prima volta si sentì meno sola. Sorrise e si avviò quasi correndo, Vanessa, col sacchetto in mano e una tenue sensazione di calore sulla guancia; correva tenendo i lembi di una giacca di lana per ripararsi dal freddo e proteggere la fiammella che portava dentro.

Viktor rimase solo, ma anch’egli tratteneva qualcosa.

Quella ragazzina gli aveva aperto sulla superficie solidificata della coscienza minuscole crepe che una miriade di solerti custodi aveva operato per richiudere, temeva voci che lo travolgessero, temeva i perché per i quali non aveva risposte; solo alla memoria era concesso farsi strada, al sogno ad occhi aperti e al delirio che gli permetteva di volgersi a un passato che non gli apparteneva più, a una esistenza ormai ceduta all’oblio, per viverne una fittizia; per questo aveva scelto la notte. Di notte gli sembrava meno crudele fingere di essere ancora vivo, gli riusciva tollerabile che l’angoscia si sciogliesse in voci di dentro che reclamavano il diritto di esistere; la notte aveva una voce diversa, vedeva con occhi diversi, era fatta di silenzi impietosi ma vergini, alleggeriti dalla zavorra del chiacchiericcio, la notte regalava a Viktor libertà, leggerezza, innocenza. Da quando la sua esistenza aveva preso a scappargli dalle dita, da quando le sue mani avevano cominciato ad obbedire a una volontà a lui ignota – un demone destatosi nella mente, che aveva preso a spadroneggiare sul corpo, trasformandolo in territorio di contesa di oscure intenzioni – ogni contatto coi suoi simili era diventato per Viktor intollerabile. Dapprima s’erano appannati i sentimenti, affievoliti, confusi e poi svaniti, l’anima si era gelata, come ritirata. Gli dèi lo avevano abbandonato, pensava Viktor, quegli stessi che lo avevano scelto perché si facesse tramite tra loro e gli uomini, affinché spiegasse agli uomini  la loro lingua, quegli dèi che adesso lo avevano abbandonato, tradito: era contro di loro, contro il loro silenzio che adesso Viktor imprecava. I rari momenti nei quali Viktor sentiva affiorare dentro un barlume della grazia che lo aveva abbandonato erano i più amari.

 

 

 

L’Albanese era riuscito ad animare un focherello e a tenerlo vivo a fatica e a quello si scaldava. Non immaginava, sollevando lo sguardo, di trovarsi di fronte la sagoma imponente di uno sconosciuto; si levò in piedi spaventato, l’Albanese, gli tremò persino il cuore. Gli venne da pensare che se il Professore esisteva per davvero – cosa della quale a volte aveva dubitato – doveva avere quella statura e quello sguardo, i medesimi occhi sbarrati di chi gli stava di fronte in questo momento. Lo sconosciuto, che l’Albanese non aveva visto arrivare, lo fissava, ma dava l’impressione di non vederlo.

“Freddo signor”, disse balbettando.

“Ho freddo anch’io… ma questo fuoco non riuscirà a scaldarmi.”

“E’ molto piccolo fuoco, ma se te avvicina te riscalda.”

L’Albanese indicò la panchina, Viktor accolse l’invito.

“Prego signor, te avvicina te siede. Anche tu straniero?”

“Da sempre.”

L’Albanese finse di capire e sorrise. Dopo un lungo silenzio, colmato dal crepitio del fuoco e dall’imbarazzo, l’Albanese domandò: “Cosa tu ha in borsa?”

Viktor strinse la cartella di cuoio e si scostò dall’Albanese.

“Prego signor… no vuole borsa, scusa questo stupido ficcanaso. Ho pensato tu solo come me, ho pensato noi facciamo chiacchiera insieme, solo questo signor… no importa me borsa, no importa davvero.”

Dopo un lungo silenzio, l’Albanese aggiunse: “Tu fortunato.”

“La fortuna s’è dimenticata di me… gli dèi mi hanno dimenticato.”

“Ma tu no solo in città, io solo, niente amici niente parenti, tu fortunato perché no solo, tu ha figlia con te, tu può parlare con lei, tu può stare a casa con lei… io solo, niente amici niente parenti, no può avere casa con nessuno… Tu fortunato con figlia.”

“Sono solo come te… come tutti.”

“Tua figlia?”

“I miei figli sono morti con me.”

“Tutti morti figli?”

“Erano vivi quando io ero vivo… quando davo del tu agli dèi, quando i miei pensieri erano i loro.”

“Ma io visto te con ragazza… tua figlia.”

“Non lo è. Abita con me. E non voglio parlarne.”

L’Albanese rimase in silenzio e di tanto in tanto spiava con discrezione il profilo di Viktor, ne era intimorito. Da quando lo sconosciuto era comparso, l’Albanese non lo aveva visto sorridere una volta, la sua aria severa e il parlare difficile gli fecero pensare che doveva essere uno che aveva studiato, anche se sembrava più pezzente di lui, da come se ne andava vestito, e almeno lui non puzzava, pensò l’Albanese. E se fosse proprio lui, il Professore? Se fosse venuto fino quassù a chiedergli conto del perché se ne stava in giro a sprecare il suo tempo, anziché star a far la guardia alle ragazze? Era stato lui, il Professore, a ordinargli di cercare quella tale, come si chiamava?, Vanessa, sapeva che il suo compito era cercarla e rimetterla al suo posto, sulla strada, era mai possibile che il Professore fosse venuto apposta fin quassù a rinfacciargli di non fare il suo dovere, e per non farsi riconoscere si era travestito da pezzente? L’Albanese volle indagare.

“Che lavoro tu fa?”

“Un tempo mi chiamavano maestro.”

“Ah, tu… tu insegna. Cosa insegna tu?”

“Spiegavo agli uomini la lingua degli dèi, mostravo loro come riconoscerne i pensieri…attraverso le mie mani passava la volontà di un dio.”

“Ah, capito. Tu viene spesso in città?”

“Percorro il labirinto tutte le notti.”

“Ha molti amici tu?”

“A me non servono.”

“Nessuno conosce te?”

“Nessuno potrebbe conoscermi. Ti conosci, tu?”

Che domanda, pensò l’Albanese. Certo che sapeva chi era: era uno che a quest’ora doveva trovarsi da un’altra parte, e invece stava qui a perdersi in chiacchiere. Avrebbe voluto mandare al diavolo questo tipo, l’Albanese, ma si sentiva inchiodato alla panchina, per giunta il fuoco si era completamente spento e non sapeva che ora fosse. E se fosse il Professore?

“Tu vuole che noi siamo amici? Anche io lavora di notte, tutte le notti su strada, possiamo fare noi compagnia. Dove tua casa? Se tu ha piacere, io può venire te trovare in tua casa.”

“Oltre il fiume, alla distilleria.”

“Conosce io quel posto, quando arrivato in città io dormiva lì, tu abita lì?”

“Sì.”

“Allora io viene trovare te qualche volta, e tu mi fare conoscere tua figlia. E’ tua figlia, no?”

Viktor si alzò, si rassettò il cappotto e fece per muoversi.

Non poteva essere il Professore, pensò l’Albanese, il Professore non può abitare alla distilleria come un pezzente qualunque. Mentre Viktor si allontanava, l’Albanese domandò:

“Professore, oh, mi perdona, volevo dire maestro, quando può trovare te di nuovo?”

“Non mi cercare”, disse Viktor, e si allontanò.

 

Francesco De Nigris

 

1 Commento

  1. Sicuramente Viktor e Vanessa si aiuteranno molto a vicenda, la scena della carezza è molto tenera. E chi l’avrebbe mai detto che l’Albanese incontrasse proprio Viktor!!! Sono curiosa di sapere come continuerà la storia


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